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Walter Tocci
Utopie ed eterotopie dell'accessibilità
3 Maggio 2011
Un lucido saggio sull’immaginario urbano a partire da una dimensione essenziale della città, e a proposito di un grande (e nefasto) progetto urbanistico realizzato

Dal libro: Future GRA. Il futuro del Grande Raccordo Anulare di Roma nella prospettiva della città metropolitana, a cura di Roberto Secchi, Prospettive, Roma 2011

Gli urbanisti e gli ingegneri del traffico si danno le spalle senza rivolgersi la parola, come accade ai parenti separati da vecchie ruggini. Una volta vivevano nella stessa casa ed era tutto più facile. Da quando però sono andati ad abitare in discipline diverse è cresciuta l'incomprensione. I saperi del territorio sono mutati come i fenomeni residenziali, non esiste più la famiglia patriarcale e le relazioni parentali si sono diradate fino a produrre una certa incomunicabilità.

Gli urbanisti si occupano del fine degli spostamenti - la destinazione d'uso di un territorio – e considerano la mobilità come uno strumento di cui avvalersi, senza accorgersi che il mezzo condiziona il fine. Al contrario, gli esperti di mobilità, ignorando il fine, non riescono neppure a usare il mezzo di cui pure si sentono padroni.

Le due professioni si sono dovute misurare con le incongruenze prodotte dalle speculari asimmetrie dei rispettivi metodi di lavoro, e ciò ha lasciato tracce perfino nel linguaggio. Gli ingegneri del traffico si sono accorti ben presto che la denominazione metteva in evidenza più l'insuccesso che il successo del loro operato. Sono passati così a definirsi in rapporto alla mobilità, che è certamente un modo più ottimistico di concepire il compito disciplinare. Gli urbanisti da quando hanno preso coscienza degli errori dello sviluppo hanno sentito il bisogno di aggiungere l'aggettivo sostenibile alle trasformazioni, come a sottolineare la volontà di riportare a equilibrio i fini con i mezzi.

Queste invenzioni linguistiche tradiscono un certo volontarismo, come se i saperi tecnici fossero insicuri del proprio operato e sentissero l'esigenza di farsi sostenere da imperativi esterni. Invece, una buona pianificazione territoriale è di per sé sostenibile e assicura la mobilità delle persone e delle cose, non come frutto di un dover essere, ma in virtù di un'archè interna al sapere tecnico. Se si mettessero a cercarla, urbanisti e ingegneri scoprirebbero di averne una in comune che è definita da una parola sempre trascurata e spesso banalizzata come l'accessibilità. Essa è il regno di condivisione tra mezzi e fini degli spostamenti, è la qualità dello spazio dal punto di vista del movimento, è il campo di forze che regola le relazioni spaziali.

Quando è assicurata l'accessibilità le raccomandazioni sulla sostenibilità diventano semplici pedanterie e gli eccessi della mobilità trovano una misura appropriata.

1. Rileggendo Foucault in automobile

L’accessibilità è la regola spazio-temporale della città. Per descrivere lo spostamento del cittadino bisogna pensare ad una regola d’uso dei luoghi piuttosto che ad un flusso in una conduttura stradale. Già nel momento in cui si rappresenta la città con i tracciati infrastrutturali si compie il primo passo verso quel riduzionismo da cui poi discendono soluzioni parziali o volontaristiche. Bisognerebbe invece rappresentare la città come un campo di forze che regola gli spostamenti delle persone.[1]

L'accessibilità strappa la mobilità all'eccesso funzionalistico e la rielabora come qualità dello spazio urbano. Non è uno specialismo del movimento, è l'archetipo del fenomeno urbano. La città infatti si afferma contro il nomadismo come nomos che limita lo spazio per rendere il tempo commensurabile alle relazioni umane.

E' proprio questo nomos spazio-temporale che entra in crisi nella città novecentesca. Ora che il secolo è alle nostre spalle possiamo interpretarne con maggiore distacco sia le invenzioni sia gli eccessi. Per certi versi è stata l'epoca più urbana, non solo quantitativamente per il grande esodo dalle campagne, ma più in generale perché la vita di città ha conformato lo spirito del tempo. Eppure, è anche vero che nessun altro secolo ha espresso saperi e pratiche del territorio così fortemente antiurbani.[2] La scala territoriale è esplosa nell'area regionale assumendo sempre più una dimensione post-urbana. La forma insediativa si è spezzata tra la via di scorrimento e il quartiere isolato. La strada è diventata un manufatto ingegneristico perdendo contemporaneamente il carattere di opera architettonica e di luogo sociale.

Dietro tale trasformazione hanno operato stati d'animo controversi. Certo, il desiderio di libertà individuale ha costituito la motivazione fondamentale. Però c'è stato anche un sentimento negativo, una Stimmung della paura che ha causato l'abbandono della città verso siti più diradati, ha ridotto la mobilità a mera questione infrastrutturale, ha esasperato la funzionalità viabilistica della strada per evitare contaminazioni pericolose con altri usi sociali.

Il vettore di queste trasformazioni è stata l'automobile, la più antiurbana delle invenzioni novecentesche. Essa è, infatti, un oggetto fuori scala rispetto alla città, sia quando è ferma perché occupa uno spazio significativo rispetto a quello delle abitazioni, sia quando si muove perché allunga il raggio delle relazioni molto al di là della scala urbana. In entrambi i casi risponde a esigenze di sicurezza. Come una sorta di protesi meccanica dell'abitazione, infatti, rafforza il senso di protezione per le persone e per le cose. Come strumento di mobilità consente, invece, la fuga dai pericoli della città, in una sorta di rinculo del movimento dell'inurbamento, con interpretazioni di vario tipo da quelle nobili delle città giardino a quelle volgari delle borgate.

L'incongruenza di scala riguarda anche la potenza di movimento, nettamente superiore alla destrezza umana nell'evitare un pericolo. Da fondamentale relazione sociale lo spostamento diventa gesto pericoloso per il prossimo. Ciò impone alla città una tecnologia di sicurezza basata sulla scissione tra infrastruttura e tessuto urbano.

Infine, l'isolamento nell'abitacolo cancella drasticamente il turbamento di vivere a stretto contatto con lo sconosciuto. La vita metropolitana aveva inventato l'artificio sociologico dell'indifferenza come forma di relazione che rende sopportabile per l'individuo l'incombere della folla. Ora, l'indifferenza diventa realmente indifferente e diventa l'isolamento dell'automobilista nell'ingorgo. Il comfort dell'abitacolo – la musica, l'aria condizionata, i vetri offuscati – è una bulimica consolazione della mancanza di relazione sociale, è la rimozione della paura dello sconosciuto.

L'esito spaziale della Stimmung della paura è un'irriducibile tendenza alla separazione. Essa smentisce le promesse della modernizzazione novecentesca. Il futurismo dell'automobile s'impantana nell'ingorgo metropolitano. L'illusione del movimento senza limiti approda all'estrema segmentazione delle relazioni. Il sogno della connessione perfetta degrada nell'irregolarità degli spazi reali.

L'uso dell'automobile in città oscilla continuamente tra l'elaborazione di un immaginario utopico e le realizzazione di eterotopie spaziali. Si deve a Michel Foucault l'analisi delle sottili relazioni tra questi paradigmi. L'utopia è un luogo perfetto in cui gli elementi si combinano in un'organica immaginazione. La sua continuità interna è pagata a prezzo di una costitutiva frattura esterna verso la realtà. L'eterotopia, al contrario, è il dominio dei luoghi assolutamente differenti “che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli”.[3] In questo caso è proprio la continuità con il reale a imporre una radicale discontinuità tra gli elementi.

