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Un patrimonio allo sfacelo
9 Ottobre 2010
Beni culturali
La denuncia dello stato di crisi ormai irreversibile della gestione dei nostri beni culturali. Un articolo e un’intervista su L’Espresso, 14 ottobre 2010 (m.p.g.)

Cade a pezzi anche il Colosseo

Tommaso Cerno

Siti archeologici abbandonati. Teatri in crisi. Opere d'arte dimenticate. E poi biblioteche, archivi, cinema... I tagli del governo mettono in ginocchio la cultura. Che ora rischia il crac.

Sulla carta è il monumento più famoso al mondo. Nella realtà sta cadendo a pezzi. Il Colosseo ha bisogno di un restauro da 25 milioni di euro, ma di quattrini nelle casse dello Stato non c'è traccia. Così il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha aperto la caccia agli sponsor privati: s'è già offerto Diego Della Valle per guidare la cordata che salverà facciata e faccia alla cultura in crisi ormai cronica. Ma ecco che quei calcinacci che di buon mattino si sono staccati dall'ambulacro centrale sono anche il simbolo del fallimento italiano: addirittura all'anfiteatro Flavio, che da solo fa milioni di turisti e nelle statistiche mondiali è sul podio con un valore d'immagine pari a 91 miliardi di euro, più dei Musei Vaticani e quasi come il marchio della Coca-Cola, occorre un salvagente per restare in piedi. E presto lo vedremo avvolto da quei mega-cartelloni pubblicitari che ricoprono i tesori in restauro a spese di multinazionali o del magnate di turno, facendo infuriare le archistar.

Perché se lo Stato arranca già nel cuore dell'Urbe, figuriamoci cosa capita a musei, scavi, teatri, fondazioni, archivi e biblioteche di mezza Italia. I conti del ministero del Beni culturali sono rossi come certe, ormai abbandonate rovine romane. E i tagli soffocano quello che dovrebbe essere, piuttosto, il core business del Belpaese. Per denunciare il crac della cultura l'artista Mimmo Paladino ha coperto con un drappo nero la sua ultima opera, i cavalli donati al teatro San Carlo di Napoli. «L'ho fatto per protestare pubblicamente, indignarsi, criticare le autorità», racconta l'artista. Ma quel drappo dovrà presto allargarsi fino al teatro di Roma, al Goldoni di Venezia, alla Scala di Milano. Come all'Accademia di Santa Cecilia, a Pompei ed Ercolano, alla biblioteca di Firenze, passando per la Crusca e il Centro sperimentale di Cinematografia.

E’ UNA LOTTERIA.

Solo nell'ultimo anno la dieta Tremonti ha abbattuto il Fus, fondo unico per lo spettacolo, a 400 milioni di curo, perdendo quasi 70 milioni. Mentre gli investimenti per la manutenzione di musei, opere d'arte, scavi archeologici, biblioteche e archivi hanno subito tagli che superano il 30 per cento. Significa 200 milioni in meno fra cinema, teatro, musica, danza e opera ogni anno. Soldi spesso già impegnati per restaurare monumenti, ripulire facciate di palazzi e chiese, mettere in sicurezza i depositi librari, progettare nuove sale per i nostri capolavori: «La situazione per il 2011 sarà ancora più dura: il Fus che scenderà a 300 milioni di euro., spiegano al ministero. Che fare? Se le nonnine scaramantiche a corto di quattrini s'affidano al lotto, ai nostri antenati non sarà più concesso nemmeno di darci i numeri in sogno. Perché il governo ha già tagliato anche la ruota: quest'anno solo 60,8 milioni sono stati trasferiti ai beni culturali dalle giocate, un calo del 50 per cento che ha messo in ginocchio tutti i settori storicamente finanziati con le lotterie. Erano stati promessi 353 milioni in tre anni, soldi che invece non arriveranno. Denaro destinato alla salvaguardia dei tesori nazionali, come il cantiere delle navi romane di Pisa, le aree archeologiche di Gravisca e Tarquinia o il palazzo reale di Genova. Ai musei è andata pure peggio: è andato in fumo addirittura il 91 per cento degli introiti già inseriti a bilancio e dovranno accontentarsi di 4,5 milioni. Soldi spesso inutili, perché i progetti sono già avviati e ora costano troppo per cui dovranno comunque fermarsi.

