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Francesco Erbani
Beni culturali? Me ne frego!
16 Marzo 2011
Beni culturali
Il rapporto del berlusconismo con il patrimonio culturale: puntuale e amaro bilancio di un’indifferenza devastante. Su MicroMega, 2, 2011 (m.p.g.)

Quanto contino i beni culturali nell’universo del berlusconismo è racchiuso nello scatto di nervi con il quale il ministro Sando Bondi ai primi di dicembre 2010 si è rivolto agli oltre settecento firmatari di una petizione a Giorgio Napolitano promossa d molte associazioni (da Italia Nostra a quella che raccoglie funzionari e tecnici del ministero, dalla Bianchi Bandinelli all’Associazione nazionale archeologi, dall’Associazione Silvia Dell’Orso alla rete dei comitati di Alberto Asor Rosa). Erano storici dell’arte, italiani e stranieri, direttori di musei, archeologi, archivisti, architetti, soprintendenti. Chiedevano le dimissioni del ministro, denunciando l’abbandono di Pompei, dove si era appena registrato l’ennesimo crollo, quello della Schola Armaturarum, e ricordando la tragedia dell’Aquila che sempre di più a Pompei andava e va assimilandosi. Per Bondi quell’appello «è l’espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura».

E, fin qui, lo sfogo del ministro, che è anche coordinatore del Pdl, fedelissimo e incrollabile interprete del berlusconismo, traballante sulla sua poltrona nonostante la Camera abbia respinto la mozione di sfiducia presentata contro di lui, si può incasellare nel generico disprezzo verso le critiche e le iniziative connesse all’esercizio dell’intelletto. Poi Bondi rivendica per sé il vero merito di un ministro dei Beni e delle attività culturali, un merito che i settecento denigratori ai suoi occhi disconoscono: aver evitato le “lungaggini”, le chiama così, dei ritrovamenti archeologici che impedivano la costruzione delle metropolitane di Roma e Napoli, e di aver spedito un commissario incaricato di snellire le procedure. Parlava come se lui fosse il ministro dello Sviluppo economico o delle Infrastrutture e non quello, appunto, dei Beni e delle attività culturali. Nell’orizzonte politico del berlusconismo i beni culturali e il paesaggio non hanno alcun rilievo.

Sono vissuti come una condizione limitativa, dalla quale si riscattano se non sono troppo ingombranti e se assumono un prezzo, cioè se possono diventare merce, oggetto da mettere a reddito o sulla quale fare affari. Oppure da vendere, come tentò di fare Giulio Tremonti nel 2002 inventando la Patrimonio Spa, un fondo nel quale collocare il patrimonio dello Stato, compreso quello storico‐artistico, in vista di una sua alienazione (il progetto poi si accartocciò miseramente su se stesso). Presi in sé, in questa logica che deforma e caricaturizza anche il liberismo più estremo, i beni cultuali appartengono a quella che appare come una nebulosa concettuale di ardita definizione. Seguono la stessa sorte che tocca ai beni comuni. Sono soggetti a una sublimazione retorica, estetizzante, sono opere‐icona, elemento di decorazione d’ambiente per un summit internazionale e per una fiera campionaria, componente d’arredo per un video‐messaggio, ma non avendo definita collocazione proprietaria, sono derubricati a terra di nessuno.