L'esempio migliore di eterotopia si trova nel gioco dei bambini che costruiscono uno spazio ludico nell'angolo remoto del giardino, in soffitta o meglio ancora nella tenda degli indiani. Ma i giochi dei bambini sono pur sempre prodotti da fantasie adulte. Nell'interpretazione foucaltiana ci sono altri luoghi rappresentativi del paradigma: il manicomio, la colonia gesuitica in America latina, il villaggio vacanze, la crociera in nave.

Anche l'automobilista chiuso nell'abitacolo costituisce un'eterotopia che mostra la contrapposizione verso gli spazi pubblici, cancellati con l'appropriazione privatistica, compensati con il comfort solipsistico, neutralizzati con l'autoreferenzialità infrastrutturale e purificati con l'eliminazione della promiscuità pedonale.

La contrapposizione tra gli spazi viene trascesa nell'immaginazione di un luogo inesistente. L'utopia è un'eterotopia sublimata. Al contrario, l'eterotopia è un'utopia situata. Insieme, utopia ed eterotopia costituiscono la promessa e il fallimento dell'accessibilità.

Questa dialettica senza soluzione rivela una crisi dei fondamenti antropologici del fenomeno urbano. La ricchezza della vita urbana discende proprio dal contenimento della potenza del nomadismo. Il trattenere un'aspirazione all'illimitato non è una mera limitazione, anzi determina un incremento delle forze, dice Georg Simmel nella prima analisi sociologica del nascente fenomeno metropolitano all'inizio del Novecento.[4] Le sue parole sono più comprensibili per noi di quanto non lo fossero per i contemporanei. Solo dopo la motorizzazione di massa, infatti, di quell’aspirazione all’illimitato si può dare l’esempio concreto del dominio dell’automobile. Quando questo non ha trovato più alcuna forza di contenimento, anzi è stato assecondato costruendo conurbazioni a misura delle quattro ruote, è venuto meno l'incremento delle forze, cioè la ricchezza di opportunità della vita metropolitana.

L'impossibilità di trattenere il prometeismo novecentesco ha reso necessaria la separazione degli spazi come estrema possibilità di contenimento. Quando cade il mito futurista si frantuma in mille piani. La decadenza dell'utopia si realizza in forma di eterotopia. Allora all'utopia del movimento non rimane altro da fare che rifugiarsi nell'immaginario della suadente pubblicità delle case automobilistiche.

Le conseguenze spaziali di questa trasformazione si differenziano secondo le diverse scale di riferimento. Possiamo riassumerle in tre grandi eterotopie: la frantumazione degli insediamenti nell'area vasta; la scissione tra infrastruttura e città; l'antinomia dell'immaginario stradale.

2. La chiamiamo ancora città

L'automobile ha organizzato la fuga dalla città, secondo la lucida profezia di Henry Ford: “La città moderna è la cosa più artificiale e sgradevole del pianeta. La soluzione finale è di abbandonarla. Risolveremo il problema urbano solo andandocene”[5].

Nella prima parte del secolo questa fuga si è espressa nell'utopia delle new towns. A fine secolo si è affermata, anche in Italia, come eterotopia dello sprawl. La perfezione solare delle città satelliti è esplosa nella galassia granulare della città infinita.

La campagna si è fatta metropoli senza passare per la città. Gran parte delle città italiane sono dilagate nei rispettivi hinterland creando intorno alla parte consolidata un pulviscolo di insediamenti sparsi. Le chiamiamo ancora con i nomi storici – Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo – ma gli oggetti geografici sono molto diversi da quelli sedimentati in una storia millenaria. Si è perso il rapporto tra il nome e la cosa.

L'Italia sembra voler importare il modello insediativo americano, in aperto contrasto con i caratteri peculiari della penisola e in controtendenza rispetto agli altri paesi europei nei quali perlomeno si dibatte sui modi per contenere il fenomeno dello sprawl.[6]

I cittadini vanno ad abitare sempre più lontano e hanno bisogno comunque di recarsi in città per lavorare, con l’evidente accentuazione di tutti i fenomeni di pendolarismo. Secondo i dati dell'Isfort, negli ultimi anni (2004-9) lo spostamento medio degli italiani è aumentato di circa il 50% passando da 7.7 km a 11.4 km.[7] Quando un cittadino abbandona la vecchia residenza e va a vivere nell’hinterland è molto probabile che debba lasciare il mezzo pubblico o rinunciare a muoversi a piedi e passare all’automobile[8]. E' quello che fanno sempre di più gli italiani: nel decennio 2000-9 la modalità pedonale e ciclabile è diminuita del 17%, la quota di trasporto pubblico del 5%, mentre l'uso dell'automobile è aumentato di 8%.[9]

Il sogno delle new towns mirava a conciliare il godimento della vita in campagna con le opportunità della vita urbana. Nello sprawl tutto assume un tono più prosaico, il cittadino viene espulso dal rincaro delle abitazioni ed è condannato a tornare in città per lavorare. L'utopia della fuga dalla città era pur sempre accompagnata da una nostalgia urbana. Solo nell'eterotopia tale nostalgia ritrova la radice etimologica di malattia del ritorno, come malessere del pendolare bloccato nell'ingorgo quotidiano.

Nell'utopia delle città satelliti l'ordinamento spaziale era pensato per accrescere le libertà. Nell'eterotopia delle monadi metropolitane, invece, l'ordinamento spaziale accresce le costrizioni. Ciò prescinde da ogni giudizio di valore e si applica sia ai quartieri di lusso sia agli anonimi suburbi, proprio come le eterotopie foucaltiane trovano esempio sia nei villaggi vacanze sia nei manicomi.

Dall’ingorgo della maglia stradale solitamente si fa discendere l'esigenza di costruire nuove autostrade, le quali rendono possibile la realizzazione di nuovi quartieri isolati e lontani, con l'effetto di aggravare ulteriormente il traffico. Tutto lo sviluppo territoriale italiano è intrappolato in questo circolo vizioso. Il suo esito finale è la saturazione di vaste aree a bassa densità, nel contempo troppo vuote e troppo piene. Vuote perché costituite da insediamenti poco densi con un alto consumo di suolo pro-capite. Piene perché ormai sprovviste di corridoi liberi dove realizzare le autostrade pur necessarie a quel modello insediativo disperso. Tutti, allora, si stracciano le vesti contro il campanilismo italico che non consente di attuare le opere pubbliche e i più sofisticati denunciano la sindrome NIMBY per spiegare il fenomeno. Ma c’entra poco la psicologia sociale, è un problema strutturale determinato dalla forma territoriale diradata, la quale presenta il paradosso di strutturarsi sulle autostrade e allo stesso tempo di renderne alla lunga impossibile la realizzazione.[10]

C’era un modo alternativo per affrontare il problema. Si potevano realizzare nelle aree regionali potenti assi ferroviari, come le S.Bahn tedesche o le RER parigina, che avrebbero funzionato come travi portanti per le altre modalità di trasporto urbano (metro, tram e bus), costituendo così moderne reti integrate di trasporto. Sarebbe stato anche più facile, perché si trattava di ristrutturare impianti esistenti invece di costruirne di nuovi. Sarebbe stata anche una scelta coerente con la realizzazione dell'Alta Velocità che libera molte tracce ferroviarie per il trasporto regionale.[11]