CIAK SI TAGLIA.

Botteghini pubblici serrati anche per il cinema. E i tagli del ministero stanno per diventare addirittura legge. Una norma voluta da Bondi per razionalizzare le spese di Stato sul grande schermo taglierà, di fatto, i fondi per le piccole produzioni. Non potendo più pagare tutto e tutti, perché la pioggia di soldi pubblici è ormai poco più che un rigagnolo, il ministro punta su opere prime e film cult. Almeno a parole. Lo slogan è: basta milioni a pellicole come "Puccini e la fanciulla" di Paolo Benvenuti, costato un milione per un incasso di 6 mila 392 euro. O ancora come "Sleeping around" di Marco Camiti che dallo Stato ha incassato 716 mila euro e dagli spettatori 1.794. «Un criterio che si rende necessario dal momento in cui sarebbe impossibile, con i conti dello Stato, continuare a foraggiare qualsiasi produzione di lungometraggio», spiegano al ministero. E la Rai, che ogni anno gira 40 milioni alle produzioni, si adegua. Anche se questo significa infliggere un colpo forse letale al cinema, già in crisi nera di fondi e di distribuzione: «Molti film buoni fanno difficoltà al botteghino, perché il multisala favorisce altri tipi di prodotto. Senza fondi -96,19 pubblici è ovvio che sempre meno registi saranno in grado di montare un film da soli, ma questo non è un problema solo di tagli, riguarda i gusti degli spettatori e le regole del mercato», spiegano i vertici di RaiCinema.

Così produttori e registi guardano sempre più interessati al federalismo, che da qualche anno ha trasferito soldi e competenze alle Regioni. Al punto che "I demoni di San Pietroburgo" di Giuliano Montaldo è stato girato in Piemonte e fra le strade che si rincorrono sui fotogrammi non c'è la Prospettiva Nevskji, ma gli incroci nel centro di Torino. Il risultato è che dal Nord fino alla Sicilia, aiuti economici e loca-tion gratuite sono in aumento. Una boccata d'ossigeno che ribalta, però, la tesi di Bondi che aveva giustificato i tagli spiegando che «finora il cinema italiano era stato servo della politica». Come se governatori e sindaci non fossero il rovescio della stessa medaglia. E soprattutto ossigeno insufficiente: «Nel 2011, se i tagli saranno confermati, non solo si toccherebbe il punto più basso della storia del Fondo unico per lo spettacolo, ma si raggiungerebbe il momento più basso della politica in questo settore», denuncia il presidente dell'Agis, Paolo Protti. Con la chiusura di molte imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro.

CALA IL SIPARIO. Intanto, a Venezia, andrà in scena Pedro Almodóvar in versione teatrale, peri palati fini della Laguna. Ma il pubblico del Goldoni non sa ancora che sul palcoscenico troverà una sorpresa. Per non ammazzare le produzioni, la presidente del teatro stabile Laura Barbiani s'ingegna nel low cost: «Non lo scriva, la prego. Ma con i tagli non riusciremo a fare lo spettacolo con 12 attori. Per cui qualcuno sarà costretto a fare due o tre parti per stare nel budget. Succede sempre più spesso», racconta a "L'espresso". Lo spettacolo deve continuare e, dal vivo, i tagli pesano ancora di più: ogni anno il bilancio in Veneto chiude a circa 8 milioni, ma il 70 per cento se ne va in stipendi. Eppure hanno già tagliato tutto il tagliabile: le scenografie sono più piccole, i giochi di luce hanno sostituito i vecchi e costosi effetti speciali e, quando fanno i piani, devono ricordarsi di caricare pochi mobili perché se per caso lo spettacolo è itinerante tutto deve stare su un solo camion: «Un secondo mezzo significa 50-60 mila euro di più e rischia di farti saltare la produzione, aggiunge la Barbiani: «Mentre, coi fondi regionali, spuntano festival, sagre e vere e proprie strutture di produzione parallele foraggiate da sindaci e assessori locali