Giacimenti e miniere

L’antecedente di questa concezione mercantile si può rintracciare, come altri pezzi del mosaico berlusconiano, a metà degli anni Ottanta, quando il ministro del Lavoro del governo di Bettino Craxi, Gianni De Michelis, coniò la formula dei “giacimenti culturali”. Perché lui e non il suo collega dei Beni culturali? Perché i beni culturali non erano l’obiettivo di un’iniziativa politica, ma lo strumento per politiche d’altro genere (un po’ di lavori affidati a imprese informatiche per fumosi progetti di catalogazione). Di un bene culturale non interessavano conservazione e fruizione, ma la possibile – parola del ministro – “convenienza economica”. Anche quella vicenda si chiuse senza sostanziosi effetti. Ma da allora l’espressione tratta dal glossario industriale, “giacimento”, e i concetti che con sé trascinava hanno navigato sopra e sotto il pelo delle maree, bordeggiato a destra e a sinistra, e più volte sono riemersi. Un paio d’anni fa, a fine 2008, sono stati diversamente e più esplicitamente formulati: i musei italiani, i siti archeologici, le collezioni di monete, le quadrerie, i paesaggi e poi le biblioteche, gli archivi e quel diffuso reticolo di palazzi e di centri storici, di monumenti insigni, ma anche di piazze, di ricercati allineamenti stradali, di proporzioni architettoniche, di portali, di ringhiere in ferro battuto… ‐ tutta questa roba messa insieme, intrecciata da cordoni storicamente e culturalmente leggibili, scenario fisico e non solo in cui si sono formate identità collettive, sarebbe «una miniera di petrolio a costo zero».

Che attende di esser messa a fruttare. Parola di Mario Resca, cavaliere del lavoro, manager poliedrico –dal Casinò di Campione a McDonald’s Italia ‐ consigliere d’amministrazione Mondadori, Eni, Finbieticola e di altre aziende, amico personale di Silvio Berlusconi, appena nominato direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio a 164 mila euro l’anno, più un cospicuo staff e un palazzetto in affitto a Roma, in via dell’Umiltà, al costo di 400 mila euro l’anno (prima ospitava la Direzione per i Beni librari).

Il pensiero di Mario Resca

La designazione di Resca e le mansioni affidategli (molto inferiori rispetto a quelle che gli si voleva attribuire in un primo tempo: direttore dei musei, responsabile dei prestiti, organizzatore di mostre…) hanno assunto un aspetto simbolico dell’ideologia berlusconiana in materia. I beni culturali hanno molto più rilievo se soggetti a valorizzazione. Valorizzazione è parola equivoca, può voler dire molto o nulla, ma nel vocabolario di Resca è la parola che schiude l’edificio polveroso dei beni culturali (“polveroso” è aggettivo adoperato da Renato Brunetta a proposito dei musei), spalancando le porte all’aria fresca del mercato, del pubblico di visitatori, di privati smaniosi di investire in cultura, delle tecnologie informatiche e di riproduzione virtuale.

Non lui direttamente, ma una sua competente sostenitrice, l’onorevole Gabriella Carlucci, di fronte alle gravi perplessità avanzate da molti e al voto contrario unanimemente espresso dal Consiglio superiore dei Beni ulturali, allora presieduto da Salvatore Settis, poi sostituito da Sandro Bondi con Andrea Carandini, disse che le opposizioni volevano impedire «che in Italia la ricchezza artistica si trasform[asse] da costo insostenibile in risorsa virtuosa». Che un museo o un sito archeologico fossero, in atto o in potenza, “risorsa virtuosa” è un’idea che ha circolato a lungo, non solo nei varietà televisivi, a dispetto delle evidenti smentite provenienti da tutto il mondo, dove non c’è struttura che si finanzi con i proventi dei biglietti o che addirittura produca reddito.

Non il Louvre, tantomeno i grandi musei americani ‐ lo ha ricordato più volte Settis ‐ che sono tutti privati, ma non sono affatto orientati al profitto. Al contrario. Sono nutriti da cospicue donazioni a fondo perduto e da lasciti che godono di agevolazioni fiscali e che sono investiti sui mecati finanziari. Molti di essi sono gratuiti. Ma non occorre varcare l’oceano per rendersi conto di come funzioni il privato americano che si interessi alla cultura, bensì prendere un treno e scendere a Ercolano. Nella città vesuviana da molti anni “investe” il magnate David Packard, uno dei giganti dell’industria e della finanza internazionale, ma lo fa senza aspettarsi un soldo di utili e neanche ritorni di immagine. Finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri e per piazzare dovunque il suo logo, bensì, per esempio, per realizzare grondaie in tutti gli edifici e per recuperare il sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Evitando che le infiltrazioni facciano sbriciolare i muri. Da questi equivoci politici e culturali discendono una serie di conseguenze. La prima è di ordine quantitativo. Nel carnet delle immagini da piazzare sui mercati del turismo internazionale – altro perno del pensiero di Resca e di Bondi –, nei book da esibire alle fiere delle agenzie di viaggio non ci può entrare tutto il patrimonio culturale.