Le infrastrutture della gomma e del ferro hanno impatti diversi sull’organizzazione del territorio. L’autostrada consente lungo tutto il suo tracciato la creazione di rendite marginali tramite la realizzazione di nuovi quartieri che non hanno bisogno di altre infrastrutture per funzionare; quindi, per i percettori di rendita è un modo relativamente facile di organizzare il territorio, anche se piuttosto grossolano per la qualità degli insediamenti. A Roma, ad esempio, negli ultimi quindici anni quasi tutte le nuove edificazioni sono state realizzate sul Grande Raccordo Anulare divenuto così l’asse portante della nuova periferia regionale.[12] Al contrario, la linea ferroviaria consente la valorizzazione immobiliare solo in punti singolari, in corrispondenza delle stazioni e spesso in condizioni fondiarie complesse che implicano la dismissione dei sedimi ferroviari. L’autostrada favorisce il diradamento urbano lungo il suo percorso, al contrario la ferrovia induce la concentrazione urbana nelle zone intorno alle stazioni. La diffusione dello sprawl poteva essere contrastata utilizzando i trasporti pubblici come regolatori dei processi insediativi. Ad impedirlo sono stati certamente interessi politici ed economici, ma anche una carenza della cultura urbanistica, soprattutto italiana.

Nel secondo dopoguerra l’esplosione della motorizzazione di massa suscitò un’attenzione scientifica verso il rapporto tra uso del suolo e trasporto. Ad inaugurare questa linea di ricerca fu il rapporto Mitchell e Rapkin dell'università di Pennsylvania nel 1954, al quale seguirono negli anni sessanta altri importanti contributi soprattutto in ambito anglosassone. L'analisi del traffico uscì dall'ambito settoriale e specialistico per divenire questione essenzialmente urbanistica. Poi gradualmente anche a livello scientifico maturò una presa d’atto della motorizzazione come variabile indipendente della pianificazione. Da quel punto si separarono le strade: la mobilità divenne un problema attuativo dell’ingegneria e l’urbanistica si limitò a considerare i trasporti come infrastrutture serventi.[13] Il pianificatore ha così rinunciato a usare il trasporto come la sua matita più potente, lamentandosi poi che il disegno venisse sbiadito. Solo negli ultimi venti anni, quando i costi dell'ingorgo sono diventati intollerabili, è maturata una nuova consapevolezza. Diversi paesi europei hanno adottato linee guida nazionali che orientano la progettazione di quartieri poggiati sulla rete del ferro.[14]

In Italia è rimasta costante la sottovalutazione delle tecniche Land-use Transport, come si vede nelle carenze dei prodotti della pianificazione e perfino nei percorsi della formazione universitaria.[15] Alla pianificazione si sostituisce spesso la retorica. È il caso del piano di Roma che a parole ha scelto la mobilità come obiettivo strategico, ma nei fatti, come dimostrano i modelli di simulazione, determina un allungamento dello spostamento medio del 31% e di conseguenza un aumento del volume di traffico, come logica conseguenza della disseminazione delle così dette centralità nelle zone esterne al Gra.[16]

3. La strada senza città

Siamo arrivati al 2010, alla meta delle proiezioni sullo sviluppo del traffico assunta dal rapporto Buchanan – Traffic in towns – elaborato da una commissione di esperti nel 1963 su incarico del ministero dei trasporti britannico.[17] Quel testo, il più importante del Novecento sulla pianificazione dei trasporti, prevedeva per quest'anno un indice di motorizzazione di un'automobile per 2.5 persone e allora apparve esagerato, ma le automobili sono diventate quasi il doppio, almeno in Italia.

Il rapporto assumeva rigorosi obiettivi di sostenibilità ambientale e applicava un metodo stringente di pianificazione integrata tra usi del suolo e viabilità, all'interno di un'accettazione piena della logica automobilistica, senza però smarrire un distacco critico verso i suoi esiti. L'ambigua benedizione (Mixed blessed) era il titolo di un saggio scritto precedentemente dal coordinatore del rapporto, l'urbanista Colin Buchanan. Nelle analisi dei casi specifici il rigore metodologico portava spesso a concludere che non vi era soluzione se si voleva assicurare un accettabile livello di qualità urbana con alti livelli di motorizzazione.

Il modello insediativo suggerito dallo studio era basato su quartieri isolati – denominati zone ambientali con un linguaggio inusuale per quei tempi – serviti all'interno da maglie viarie quasi labirintiche e connessi verso l'esterno da strade dedicate all'attraversamento del sistema urbano. La topologia era determinata esclusivamente dalle esigenze viabilistiche; in particolare, la zona ambientale veniva definita come l'unità minima in cui gli spostamenti sono generati solo al suo interno; da qui si partiva per disegnare le connessioni con altri quartieri e via via, con sezioni stradali crescenti, i collegamenti con i grandi settori urbani fino all'intera città. Da questo metodo scaturiva una marcata gerarchia della rete, scandita da ben definiti tipi stradali, da quello di vicinato fino alle grandi vie di scorrimento.

La ricerca di un equilibrio tra standard ambientali e mobilità veicolare portava ad una drastica separazione tra l'infrastruttura e l'edificato, intaccando così un rapporto costituente della forma urbana. La strada, infatti, è sempre stata la struttura che ha conferito ad un insieme di case l'aspetto di un paesaggio urbano.

Il principio gerarchico rispondeva essenzialmente ad un'esigenza di sicurezza di fronte ai pericoli determinati dall'uso dell'automobile. Non a caso il rapporto partiva da un incipit drammatico con le statistiche della mortalità sulle strade – rimaste purtroppo molto gravi a mezzo secolo di distanza, soprattutto in Italia. La motorizzazione, quindi, risvegliava in chiave moderna l'incubo della città come luogo del pericolo.

Inoltre, la difficoltà di conciliare il contrasto di scala tra il limite dello spazio e l'aspirazione all'illimitato del mezzo automobilistico spingeva verso la ricerca di una riduzione di complessità. Questa si otteneva mediante la separazione delle funzioni del movimento dagli altri momenti della vita urbana. Lo stesso paradigma si era già affermato in urbanistica con la gerarchia tra piano generale e piano particolareggiato, in seguito rafforzata dalla produzione normativa della grande stagione riformista.

L'idea del quartiere isolato e protetto dai pericoli della città percorre tutto il Novecento e si ripresenta in contesti diversi e a volte in approcci disciplinari contrastanti. Al fondo essa contiene un atteggiamento antiurbano maturato con la crisi della città industriale dell'Ottocento e sublimato nelle utopie delle città giardino del primo Novecento. Da questa tradizione comunitaria sembra voler prendere le distanze il rapporto Buchanan quando definisce la zona ambientale in base ad esclusive considerazioni funzionali della viabilità, rifiutando nettamente qualsiasi parentela con i modelli dell'unità di vicinato e tanto meno con le metodologie del sociologismo comunitario.[18] Quando però passa a esaminare i casi concreti trova una rappresentazione fedele della proposta di zona ambientale nel layout di Radburn - adottato da Clarence Stein e Henry Wright per la cittadina del New Jersey nel 1928 - e chiaramente ispirato alla dottrina dell'english garden city, in un singolare rimpallo tra le sponde atlantiche e tra i diversissimi approcci comunitari e funzionali.