ROVINE IN ROVINA. Nell'Italia dei mali culturali la scure non risparmia certo l'archeologia, che fino a pochi anni fa ci vedeva leader mondiali. È talmente rosso il bilancio che il nuovo diktat suona brunettiano: vietata la macchina per le missioni. Ma mentre il governo difende la norma propagandando fantomatiche riduzioni di auto blu, l'esito pratico è che archeologi e storici dell'arte non possono più raggiungere i siti e gli scavi in restauro o le necropoli che sono pagati per tutelare. L'elenco dei tagli è lungo. Si va dai soprintendenti in pensione mai sostituiti, al blocco dei turn over, alla necessità di firmare autorizzazioni, anche edilizie, senza aver potuto vedere con i propri occhi dove e cosa si intenda costruire. Fino al caso limite di Pompei, dove da sei mesi il ministero non ha nominato il dirigente, come ha denunciato "Repubblica". Soldi non cene sono nemmeno qui. I turisti diminuiscono e molte zone dello scavo devono restare chiuse al pubblico. Una fune blocca l'accesso al sito dei fuggiaschi, finanziato dal Fio e ancora inaccessibile. Sono i corpi dei sopravvissuti alla prima eruzione, uccisi poi dai fanghi mentre tentavano di scappare. Un patrimonio dell'umanità che nessuno può vedere, mentre sui giornali finiscono le inchieste della procura di Salerno su presunte irregolarità nell'uso dei fondi Ue. A Ercolano la musica è simile. C'è il museo Antiquarium, costato miliardi di lire già negli anni Settanta e mai aperto. E ci sono oltre 4 mila reperti che giacciono in qualche magazzino. Lontano dai milioni di curiosi che da tutto il mondo pagherebbero caro per vederli. «La situazione di Roma, Pompei ed Ercolano è gravissima perché la mancata conservazione significa favorire il decadimento del nostro patrimonio. Assurdo in un Paese che fonda il suo benessere sul turismo. E’ come per la Fiat: gli investimenti non dovrebbero essere considerati un costo, ma una fonte di guadagno e invece in Italia tagliano addirittura i mezzi di trasporto dei tecnici, costringendoli a stare negli uffici e poi lamentandosi, come fa Brunetta, se fanno le parole crociate«, denuncia il presidente dell'istituto nazionale di Archeologia Adriano La Regina.

MUSEI NEL CAOS. La scura è uguale per tutti. Dai musei di arte contemporanea, fino alle grandi istituzioni nazionali. A Reggio Calabria non hanno più i soldi nemmeno per il restauro della "casa" dei Bronzi di Riace. Per finire i lavori in tempo, entro il 2011, servono 9 milioni di euro in più e così rischia di saltare pure il tour mondiale annunciato dal manager Mario Resca. I numeri sembrano migliorare rispetto all'anno nero 2009. Ma proprio per questo fermare gli investimenti adesso potrebbe essere letale. Chi ripete che la colpa è del Sud se va sempre tutto male, sappia che a Verona va anche peggio. In terra leghista i reperti preistorici del museo di Storia naturale venduto dal Comune per farci un parcheggio, marciscono in una cantina e, per colpa della muffa, sono diventati blu. Alle biblioteche arriverà poco più di un milione, l'82 per cento in meno del previsto, quando fra gli scaffali ci sarebbe bisogno di ben altro. Mentre Regioni e Comuni strapagano le scuole di dialetto dal Piemonte, al Veneto al Friuli, l'Accademia della Crusca non ha un finanziamento stabile, la Biblioteca di Firenze ha rischiato la chiusura, la Treccani ha minacciato di abolire il Biografico, la memoria della cultura italiana.

MELODRAMMA NEL DRAMMA. Stretta sulle assunzioni e tagli alle retribuzioni anche all'Opera. I toni melodrammatici della Finanziaria Tremonti non risparmiano nemmeno chi quel canto ha reso celebre. Alla firma del decreto sugli enti lirici, è seguita la più imponente raffica di scioperi del Dopoguerra. Alla Scala di Milano è apparsa una bara, a Napoli hanno recitato il funerale della cultura, al Regio di Torino s'è formata una catena umana composta da centinaia di lavoratori del teatro e il coro dell'Accademia di Santa Cecilia ha annullato il concerto a San Pietro. E mentre Riccardo Muti parla di «delitto« riferendosi alla mannaia ministeriale sui fondi per la musica d'eccellenza italiana, la crisi sta scritta nei numeri: la Fenice produce un terzo rispetto a Monaco di Baviera, la Scala un quarto rispetto a Vienna. E nei foyer le orchestre improvvisano concerti di protesta. Proprio come sul Titanic della cultura italiana che affonda.