Non si può vendere quel sistema che dai musei e dalle pale d’altare rimanda ai territori circostanti, ai paesaggi che li nutrono di immagini, e che identifica uno dei maggiori pregi del patrimonio italiano. Occorre concentrarsi su poche, riconoscibili icone, quelle celebrate dalle classifiche internazionali: Pompei, il Colosseo, Brera, il Polo museale veneziano e quello fiorentino…, tutti luoghi che producono incassi elevati e che altri incassi possono garantire. Emblema di questo atteggiamento, che seleziona una cultura di serie A e lascia in malora il resto, è la costosa campagna pubblicitaria che raffigurava, afferrati da gru o da elicotteri, il Colosseo, il David di Michelangelo e il Cenacolo di Leonardo. «Se non lo visitate ve lo portiamo via», recitava la didascalia sotto ognuna di queste scene un po’ macabre, ma incuranti del fatto che quei tre capolavori sono oberati di visitatori, e che per essi sono in vigore e si invocano forme sempre più rigorose di contingentamento del pubblico.

Per ottenere questo potenziamento dell’offerta – e qui veniamo alla conseguenza numero due – le soprintendenze non vengono considerate il soggetto più adeguato. Troppo poco attrezzate nel marketing culturale, poco disposte a immaginare il bene amministrato come fonte di reddito e di sfruttamento spettacolare. Le soprintendenze vengono lasciate deperire. La tutela perde la centralità. Al suo posto subentrano la promozione, gli effetti scenici, l’uso e l’abuso di palazzi e di musei per convention e matrimoni, l’esibizione del numero di visitatori, una serie di atteggiamenti che ben si coniugano con la frenetica industria delle mostre, dell’evento, fino alla perversione dell’one painting show, l’esibizione di un solo quadro, e che alimentano una mitologia del privato che farebbe meglio del pubblico.

La terza conseguenza è il ricorso ai commissariamenti, di cui Resca è responsabile solo in parte, che mirano a due obiettivi e che in qualche modo “privatizzano” la gestione del patrimonio: esautorare ulteriormente il sistema della tutela praticato dalle soprintendenze e nominare persone che garantiscono affidabilià e che adottano criteri discrezionali per consulenze e appalti, aggirando tutti i passaggi burocratici – passaggi che rallentano anche i pochi interventi che si possono compiere ordinariamente, senza commissari, e che si potrebbero snellire, ridurre, ma che invece sono usati come alibi per agire sempre in deroga. È il modello della Protezione civile.

Le soprintendenze al collasso

Il sistema pubblico della tutela è in condizioni di grande sofferenza. E qualcuno è indotto a presagire il suo smantellamento. Un po’ per consunzione. Un po’ perché vissuto come un insopportabile ricettacolo di vincoli, di impacci, di asfissianti consuetudini intellettuali. È un sistema che ha fatto scuola in Europa ed è servito come modello in altri paesi. Ma ora arranca nel fronteggiare una lottizzazione edilizia, la costruzione di una linea ad alta velocità o anche nell’esercitare quel minimo di manutenzione che serve a frenare il naturale degrado. Il sistema è fondato, dalla legge Rosadi del 1909 in poi, sulle soprintendenze, alle quali è affidata la responsabilità di vigilare su beni archeologici, storico‐artistici, architettonici, demo‐etno‐antropologici e sul paesaggio. In esse è stato selezionato per anni un personale che alle competenze tecnico‐scientifiche (in storia dell’arte e dell’architettura, in restauro, ma anche in ingegneria statica o in urbanistica) ha affiancato quelle amministrative e giuridiche e quelle per meglio valorizzare il patrimonio (al fine, come si legge nel Codice approvato nel 2004, del miglior «sviluppo della cultura», cioè in linea con l’articolo 9 della Costituzione).