È molto importante l'analisi delle fonti di Buchanan poiché rivela la complessità del percorso ideologico che porta all'elaborazione dei paradigmi tutt'ora dominanti nella pianificazione della mobilità. Perché sceglie Radburn come modello di riferimento proprio mentre rigetta l'ideologia della città giardino? Il progetto del New Jersey è il primo a introdurre all'interno del movimento comunitario un marcato principio di gerarchia stradale poiché già risente degli effetti dell'incipiente motorizzazione. La proposta di garden city di Howard (1902) era invece basata su una struttura viabilistica non gerarchica, anzi strutturata su un impianto radiale isotropico che si espandeva per anelli alternati di edificato e di spazi verdi. Radburn offre quindi un ponte tra il comunitarismo e il funzionalismo e risponde all'esigenza di tenere insieme il principio della gerarchia stradale con l'idea di una comunità chiusa. Il primo era già stato proposto da Le Corbusier, prima del progetto di Radburn, e codificato in precise prescrizioni della carta di Atene.[19] Ora, però, la commissione inglese mette l'accento sul secondo aspetto, sull'esigenza di definire uno spazio chiuso come protezione dal pericolo della motorizzazione. L'interesse del rapporto Buchanan è proprio qui, nel rendere evidente la segreta compresenza nella cultura urbana novecentesca di due tendenze divergenti, da un lato il sogno della città giardino che resiste al moderno e dall'altro la gerarchia funzionalistica che assume unilateralmente il moderno.

All'inizio degli anni sessanta comincia ad essere evidente che l'aspirazione all'illimitato dell'automobile deve essere contenuta in una gerarchia urbana. Il simmeliano incremento delle forze può prodursi solo nella piccola scala del quartiere. L'utopia del movimento decade rapidamente nell'eterotopia del recinto. La città bella può realizzarsi solo come città frantumata. La qualità della vita viene preservata in tante monadi autosufficienti, minando l'essenza stessa dell'urbano inteso come relazione tra differenze in uno spazio condiviso.

La zona ambientale è un esempio di questa riduzione della città a nuclei edilizi delimitati dalle vie di scorrimento. La sua prima proposta, come riconosce il rapporto, è venuta dal recinto (precinct) di Alker Tripp,[20] l'ingegnoso vice capo della polizia londinese, che pubblica durante la guerra un importante saggio (Town Planning and Road Traffic) sull'adeguamento della forma urbana alle esigenze del traffico. Dall'ottica specialistica dell'operatore addetto al controllo del traffico egli si pone il problema di gestire la crescente motorizzazione e trova la soluzione in un'organizzazione gerarchica dello spazio, tra il grande asse di scorrimento e il labirinto delle zone residenziali. Che sia un poliziotto, seppure brillante, ad inventare il recinto rivela la Stimmung di sicurezza che fonda le nuove tendenze della progettazione.

Tutto ciò prende le sembianze di una razionalizzazione, come se il nuovo ordine fosse determinato da neutrali esigenze funzionali, senza possibili alternative. La frammentazione dello spazio si presenta come la mera soluzione ad un problema di efficienza, negando qualsiasi presupposto ideologico. E invece è proprio la biopolitica della paura a provocare la decadenza dall'utopia della città giardino all'eterotopia delle zone ambientali.

D'altro canto, ogni eterotopia contiene un aspetto polemico più o meno consapevole, come spiega Foucault: “Si arriva così a ciò che c'è di più essenziale nelle eterotopie. Esse sono la contestazione di tutti gli altri spazi”.[21]Nel recinto di Tripp-Buchanan l'obiettivo polemico è dissimulato dalla pretesa efficienza poliziesca o ingegneristica. Eppure il bersaglio è solenne, è l'archetipo della griglia ortogonale che caratterizza l'antica città di fondazione e arriva fino alle prime codificazioni dell'urbanistica ottocentesca. Proprio questo approdo è rifiutato dalla sensibilità antiurbana dell'ideologia del recinto. Ciò porta a dimenticare i vantaggi dell'isotropia di una maglia ortogonale ed equipotenziale che, laddove è sopravvissuta nel Novecento, ha dimostrato la sua efficacia. Basti pensare al reticolo del piano Cerdà a Barcellona, senza il quale non sarebbe stato possibile sopportare la crescita del traffico, neppure con l'aiuto di forti linee su ferro.

In questa dissimulazione si viene a perdere una connessione fondamentale tra ordinamento spaziale e ordine politico, la quale è invece l'unica ermeneutica in grado di spiegare i paradigmi della pianificazione. Solo in questa ottica, infatti, si comprende la profondità concettuale del progetto buchananiano e del suo segreto nemico. Il recinto e la griglia sono in realtà le proiezioni spaziali di due ideali politici: comunità e società, chiusura e apertura, identità e relazione, democrazia del vicino di casa e democrazia dello straniero indifferente. La dialettica agisce inconsapevolmente e produce tutte le determinazioni intermedie tra i due estremi. Questa feconda tensione è oscurata dalla pretesa della cultura urbanistica di nascondere i propri presupposti ideologici sotto il mantello della giustificazione tecnica. La dissimulazione è evidente nel rapporto Buchanan, ma è solo un esempio della più generale tendenza novecentesca verso la neutralizzazione e la spoliticizzazione, denunciata con preveggenza da Carl Schmitt[22]. Non a caso si deve proprio al pensatore tedesco anche la più potente connessione tra spazio e norma nell'atto originario del dividere un territorio, il nemein da cui viene il Nomos della terra.[23]

La neutralizzazione dei presupposti ideologici ha conferito un'aura di necessità tecnica al recinto e da ciò sono scaturite conseguenze funeste nell'attuazione pratica. Traffic in Towns è un testo ormai dimenticato nella letteratura specialistica e in Italia non è più neppure disponibile in libreria, ma la sua filosofia della scissione è diventata un dogma razionale, perdendo la flessibilità metodologica che almeno nell'originale ne mitigava gli eccessi. Dai progettisti fino ai cittadini è maturata la convinzione di un'inconfutabile necessità logica nella separazione tra la città e la strada. Così, questa è diventata una mera infrastruttura, è stata derubricata dai compiti della cultura urbana e consegnata alla subcultura dell'autodromo, è entrata in contrasto con l'accessibilità, è stata tolta di mano agli architetti e affidata agli ingegneri e soprattutto ai legulei.

L'ansia securitaria ha portato all'elaborazione di un apparato normativo che impone vincoli minuziosi sulle curvature, sulle sezioni, sui margini e su ogni dettaglio costruttivo.[24] Oggi per progettare una strada non si consulta Leon Battista Alberti, ma si prende in mano la raccolta delle leggi. Infatti, la gran parte dei progetti stradali che si elaborano in Italia sono semplicemente sbagliati, quasi sempre fuori scala, senza alcun rapporto con l'edificato, rivolti solo ad un utente automobilistico - come se non esistessero pedoni, anziani e bambini - senza alcuna considerazione delle esigenze del trasporto pubblico. Nella mia esperienza di assessore alla mobilità ricordo il terrore con cui ricevevo i disegni stradali, sapendo già in anticipo che avrei dovuto correggere le follie progettuali. E quasi sempre il progettista invocava qualche norma a giustificazione delle proprie scempiaggini.

Il principio gerarchico in Buchanan era al servizio della progettazione e aveva essenzialmente il compito di distribuire i flussi nello spazio. La sua classificazione delle strade oggi è diventata pratica ingegneristica, senza alcun riferimento al contesto urbanistico, e soprattutto è stata irrigidita come principio normativo. Di conseguenza il principio gerarchico si è autonomizzato, è diventato un requisito aprioristico della progettazione, trasformandosi da soluzione a problema. Il traffico è spesso causato da costrutti ideologici sedimentati nelle abitudini sbagliate dei progettisti e dei cittadini. L'ingorgo è prima di tutto mentale.[25]

La gerarchia assunta come criterio unilaterale impone una concentrazione dei flussi anche quando non ce ne sarebbe bisogno e anzi un'isotropia sarebbe più efficiente. Disponiamo di un esempio romano per spiegare il paradosso. La Tangenziale Est non solo è brutta, ma è sbagliata come infrastruttura e, a dispetto del senso comune, è perfino dannosa per la viabilità. Infatti, la sua utilità è inversamente proporzionale alla necessità: quando non serve, ad esempio nei giorni festivi e nelle ore di scarso traffico, diventa pienamente utilizzabile, mentre quando sarebbe necessaria, nel tardo pomeriggio o al mattino, diventa di fatto inutilizzabile perché ingorgata.

