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Fabrizio Bottini
Le mille luci della città virtuale
7 Febbraio 2011
Scritti ricevuti
Il dibattito che si è aperto in questi giorni sulle luminarie natalizie rivela quanto “virtuale” sia ormai diventata la città per chi la sfrutta a spese di chi la abita

Le mille luci della città: un modo di dire talmente antico e sedimentato da suonare fin banale. Bright Lights Big City il miraggio che da sempre attira popolo e immaginazione verso quei marciapiedi su cui trabocca la vitalità concentrata della metropoli. Ma c’è luce e luce.

Forse non si nota tantissimo, o forse si, ma è proprio l’idea di rapporto stretto fra le mille luci e il loro senso ad essere tirata in ballo. Cosa si vede di solito nelle cartoline classiche della città, più o meno addobbata per le feste, più o meno consumistiche queste feste? Si vedono i contorni dello spazio urbano sottolineati dalle file di lampadine, più ammenicoli vari di complemento. C’è addirittura una marca di divani che nello sprawl della città dispersa prova con qualche effimero successo a dare identità crepuscolare e notturna a luoghi che non ne hanno alcuna, solo trasformando edifici di qualità varia (dallo scatolone prefabbricato ad hoc al mozzicone di cascinale sull’antico crocicchio) che occupa in una specie di insegna coi profili di tubi al neon bluastri.

Addirittura il battesimo globale del Santa Claus biancorosso della Coca Cola, all’inizio del Novecento, avviene esattamente con questo genere di proposta: la slitta con le renne guidata dal panzone barbuto, sormonta una scia di stelle e stelline che dal cielo scende giù transustanziando gradualmente nelle file di luminarie ad avvolgere la famosa prua del Flatiron Building di Daniel Burnham all’angolo strategico fra la Quinta Strada e Broadway. Babbo Natale sì, ma ben avvitato a una idea forte di ambiente urbano, fisico, complesso.

Oggi succede ben altro. C’è un figliol prodigo che sta tornando, ma non chiede il permesso a nessuno per prendersi tutto il vitello grasso e cucinarselo come gli pare. Se ne era andato dalla città, quel figliolo, sotto forma di negozio un po’ cresciuto, all’inseguimento di una clientela spesso più attenta allo spazio per parcheggiare che a tutto il resto. Una clientela sempre più estranea allo spazio urbano, alle sue complicate relazioni, e via via inconsapevole o disinteressata rispetto a quello che le scorreva sotto ai piedi. Del resto non ce n’era affatto bisogno, là nell’ex campagna, di capire cosa succedeva davvero: c’erano altri che lo capivano per loro e glie lo spiegavano nei messaggi pubblicitari. Il mondo degli shopping mall comodamente a trenta chilometri dalla casa unifamiliare, trenta chilometri da percorrere naturalmente con un mezzo adeguato, di stazza e qualità, per comprare tutto ciò che serve a sopravvivere tanto lontani dalla fonte di approvvigionamento. Senza MAI chiedersi perché: non è di moda.

Quel mondo si accendeva davvero solo con le luci artificiali, perché con un soleggiamento normale faceva decisamente schifo. Anche di giorno, non a caso, lucine e lucette accese dappertutto, e a migliorare l’effetto (come si faceva qualche volta nelle festicciole pomeridiane da adolescenti) si chiudeva tutto per fare buio. Tecnicamente si chiama enclosed shopping mall, ovvero un posto senza finestre, dove parlano solo le luci, tutto è una specie di insegna brillante nella notte. Adesso questo figliol prodigo sbarca in città, con le sue indiscutibili pretese, e si è preventivamente comprato una bella fetta di cervelli e di assessori (due cose non necessariamente coincidenti).

C’è una bella differenza, fra le antiche luci di Bright Light Big City e questi festoni un po’ strapaesani, ma non è il tono incolto e poco metropolitano. Quelle nuove luci non c’entrano nulla con la città: la ignorano, volutamente. Nello stesso modo in cui certe architetture globalizzate nascono eteree su un tavolo da disegno o schermo di computer a Singapore, e poi atterrano di botto a Casalpusterlengo sotto forma di qualche milione di quintali, così le file di lampadine vivono in un mondo tutto loro, più o meno come gli archi al neon di McDonald’s avvitati ovunque a significare sé stessi, cancellando qualunque “supporto”.

Muri, buoni a tener su tasselli, su cui si scarica il peso dei cavi, dei pannelli ecc. La città diventa, semplicemente, questo. Non deve comunicare nulla. Ci pensa la televisione. Al massimo, nei casi migliori, può fare da sfondo, ma non pare troppo importante. In fondo sono cose per cui basta la grafica computerizzata. Puff! Sparita. Accorgersene, forse, aiuta.

Nota: consiglio su questo argomento anche la lettura del bel testo di Marshall Berman su Times Square, la capitale mondiale delle insegne luminose, che ho tradotto tempo fa per Mall (f.b.)

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