Così si cancella la nostra identità, colloquio con Salvatore Settis

Daniela Minerva

Blocco del turn over. Sovrintendenze senza vertici. E un taglio del 5 per cento al fondo ordinario. Così le opere d'arte, i monumenti, i siti archeologici che sono l'anima stessa dell'Italia sono abbandonati al degrado da un governo pop, tutto televisione e décolleté. Con quali conseguenze? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, uno dei più autorevoli antichisti del mondo.

Professor Settis, cosa succede a un paese che dismette il suo patrimonio culturale?

«La situazione è gravissima. Basti pensare che le due istituzioni più grandi del Paese che gestiscono le aree archeologiche più importanti del mondo, quella di Roma e quella di Pompei, sono senza un sovrintendente. Non si fanno i concorsi e man mano che le persone vanno in pensione si creano dei vuoti che si traducono nell'impossibilità di mantenere un patrimonio così vasto e capillare come il nostro. Non solo: questa idea di poter sostituire i sovrintendenti con soluzioni temporanee, anche nominando un prefetto in pensione come è accaduto all'area vesuviana, è grottesca. Per tener dietro a Pompei ci vuole un archeologo non un prefetto”.

Lei sembra suggerire che più che di denaro sia una questione di sine cura del governo.

«Le sovrintendenze dei beni culturali e archeologici funzionano benissimo da oltre un secolo. Tutto il mondo ce le invidia. Ma oggi sembra che le si voglia chiudere. Perché, si dice, si deve risparmiare. E da qualche tempo, se si deve risparmiare è sulla cultura che si decide di farlo, giacché la si considera un optional. Quando, invece, non lo è neppure se si vuole soltanto mettere l'accento sull'economia”.

I beni culturali come drive per l'economia?

«Il premio Nobel Amarthya Sen e diversi economisti hanno ormai dimostrato che la produttività di un Paese si promuove rafforzandone l'identità civica. Che noi abbiamo solidissima proprio grazie alla nostra identità culturale: un senese come un leccese o qualunque cittadino di questo Paese è fiero di essere tale anche per l'enorme e straordinario patrimonio culturale che lo circonda e di cui è parte. Se perdiamo i nostri beni perdiamo la nostra identità”.

Il governo non sembra esserne consapevole.

«Ma nemmeno l'opposizione. Sono colpito dalla totale assenza di dibattito pubblico su questa emergenza. I partiti, di tutti i fronti, hanno completamente marginalizzato la cultura. Mentre è solo creando una maggiore consapevolezza nell'opinione pubblica che si può intervenire. Unitamente, è ovvio, al fatto che si mettano a disposizione dei fondi per ripristinare organici e mezzi delle sovrintendenze”.

Non pensa che anche dentro le sovrintendenze possano esserci stati degli sprechi?

«Non lo escludo. Ma bisogna dimostrarlo e bisogna razionalizzare le spese in baso a ciò che si è scoperto. Altrimenti, con la scusa degli sprechi, mai dimostrati e analizzati, si sfascia tutto”.

A molti sembra che, nell'attuale contingenza economica, si debba fare ricorso ai finanziamenti privati.

«Che già ci sono, e grazie ai quali stiamo restaurando molte opere d'arte, ad esempio. Ma il patrimonio è e deve restare pubblico. E allora: perché un privato dovrebbe erogare ingenti fondi se poi non lo si fa entrare nella gestione del patrimonio? In altri Paesi fondazioni e imprese finanziano il patrimonio culturale perché ne hanno benefici fiscali. E questo è un buon modo di procedere. Ma ogniqualvolta ci si è provato, in Italia, il ministero del Tesoro ha posto il veto perché, si è detto: non è sostenibile fiscalmente. Ma proviamo a pensare se non ci fossero 120 miliardi di evasione. Se tutti pagassero le tasse, allora resterebbero i soldi per tutto”.

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