Sul finire dell’anno giubilare fu elaborato un progetto di smantellamento basato sul ripristino e sullo sviluppo della rete viaria continua del piano dell'ingegner Sanjust, la quale essendo stata pensata quando urbanistica e ingegneria convivevano si dimostrava più efficace della sopraelevata disegnata dagli ingegneri della separazione negli anni sessanta. La maglia, infatti, distribuirebbe i flussi sui diversi rami, diluendone i carichi di traffico, mentre, al contrario, la tangenziale concentra i flussi su unico condotto senza alternative, producendo inevitabilmente l’ingorgo. Nel nuovo piano regolatore si è condizionato lo smantellamento alla costruzione di un dispendioso tunnel nel quadrante sud est, come se per sostituire un’idiozia se ne dovesse compiere un’altra. Sono gli ingorghi mentali a convincere gli urbanisti che per risolvere i problemi si debbano scavare gallerie invece di progettare quartieri serviti da semplici viali urbani.[26]

4. Antinomie dell'immaginario stradale

La ragione mentale dell'ingorgo non incide solo sulla qualità della strada, ma anche sugli apparati simbolici del cittadino che la usa. Non è solo un’infrastruttura, è anche un teatro in cui si recitano diversi ruoli: il viaggiatore indaffarato, il consumatore di fronte a una vetrina, il solitario mentre passeggia immerso nei propri pensieri, un gruppo di amici a chiacchierare, il povero a chiedere l’elemosina. Sono tutti modi influenti di usare la strada, ma non sono codificati una volta per tutte, può accadere che singole persone o gruppi di cittadini inventino un altro modo di usare la strada. Ad esempio, i lavavetri hanno inventato un nuovo mestiere. Ci sono tante funzioni latenti che di volta in volta diventano influenti, modi d’uso prima inconsapevoli che poi si affermano come abitudini riconosciute. C’è un continuo travaso dagli usi potenziali di uno spazio a quelli effettivi ed è un processo sociale di rielaborazione continua del paesaggio urbano.[27]

La variabilità della frontiera latente-influente e l’ampiezza di entrambi i campi costituiscono la ricchezza della funzione narrativa della strada urbana. L'intreccio tra modi di vita e immaginario collettivo fornisce materiali ricchissimi per la narrazione, come dimostra la coeva fortuna della cultura del boulevard e del grande romanzo ottocentesco.

La separazione tra infrastruttura e città blocca questo metabolismo sociale nell'uso dello spazio. La dimensione influente si restringe alla mera funzione viabilistica e non viene più alimentata dalle innovazioni della dimensione latente. Questa, anzi, sopravvive solo come diretta contestazione della riduzione automobilistica subita dalla dimensione influente. La Tangenziale Est di Roma ha suscitato tante fantasie in contrasto all'uso corrente. In uno dei suoi film Paolo Villaggio, ad esempio, ha immaginato Fantozzi che si lancia dalla finestra sullo stradone per prendere l'autobus e arrivare in tempo al posto di lavoro. Anche il Gra, in una famosa gag di Corrado Guzzanti dell'Ottavo Nano, diventa l'occasione per un tour demenziale: “Vieni con me sul Grande Raccordo Anulare che circonda la capitale, e nelle soste faremo l'amore e se nasce una bambina la chiameremo Roma”. Ma queste esasperazioni dell'immaginazione stanno proprio a testimoniare per contrasto la povertà della dimensione latente nell'uso quotidiano. Il cittadino chiuso nell'ingorgo non vede altre possibilità di fruire dell'infrastruttura. Anche chi ha progettato la sopraelevata o il raccordo ha esagerato con l'immaginazione, abbandonandosi all'utopia del volo sopra la città.

C'è un rapporto inverso tra l'immaginario del progettista e quello del cittadino. Quanto più il disegno della maglia viaria risponde alla simmeliana aspirazione all'illimitato tanto più le funzioni automobilistiche tendono a coartare ogni altra modalità d'uso e perfino la possibilità di pensarne di nuove. Quanto più il progetto insegue una presunta razionalità tanto più separa l'infrastruttura dal tessuto urbano. L'immaginario funzionalista si impone a discapito della capacità narrativa della strada. All'utopia del progettista corrisponde l'eterotopia del cittadino.

Che la strada sia senza narrazione non significa che manchi di immaginario. Anzi, la sua sfortuna è di possederne due inconciliabili tra loro, quello utopico e quello eterotopico. Il primo è organico, consapevole e ideologico. Viene elaborato da una teoria gerarchica dello spazio, codificato in manuali di ingegneria e di legislazione e sostenuto da un senso comune automobilistico. Il secondo invece è disorganico, inconsapevole e biopolitico. Esso, infatti, nascendo nel regno della scissione non può ammettere nessuna visione organica dello spazio. E d'altro canto, essendo frutto di un pensiero altrui non può permettersi un'autonoma rielaborazione nell'uso dell'infrastruttura. Infine, il suo carattere non meramente ideologico, ma biopolitico, cioè collocato tra le strutture di potere e la sfera della vita, dipende dallo specifico compito eterotopico di “creare uno spazio illusorio che indica come ancor più illusorio ogni spazio reale”.[28]

Il cittadino che si muove nella sopraelevata opera contemporaneamente con le quattro funzioni dell'immaginario connesse alla definizione di eterotopia: cancella infatti gli altri spazi urbani e allo stesso tempo li compensa in una promessa di volo dall'alto, li neutralizza creando un no-luogo senza relazione e li purifica eliminando la promiscuità col pedone e con tutte le altre modalità d'uso della strada urbana.

La più fervida esposizione della funzione narrativa della strada è stata proposta da Jane Jacobs nella descrizione dei giochi dei bambini sul marciapiede: “sguazzare nelle pozzanghere, scrivere col gesso, saltare con la corda, pattinare, giocare a palline, tirar fuori i propri tesori, chiacchierare, scambiarsi figurine... Non sarebbe naturale prendere troppo sul serio queste attività e andare in qualche posto stabilito a svolgerle in modo ufficiale e programmato. La loro attrattiva sta in parte proprio nel gusto di andare liberamente a zonzo su e giù per i marciapiedi, cosa ben diversa dallo starsene intrappolati in un recinto”.[29] E' un'istantanea della vita quotidiana del Greenwich Village con la sua bella griglia ottocentesca. Proprio da qui viene la teoria jacobsiana del nesso tra la differenza urbana e la regolarità della struttura viaria. E' una narratività che scaturisce dall'isotropia.

Di nuovo un contrasto tra l'immaginario del progettista e quello del cittadino, ma con ruoli opposti rispetto al caso precedente. Se nella sopraelevata, infatti, il progetto si librava nell'utopia lasciando alla vita quotidiana le angustie dell'eterotopia, nella strada della Jacobs accade l'inverso: la fantasia del cittadino - rappresentata a livello più alto dal bambino che gioca - si esprime proprio in virtù di una sobria adesione del progettista alla regolarità della maglia viaria. Egli rinuncia così all'invenzione futurista e si abbandona all'archetipo della città di fondazione. E' il gesto originario del progettare che genera una complessità a partire da una regolarità.