E in taluni casi si sono toccate punte d’eccellenza, sebbene da più parti si sollecitino correttivi. La Lega ha scritto nel suo programma elettorale di voler smantellare le soprintendenze, viste come un’odiosa diramazione centralistica, e questo disegno viaggia parallelamente alla trasformazione in senso federalista dello Stato, che potrebbe portare la tutela sotto il controllo di Regioni e di Comuni (lo si è tentato per Roma), di organi politici, dunque. Ma non esiste un progetto organico in materia. Se ci fosse, si sente dire, sarebbe possibile discutere e non è detto che tutte le ragioni stiano dalla parte dell’attuale sistema. In assenza però di un chiaro disegno di riforma, contro Gian Carlo Caselli, Ilda Boccassini e altri magistrati (prende 60 mila euro l’anno); la signora Marinella Martella (30 mila euro), una ricca carriera a Publitalia, segretaria di Berlusconi dal 2001 al 2010; Francesca Ghedini, pagata a rimborso spese, archeologa, sorella di Niccolò, l’avvocato di Berlusconi.

Ma che cosa accade in altri paesi? Le differenze sono abissali, in una logica inversamente proporzionale al patrimonio custodito. Nel 2010 il bilancio italiano è fermo a 1,710 miliardi, contro i 4,150 della Svezia, i 3,250 della Finlandia, i 2,900 della Francia. In Italia si taglia, ma in Germania aumentano gli stanziamenti del 3,5 per cento e negli Stati Uniti il pacchetto di provvedimenti anti‐crisi varato da Barack Obama prevede non tantissimo, ma pur sempre 50 milioni di dollari in più. E le cifre del disastro si rincorrono. Per la sola attività di tutela nel 2005 erano disponibili 335 milioni, nel 2009 sono stati 179. Meno tutela significa più degrado, più abbandono. Musei che non aprono il pomeriggio, che tengono chiuse le sale perché senza custodi. Restauri che si rimandano. Biblioteche che disdicono abbonamenti, che riducono il prestito.

Archivi storici che chiudono. Il 90 per cento delle spese sostenute dalle soprintendenze archeologiche sono per la sola manutenzione: pulizie, impianti di condizionamento, recinzioni che si rompono, bagni che perdono. Una cifra irrisoria è destinata per i restauri, e ancora meno si può spendere per nuovi scavi, che ormai si avviano solo se ci sono soldi di fondazioni bancarie, di università oppure se si fanno buchi per una metropolitana, per l’alta velocità e persino per un parcheggio interrato. Molte soprintendenze attingono ai fondi speciali per ripianare debiti o pagare bollette. Il personale addetto alla tutela è invecchiato (età media 52 anni e dieci mesi), il turn‐over è fermo e quando entro il 2014 andranno in pensione le leve entrate negli anni Settanta e Ottanta non ci sarà chi potrà sostituirle. Gli archeologi sono 350, gli storici dell’arte 490 e gli architetti 500, ma ne servirebbero – soprattutto archeologi e architetti – fra 1000 e 1500. I concorsi sono impantanati: tormentatissimo l’ultimo per soprintendenti archeologi, che ha visto chiudere solo di recente il suo travagliato iter fra Tar e Consiglio di Stato.