Alla promiscuità dell'uso corrisponde il pudore del progetto: nel primo le funzioni si aggiungono una all'altra e arricchiscono le relazioni, mentre nel secondo si toglie l'inessenziale per ricercare una forma pura. Si stabilisce quindi una tensione creativa tra l'eccezionale e il regolare, tra il singolare e l'universale, tra il vitale e il razionale.

Tutte le funzioni dell'eterotopia che prima si collocavano nell'uso, producendo uno straniamento, ora si ritrovano nel progetto come forza creativa. La cancellazione è volta verso la ricerca di una forma essenziale; la compensazione in quanto regolarità consente all'irregolarità di manifestarsi; la neutralizzazione dello spazio rinuncia a invadere la sfera vitale; la purificazione del disegno lascia campo libero alla complessità sociale.

La strada a la Jacobs non è solo occasione per il racconto è essa stessa una forma narrativa e anzi la più rappresentativa del fenomeno urbano nel suo complesso. La strada diventa la sineddoche della città, la parte che rappresenta il tutto. Ad un viaggiatore attento basta il fotogramma di un viale per riconoscere l'atmosfera della città preferita.

Al contrario, nella narratività della sopraelevata entra in gioco un'altra figura retorica, la sinestesia che accosta sensazioni diverse, senza alcuna possibile sintesi. La separazione tra infrastruttura e città crea un paesaggio dissonante che tiene insieme percezioni urbane tra di loro inconciliabili - l'aspirazione all'illimitato della via di scorrimento e la protezione della vita in un recinto – proprio come la sinestesia unisce in un discorso le percezioni di organi sensoriali diversi, ad esempio l'urlo nero della madre in Quasimodo. Non a caso questa figura retorica ha avuto molta fortuna nel Novecento, non solo nella poesia ermetica, ma nell'arte di Kandinskij o nella musica di Skrjabin.

Nonostante le radicali differenze entrambi i paradigmi trovano esempio nel gioco dei bambini. Nel caso della strada urbana l'attività ludica è sollecitata dall'apertura dello spazio pubblico. L'andare a zonzo sul marciapiede è possibile proprio perché quel luogo non presenta una marcata destinazione funzionale, ma è il regno della promiscuità. Al contrario, nell'eterotopia del recinto, come ricorda lo stesso Foucault, l'immaginazione ludica scaturisce da una delimitazione dello spazio, la capanna degli indiani con un immaginario sospeso tra esterno e interno. La Jacobs sottolinea questo aspetto, riservando una curiosa critica agli urbanisti dell'unità di vicinato, i quali, pur essendo tutti maschi, sarebbero mossi da un paradigma matriarcale, poiché il precinct è fondamentalmente pensato per le madri e i figli piccoli in età prescolare, non offrendo altri stimoli alle altre fasce della popolazione. In polemica con l'ortodossia urbanistica del recinto sostiene il modello Greenwich proprio con l'argomento della sicurezza, ottenuta, a suo dire, con il controllo sociale nella vita pulsante della strada. Queste letture fanciullesche dei paradigmi di mobilità, pur molto diverse, rivelano una base comune nella Stimmung di protezione degli adulti verso i figli.[30] Dietro il progetto di mobilità si affaccia la biopolitica della sicurezza.

Ma c'è un precedente ben più autorevole nella discussione sull'antinomia tra la maglia ortogonale e il recinto. Nella Politica di Aristotele si mette a confronto la griglia di Ippodamo, tipica delle città di fondazione, con la struttura labirintica delle città tradizionali che rendono “difficile l'ingresso delle truppe nemiche e difficile l'orientamento degli assalitori”. Anche lo Stagirita sceglie l'argomento della sicurezza, in questo caso di tipo militare, per valutare la bontà della maglia stradale, ma alla fine conclude con il suggerimento di mescolare entrambi i paradigmi.[31]

In un'accorta analisi del passo aristotelico Luigi Mazza dimostra che non si tratta di una soluzione salomonica, ma è un modo per porre in evidenza le intenzioni politiche che ispirano i paradigmi apparentemente tecnici della pianificazione.[32] Ippodamo infatti non inventa la griglia, la quale è anzi un archetipo urbano; come osserva Rykwert “le parole che designano le «città» primordiali appaiono tutte associate con l'idea di orientazione e di ortogonalità”.[33]

L'innovazione ippodamea consiste nell'interpretare la griglia come proiezione spaziale del progetto politico dell'isonomia della polis, in rottura con il labirinto legato alle forme arcaiche e dispotiche. Nel Novecento si ribalta il rapporto tra innovazione e tradizione: la griglia viene rifiutata come la vecchia forma ottocentesca e il labirinto di Buchanan-Tripp assume le sembianze di una moderna vita comunitaria che protegge dai pericoli della motorizzazione, come la città tradizionale, secondo la Politica, proteggeva dagli eserciti invasori.

Rimane valido ancora oggi il consiglio di Aristotele di evitare ogni aut aut tra la griglia e il labirinto, anzi di mescolarli nell'invenzione progettuale. Essi sono infatti l'alfa e l'omega del discorso sull'accessibilità e aiutano a smascherare la neutralizzazione e la spoliticizzazione della tecnica moderna. I due immaginari, proprio in quanto antitetici, rivelano che “le norme di ordinamento spaziale sono funzionali alle strategie politiche che le determinano”.[34] Quando si smarrisce questa semplice verità i paradigmi di accessibilità si autonomizzano come soluzioni tecniche e si cristallizzano nei codici normativi. Ridotti in questo modo sono in grado solo di proporre tangenziali brutte e inefficienti.

5. Il Gra come eterotopia

Tutte queste forme di decadenza dall'utopia all'eterotopia trovano la più chiara rappresentazione nel Grande Raccordo Anulare di Roma. Almeno in tre funzioni, come infrastruttura di supporto all'area regionale, come arteria di connessione della periferia romana e come luogo della narrazione metropolitana.

In primo luogo, senza quella autostrada circolare non sarebbe stato possibile realizzare l'immensa disseminazione di nuclei edilizi nell'agro romano. La bassa densità di quel modello rendeva infatti impossibile l'uso del trasporto pubblico e poteva essere solo servita dall'automobile; d'altro canto, quel caos suburbano, frutto di un micidiale mix di abusivismo e destrutturazione urbanistica, aveva bisogno di un'unica e potente infrastruttura su cui poggiare tutte le relazioni. Questa, inoltre, presentava un'intrinseca coerenza con il modo di produzione della nuova rendita urbana perché rendeva possibile tutte le trasformazioni senza porre vincoli a nessuna.

L'intima corrispondenza al perverso genius loci dell'urbanistica romana spiega come mai la realizzazione e l'adeguamento dell'opera abbia rispettato criteri ottimali di lungimiranza, coordinamento e sincronia come non è accaduto in nessun'altra decisione di assetto territoriale in tutto il secolo. La lungimiranza portò a disegnarla nel 1946 con un raggio molto ampio rispetto alla città allora esistente; il coordinamento si realizzò anticipando con l'infrastruttura la scala dell'espansione residenziale; infine, la sincronia si verificò negli anni ottanta con l'adeguamento della terza corsia proprio in contemporaneità con lo spill-over del terziario dal centro storico verso il suburbio. Quando si dice la capacità di programmare, ecco, questo è l'unico esempio riuscito, non a caso in contrasto con l'urbanistica ufficiale. Infatti, l'autostrada venne pensata fuori da qualsiasi pianificazione territoriale, fu mal tollerata dal piano del '62 e in generale è stata quasi sempre rimossa dalla cultura urbanistica.[35] Solo negli ultimi tempi si è cominciato a prendere consapevolezza che si tratta nel bene e nel male della struttura più importante della città metropolitana. E' stata ed è la vera piattaforma dello sviluppo romano su scala regionale.

Essa ha consentito nel secondo Novecento di realizzare in forma di eterotopia quel cambio di scala di Roma che nel primo Novecento era stato pensato come utopia, in almeno tre casi.[36]

Primo, il sogno fallito dei giovani del Gur, i quali negli anni trenta, in linea con il dibattito europeo di allora, immaginarono una corona di new towns sui Castelli. Esse dovevano essere collegate a Roma tramite veloci linee ferroviarie, rimanendo separate dai grandi sistemi ambientali delle pendici dei colli. Quel disegno aveva una sua modernità ed ha lasciato nella retorica dell’urbanistica odierna il fascino di un ferro che unisce e di un verde che separa. Ma la realtà è andata in senso opposto: il consumo di territorio ha travolto le separazioni del verde ed ha affidato le connessioni all’asfalto invece che al ferro.

Secondo, il misterioso piano della Cometa elaborato nel 1942, in un momento tanto inadatto a immaginare il futuro, in una capitale che ormai sotto i bombardamenti cominciava a scoprire la miseria della retorica imperiale. Non è mai stato tradotto in vincoli normativi, eppure quel piano ha diretto nei fatti lo sviluppo verso il mare fino ai giorni nostri con una cogenza che non si ritrova in nessun altro strumento urbanistico formalmente approvato.[37]

Terzo, il sogno di Piccinato che immaginava di svuotare il centro storico decentrando le funzioni direzionali sul famoso Asse Attrezzato. Lo Sdo non si è poi realizzato ma la disseminazione terziaria è avvenuta più esternamente sul Gra: senza l’ambizione del grande disegno che doveva cambiare il corso dello sviluppo, ma solo per prendere atto dei misfatti già compiuti; senza la presunzione di una nuova centralità direzionale, ma nella modestia di tante monadi lontane dal centro storico; senza il volontarismo del piano, ma più prosaicamente sulla base di non scelte e di abusivismi.

Così l'utopia novecentesca si è frammentata nell'eterotopia postmoderna. Il sogno di una grande Roma aperta verso l'area regionale si è tramutato in una paccottiglia di insediamenti nella campagna.

La stessa transizione è visibile nella funzione più propriamente viabilistica dell'infrastruttura. La sua forma circolare già rivela un'utopia della mobilità, cioè la pretesa di assicurare una connessione totale tramite una strada che stringe come in un abbraccio l'intero corpo urbano, l'illusione di andare dappertutto e alla massima velocità superando le mille fratture territoriali, la sublimazione del magma edilizio in una sorta di volo pindarico sopra la metropoli. Il Gra è realizzato tutto in rilevato, come la promessa di un mondo puro che guarda dall'alto la miseria del caos periferico.

L'innalzamento e la forma circolare sono due elementi che denunciano la componente utopica dell'anello autostradale. Essi, infatti, coincidono con i caratteri iconografici della più potente utopia urbana, la città di Dio che si innalza nella sua perfezione circolare sopra l'imperfezione della città dell'uomo. Il Gra è la città di Dio per la religione dell'automobile. L'utopia consiste nell'immaginare che l'aspirazione all'illimitato si possa attuare in una sola opera. Ma ciò avviene a discapito di tutto il resto. E comporta una pesante gerarchia della maglia viaria che non trova una forza equivalente in grado di compensarla; non emerge, quindi, il simmeliano incremento delle forze che caratterizza l’urbano, bensì la separazione totale delle relazioni tra i diversi insediamenti. I quartieri non comunicano direttamente tra loro e sono condannati a passare dal Gra per collegarsi con la città.

Così, l’utopia della connessione illimitata si ribalta nell’eterotopia della separazione inconciliabile. Il Gra unisce la città in quanto è separato da essa. E’ un atto di potenza che s’impone alla conurbazione pur evitando il suo contatto, come se avesse paura del contagio. E’ “il profilattico tra il guidatore e il paesaggio”, così lo scrittore Iain Sinclair ha definito il caso simile del London Orbital, il lungo raccordo autostradale della capitale britannica.[38]

Infine, lo stesso ribaltamento si riscontra nella capacità narrativa. Il rapporto inverso tra immaginario del progettista e del cittadino, di cui si è detto nel capitolo precedente, trova un esempio illuminante nella vicenda del Gra, il cui acronimo è stato mutuato dal cognome dell’ideatore, l’ingegner Gra, ai tempi direttore generale dell’Anas. In questo caso l’immaginario del progettista è andato al di là di ogni immaginazione, lasciando una traccia di sé nel nome che milioni di persone usano per identificare l’anello.[39] A questo vertice di autonarrazione, quasi un monologo alla Joyce del progettista, corrisponde però una totale assenza di narrazione per il cittadino. Perfino la geometria è percepita in modo radicalmente diverso; per il progettista si tratta di un cerchio, mentre al cittadino appare come una strada dritta, senza fine e senza meta.

Vengono a mancare le occasioni narrative poiché la funzione influente è schiacciata sull'uso esclusivamente automobilistico e la funzione latente è desertificata dall'ingegneria dell'infrastruttura. Di conseguenza, la narrazione può emergere solo per contrasto all'uso dominante, anzi come contestazione dell'ortodossia funzionale. In un saggio dedicato all'analisi delle politiche per le persone senza dimora Federico Bonadonna utilizza come incipit e come epilogo della trattazione il racconto di una ragazza che corre contromano sul Gra[40]:

«Gli anabbaglianti di un camion inquadrano il suo volto di adolescente. Non avrà nemmeno quindici anni e sembra già vecchia. Ha gli occhi che schizzano fuori dalle orbite e i capelli incollati sulla faccia. Apre la boccacontro le auto che sembrano andarle addosso e si vedono i suoi denti neri...

Scappa da un passato che la insegue, ma che non riuscirà mai a seminare perché si trova dentro di lei. Ed èimpossibile andare in vacanza da se stessi. Corre e piange, ma non sente le schegge di vetro perforare le piantedei suoi piedi. L'ossessione anestetizza il dolore. Corre e urla, ma nessuno la vede in questo ferragosto eterno, in questo deserto di automobili in fila una dietro l'altra, di giorno e di notte, con la pioggia sotto il sole. Non cerca la morte, non trova la vita...

Solo un nome, anzi un cognome, Gra, per una strada lunghissima, sessantotto chilometri, che circonda Roma. Il sogno dell'ingegner Eugenio Gra, direttor generale dell'azienda autonoma delle strade statali, nata nel 1946, è oggi attraversato da 58 milioni di veicoli l'anno. Ma ora c'è una donna, tra quei veicoli, una donna che correverso la parte opposta della carreggiata.»

Il commento a questa scena di vita realmente vissuta si può trovare ancora in Foucault: “l'autostrada che «consuma» le macchine di cui assicura la produzione. Al fondo di questa strada, l'ingegnere dei lavori pubblici, regolatore – agente e soggetto della regola, potere di normalizzazione e tipo di normalità... – e, d'altro canto, colui che è «fuori dal circuito» vuoi perché è l'eterno agitato, il vagabondo che non va da nessuna parte, oppure perché è il «senza dimora», immobile nel suo angolo”.[41]

Il saggio di Foucault sull'eterotopia è un libretto e lo si può tenere agevolmente sul cruscotto dell'automobile. Basta il tempo dell'ingorgo quotidiano per rileggerlo. Anche questo sarebbe un modo latente adatto a contestare la riduzione del modo influente della strada.