A ciò si è aggiunta la norma varata dal ministro Renato Brunetta che anticipa la pensione per i dirigenti del pubblico impiego con 40 anni di contributi. E così, dopo l'uscita di scena di alcuni grandi nomi della tutela, da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo, mandati via allo scadere dei 65 anni, nonostante fosse possibile trattenerli in servizio, è stata falcidiata un'intera generazione di soprintendenti, più o meno sui sessant'anni. Via molti direttori regionali. E sorprendenti alcune sostituzioni: in Sardegna al posto dell'architetto Elio Garzillo, che si è battuto contro l'assalto cementizio alla necropoli fenicia di Tuvixeddu, arriva Assunta Lorrai, che non è né architetto né storico dell'arte né archeologa e proviene dai ranghi amministrativi. In pensione anche Stefano De Caro, direttore generale dei Beni archeologici. A questo si aggiunga il carosello vorticoso dei trasferimenti, degli incarichi ad interim che sfibrerebbe qualunque amministrazione. E che va avanti da anni. A Lucca in cinque anni sono cambiati cinque soprintendenti.

Dopo il pensionamento di Guzzo, nell’agosto 2009, a Pompei si sono alternati quattro soprintendenti e uno di loro, Giuseppe Proietti, aveva l’interim di Roma, amministrava cioè le due aree archeologiche più grandi del paese. Francesco Scoppola si è alternato in sei diversi incarichi dalla fine del 2004 al 2009: da direttore nelle Marche, dove è stato allontanato per aver osato mettere un vincolo su tutto il pregiato promontorio del Cònero, è passato al Molise e ora è in Umbria. Molti trasferimenti sono decisi per punire funzionari troppo rigorosi. Alcuni vengono attuati in maniera improvvida, scatenando ricorsi amministrativi, sospensive del Tar e reintegri. E qui si tocca uno dei tasti dolenti: quello della tutela di territorio e paesaggio incalzati dall'incessante procedere del cemento (3 milioni e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi dieci anni).

Gli insediamenti invadono i litorali e le colline e spesso intaccano zone vincolate, per le quali è necessario il parere della soprintendenza che, con il nuovo Codice dei Beni culturali, avrebbe l'impegnativo compito di partecipare con le Regioni alla pianificazione del territorio: ma, come ha documentato un rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per conto di Italia Nostra, l’iniziativa è sostanzialmente fallita. In queste condizioni, si sente dire dappertutto, è un compito improbo per soprintendenti sul cui capo pende la spada di Damocle di un trasferimento o che sono minacciati da richieste risarcitorie contenere la forza esercitata dall'industria del mattone. Ormai si sono molto ridotti gli annullamenti di autorizzazioni a costruire in zone vincolate, a dispetto di chi continua a raffigurare le soprintendenze come delle conventicole di "signor no". Inoltre una circolare ha ammesso il ricorso gerarchico ai vertici del ministero contro un soprintendente solo nel caso in cui questi apponga un vincolo. Non per il contrario. Come a dire: chi tutela rischia, chi ama il quieto vivere no.

Arrivano i commissari

Ha cominciato Pompei. Sono seguite l’area archeologica romana e la Domus Aurea, il cantiere fiorentino per i Grandi Uffizi, quello milanese di Brera. Quindi L’Aquila. Ordinanze e procedure diverse. Un punto in comune sostanziale: mettere fuori gioco o ai margini la struttura delle soprintendenze e affidare poteri eccezionali a un commissario, talvolta proveniente dai ranghi dei Beni culturali, più frequentemente da altre amministrazioni, in primo luogo la Protezione civile. Il circuito si chiude. Anche la gestione del patrimonio culturale diventa l’occasione per sperimentare forme di governo strette nelle mani di pochissme persone, sostanzialmente legibus solutae, in grado di agire in deroga a tutte le procedure, di affidare appalti e consulenze senza gare, scansando i controlli e operando in una zona al riparo da ogni forma di verifica.

E quando queste arrivano ‐ come nel caso della Corte dei Conti per Pompei ‐ l’atto d’accusa è esplicito, ma giunge in ritardo. In altre occasioni interviene la Procura della Repubblica. L’arrivo dei commissari è spesso motivato da ragioni di emergenza o addirittura evocando imminenti calamità naturali. È accaduto per Pompei, nell’estate del 2008, quando in seguito a un articolo sul Corriere della Sera, il ministro Bondi nominò commissario Renato Profili, una carriera nella polizia e poi prefetto di Napoli. Dopo Profili, è stato designato un commissario che agli occhi del ministro aveva un curriculum più affidabile: Marcello Fiori, laurea in Lettere, vice capo di gabinetto al Comune di Roma con Rutelli, esperienza con il Giubileo, poi alla Protezione civile (L’Aquila, G8). Fiori ha lavorato con una soprintendente, Maria Rosaria Salvatore, che a Pompei si vedeva pochissimo.

Ha avuto mano libera. A fine mandato (luglio 2010) si sono tirate le somme. Degli 80 milioni che vantava di aver sbloccato, la metà erano stati già impegnati dal precedente commissario Profili in iniziative al 95 per cento di restauro e messa in sicuezza avviati dal soprintendente Guzzo e incagliati nelle procedure di gara. Per valorizzazione e promozione si erano spesi appena 400 mila euro. Restavano gli altri 40 milioni, che da Fiori sono stati impegnati in percentuali completamente rovesciate: solo 10 per la messa in sicurezza e 18 per valorizzazione. Fra le spese, viene molto contestata (oltre quella per il restauro del Teatro, dove si è lavorato persino con le ruspe, che sono bandite in un luogo dove si deve scavare con massima cautela) quella di 8 milioni prevista da un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza fatto di circa cento pali alti quattro metri che sfigurano l’area archeologica e che sono il doppione di un altro impianto, perfettamente funzionante e sistemato invece sulla cinta esterna.

Il contratto prevede anche il Wi‐fi e un nuovo portale web, pure questo doppione di uno già esistente. Ora Fiori è balzato su una poltrona di dirigente generale del ministero. Compenso: 166 mila euro l’anno. Nel febbraio del 2009 si decise il commissariamento di tutta l’area archeologica romana e di Ostia. Il motivo? Il pericolo di crolli sul colle del Palatino. Venne incaricato Guido Bertolaso, sollevando le proteste di tutti gli archeologi della Soprintendenza romana, i quali sostenevano che sarebbe stato più logico dotare di soldi e mezzi il loro ufficio per fare manutenzione e restauro, anziché convocare la Protezione civile, che con l’archeologia non aveva alcunché da spartire. Vice di Bertolaso, nel progetto originario, era l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, un soggetto istituzionale che con la soprintendenza deve avere un rapporto dialettico, senza confusioni di ruoli (poi Bertolaso non assunse l’impegno perché chiamato a L’Aquila).

A Brera, per snellire le procedure dei lavori di ristrutturazione, venne impegnato Resca. Dagli Uffizi, invece, si apre uno squarcio sulle vicende torbide messe a nudo dall’inchiesta della Procura fiorentina sulla “cricca” e sui rapporti con la Protezione civile. A rendere più veloce il cantiere fu chiamata Elisabetta Fabbri, architetta, molto legata a Salvo Nastasi. Nastasi è il potentissimo capo di gabinetto di Bondi, eminenza grigia del ministero, anzi il vero ministro, secondo alcuni, per la cui ascesa ai vertici del Collegio romano si è infilato un piccolo comma in un decreto legge per i rifiuti (194 mila euro il suo stipendio).