Se pensiamo il Gra come un'eterotopia abbiamo l'immediata consapevolezza dei suoi problemi, ma nel contempo anche una traccia delle soluzioni. I tre ribaltamenti dai sogni alla realtà, sopra illustrati, indicano le linee di intervento per un'eventuale politica di recupero urbano dell'infrastruttura. A cominciare da un avvicinamento delle due narrazioni, quella del progettista e quella del cittadino. In Foucault utopia ed eterotopia costituiscono una dialettica senza alcuna possibilità di sintesi. A cercare, invece, una sorta di conciliazione tra sogno e realtà ci ha pensato Patrick Geddes distinguendo l'eutopia concreta dall'outopia intesa come luogo inesistente.[42]

Al progettista corre l'obbligo di prendere coscienza della caduta delle utopie, non solo quelle novecentesche, anche l'ultima del policentrismo del recente Piano Regolatore Generale. Basta fare una passeggiata a Bufalotta a Ponte di Nona e a Tor Pagnotta per constatare che non si tratta di nuove centralità, ma di vecchie espansioni in forma granulare. Anche il Gra deve liberarsi dell'immaginario del fondatore, della perfezione circolare che s'impone al caos periferico. La sua gerarchia va corrosa da una diffusione reticolare. Negli interstizi della periferia bisogna intervenire per completare, connettere e contestualizzare la città esistente. Da qui possono scaturire i luoghi di mediazione tra le narrazioni del cittadino e quelle del progettista.

La periferia romana ha ormai consumato il suo territorio e anche le sue utopie. Purtroppo non è più tempo di progetti che guidano la trasformazione, ma solo di attente politiche di recupero di ciò che è stato fatto male. Non sono possibili fughe nell'immaginazione, ma solo rivoluzioni nel quotidiano. Il territorio del Gra è il laboratorio privilegiato per un'eutopia non ancora pensata.

Walter Tocci, 25-6-2010

[1] Si avvicinano all'idea di campo le mappe costruite dalla sovrapposizione dei cerchi di influenza pedonale delle stazioni della metropolitana, utilizzate da Richard Rogers per descrivere l'accessibilità a Londra, in Città per un piccolo pianeta – Edizioni Kappa, 1997, p. 119.

[2] Sull'esito antiurbano ha scritto pagine quasi apocalittiche Rem Koolhaas - Junkspace – Quodlibet, Macerata, 2006.

[3] M. Foucault - Utopie Eterotopie – Cronopio, Napoli, 2006, p. 12.

[4] G. Simmel - “Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società”, in Sociologia - Comunità, Torino 1998, p. 540.

[5]A. Flint - This Land: the Battle over Sprawl and the Future of America - Johns Hopkins University Press, 2006.

[6] “Americanizzazione dello spazio, più che americanismo e fordismo (Gramsci), è oggi un soggetto di studio e di comprensione urgente” - P. Perulli, A. Pinchieri - “La crisi italiana e il Nord”, in (a cura degli stessi autori) La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord - Einaudi, Torino, 2010, p. 13.

[7] Isfort, Rapporto su stili e comportamenti di mobilità degli italiani, aprile 2010. I dati risentono anche degli andamenti generali del ciclo economico, non solo delle modificazioni strutturali della forma urbana; infatti il dato del 2009 è migliorato rispetto a quello dell'anno precedente (12,2 km) poiché la crisi economica tende a ridurre la mobilità delle persone.

[8] Nello sprawl romano, per esempio, l’accessibilità su ferro delle zone esterne al Grande Raccordo Anulare è tre volte più bassa della media cittadina e sei volte più bassa della città consolidata - W. Tocci, I. Insolera, D. Morandi - Avanti c'è posto – Donzelli, Roma, 2008, p. 112. Sul rapporto tra residenza e mobilità: V. Kaufmann – “Mobilità urbane” – Dialoghi Internazionali. Città nel mondo, n. 7, 2008.

[9] Isfort, op. cit.

[10]A. Dufruca – “Strumenti per interpretare e governare la città diffusa: accessibilità e mobilità”, in E. Salzano e M.C. Gibelli (a cura) - No sprawl - Alinea, Firenze, 2006. pp. 143-7. La rete autostradale del nord è ormai un’infrastruttura prevalentemente di servizio locale. Ad esempio, sulla Milano-Bologna lo spostamento medio è di soli 70 kilometri.

[11]Si è realizzato negli ultimi dieci anni un pieno federalismo ferroviario, con il trasferimento di competenze del trasporto locale alle Regioni, ma i risultati sono stati disastrosi. A fronte di una aumento del pendolarismo che dal 1991 al 2006 ha riguardato circa il 10% della popolazione urbana e risorse destinate ai servizi ferroviari sono rimaste ferme e con l'ultima manovra finanziaria vengono drasticamente ridotte; si veda il Rapporto Pendolaria 2009 di Legambiente.

[12]W. Tocci – “La lezione di Roma” – L’Unità del 18-5-2008.

[13]“... questa divaricazione dopo comuni e integrate origini si è andata accentuando per segnare sensibilmente i modi della pianificazione territoriale e in particolare il modo di essere di urbanistica e trasporti, due ambiti disciplinari separati e indipendenti rinchiusi ciascuno nel proprio recinto.”, A. Fubini - “Il difficile rapporto tra pianificazione urbanistica e della mobilità”, prefazione in A. Riganti – Città, attività, spostamenti – Carocci, Roma, 2008, p. 11.

[14]La Francia ha adottato norme precise per l’integrazione trasporto-territorio nel documento SRU (Solidarité et Renouvellement Urbains 2000; iniziative simili sono state adottate in Gran Bretagna (Revision of planning policy guidance note, 2001), in Olanda (Stedenbaan Project, 2002), in Germania (Forum Bahnflächen NRW). Una panoramica delle ricerche teoriche si trova nell'ambito del progetto europeo COST 332: Transport and Land-use Policies: Resistance and Hopes for Coordination, 1996.

[15]Sulla carenza del metodo Land-use Transport nella cultura urbanistica italiana così si esprime Franco Archibugi (Rome: a new planning strategy - Routledge, UK 2005): “.. non mi risulta (e sarei lieto di essere smentito) che in Italia esista ancora un solo piano regolatore vigente e costruito negli ultimi 50 anni, che abbia applicato alla pianificazione degli insediamenti, la ottimizzazione di una strategia dei trasporti (per esempio l’obiettivo di una minimizzazione del totale degli spostamenti) e viceversa che vi sia stata una pianificazione dei trasporti che abbia inserito fra le sue ottimizzazioni delle variabili dettate dai vincoli di una strategia degli insediamenti, soprattutto dal punto di vista della qualità di questi ultimi e della accessibilità degli utenti ai servizi urbani rari”.

[16]W. Tocci, I. Insolera, D. Morandi – op. cit., p. 115.

[17]C. Buchanan – Traffic in Towns, a study of the Long Term Problems of Traffic in Urban Areas - London, 1963 - trad. it. Traffico urbano: che fare? - Marsilio, Padova, 1968. Un utile commento al rapporto si trova in: G. Preto – La politica ambientale del traffico urbano. L'insegnamento di Colin Buchanan – www.ocs.polito.it

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