La Fabbri è stata rimossa da Bondi dopo che la magistratura fiorentina ha avviato l’inchiesta che nel febbraio del 2010 ha portato all’arresto di Angelo Balducci e di altri esponenti della “cricca”, fra i quali Mauro Della Giovampaola, soggetto attuatore proprio dei lavori per gli Uffizi. Direttore di quei lavori era stato nominato Riccardo Miccichè, ingegnere di Agrigento, che, si legge nel curriculum, aveva competenze «nella preparazione dei terreni per erbe e piante officinali», oltre che «nell’attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure». Miccichè era stato anche collaboratore di cantiere, alla Maddalena, di Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso. Nastasi, trentasei anni, molto legato a Gianni Letta, è un professionista dei commissariamenti. Oltre a esserne il dominus al ministero è stato anche lui più volte commissario: per la ricostruzione del Petruzzelli di Bari, al Maggio Fiorentino e al San Carlo di Napoli.

Il suo nome compare in molte intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura fiorentina, dalle quali risulta una grande familiarità con Balducci e gli altri della “cricca”. Un commissariamento sui generis è quello praticato a L’Aquila dopo il terremoto. Tutto il patrimonio culturale è stato affidato a Luciano Marchetti, ingegnere, dirigente in pensione del ministero al quale, però, non doveva per nulla rispondere, essendo il suo unico interlocutore la Protezione civile, e dunque Bertolaso. Le conseguenze? Le soprintendenze territoriali e la direzione regionale sono state messe fuori gioco, creando una quantità di conflitti. Ma esemplare è anche la vicenda di Giuseppe Basile, ex direttore dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che ha lavorato dopo i terremoti nel Belice, in Friuli e in Umbria, alla Basilica di San Francesco di Assisi. È uno dei nostri migliori restauratori. Ha offerto le sue competenze a Marchetti, ma non ha mai neanche ricevuto una risposta.

Nel frattempo le macerie di chiese e palazzi aquilani giacevano indistinte ‐ fregi, cornici, capitelli mischiati a polvere e calcinacci ‐ sotto la pioggia e la neve, preda di chiunque. In una posizione marginale è stato messo lo stesso Istituto fondato da Cesare Brandi nel 1939, che per altro nel marzo del 2010 è stato sfrattato dalla storica sede di piazza san Francesco di Paola a Roma, perché il ministero non è riuscito a trovare i soldi per adeguare il canone di affitto. Come quella di Basile, a nulla sono valse, sempre a L’Aquila, le offerte di collaborazione da parte degli storici dell’arte Valentino Pace e Fabio Redi, dei docenti di restauro Giovanni Carbonara e Marina Righetti e persino di Ferdinando Bologna, aquilano, anche lui storico dell’arte, maestro di generazioni di studiosi, fra gli allievi più prossimi di Roberto Longhi.

Per il dopo terremoto si è puntato su altro. Un po’ come sul progetto Case: invece che su una pianificazione corretta, che prevedeva di riparare subito gli edifici danneggiati, ma non inagibili, e di avviare il recupero del centro storico, si sono piazzati 19 insediamenti, volgarmente detti new town, che ospitano appena un terzo dei senzatetto aquilani, lasciando a tutt’oggi decine di migliaia di persone in sistemazioni precarie. Il patrimonio storico‐artistico della città è stato a stento messo in sicurezza, di progetti di restauro non si ha notizia, la sbandierata “lista di nozze” (un elenco di monumenti affidati alle cure dei partecipanti al G8) è stata molto più che un fiasco.

Ora il centro storico, di cui le chiese e i palazzi sono parte, ma che è integralmente un bene culturale, è chiuso, transennato, vigilato dalle camionette dell’esercito, stretto dai tubi dei puntellamenti e abitato da fantasmi (l’unico che ci vive è Raffaele Colapietra, ottant’anni, storico, professore universitario, che ha rifiutato l’ordine di sgombero). L’Aquila come Pompei, hanno detto anche i membri del Consiglio superiore dei Beni culturali. L’Aquila come prefigurazione di una città che non è più una città. E di cui il patrimonio culturale è elemento essenziale perché la città torni a essere il luogo in cui si forma e si riconosce una comunità

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