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Francesco Erbani
Bizzarrie e divismo l´architettura ha perso il suo ruolo sociale
2 Ottobre 2010
Recensioni e segnalazioni
Critica di Viittorio Gregotti a un’architettura che è strumento non più per ottenere una città più bella, ma solo per “valorizzare” l’architetto e il proprietario del suolo. La Repubblica, 2 ottobre 2010

Un edificio di dimensioni enormi, oggi diremmo un esemplare della bigness, «nel migliore dei casi lo si guarda meravigliati», sostiene Austerlitz, il protagonista del capolavoro omonimo di W.G. Sebald. «E questa meraviglia», aggiunge, «è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l´ombra della loro distruzione». Le parole di Jacques Austerlitz, che nel romanzo dello scrittore tedesco è uno storico dell´architettura, tornano in mente leggendo una delle Tre forme di architettura mancata descritte nel suo ultimo libro da Vittorio Gregotti (Einaudi, pagg. 122, euro 10). In particolare quella segnalata nel capitolo che si intitola, appunto, «Contro la bigness».

La ricerca della dismisura è una delle malattie dell´architettura di oggi, annota Gregotti, un´architettura che ha rinunciato ad avere relazioni con il suolo, dunque con la storia e con la geografia e che invece si propone come produttrice di oggetti isolati e quindi, per esempio, ingigantiti a piacere, indipendenti dai contesti, tanto «da proporre l´estraneità o la grandezza quantitativa, l´enormità dell´oggetto come valori, anziché come problemi».

Tre forme di architettura mancata è una riflessione accorata sullo stato di una disciplina cui sta sfuggendo di mano la propria ragion d´essere. Oltre alla ricerca dello smisurato - che risponde a una ipertrofia del bizzarro, ma è altrettanto l´effetto di regole dettate dai valori immobiliari - anche le altre forme mancate indicate da Gregotti si aggirano intorno al problema fondamentale di un´architettura che si occupa poco di città e di collettività, tende poco al suo ruolo sociale e si occupa invece molto di se stessa. E sono, queste forme mancate, l´assenza del disegno, che è poi una variante della bigness, perché consiste nella sottovalutazione del rapporto fra ciò che si costruisce e ciò che c´è prima e che c´è intorno. E la riduzione a immagine comunicativa, nel tentativo concitato, scrive Gregotti, di rispecchiare solo «l´opaca e cinica condizione dell´attualità». Un´architettura dell´apparenza, dunque, che rinuncia a durare e che quindi si misura sulla soddisfazione dell´effimero e diventa frutto dei linguaggi globalizzati, a loro volta suggeriti da un capitalismo che impone logiche finanziarie.

L´architettura ha sempre maggiore rilievo nella fabbrica delle immagini. Il grande pubblico conosce gli autori di molti edifici e ne rincorre le prodezze da un capo all´altro del globo. I migliori studi professionali hanno uffici stampa grandi quanto quelli di una casa cinematografica. La macchina della comunicazione trasforma alcuni architetti in personaggi, li propone sulla scena con le stesse tecniche usate per un calciatore. Ma in questo circo - è il senso del ragionamento di Gregotti - rischia di venir meno l´essenza di una disciplina. Se tutto diventa immagine e tutto si dispone a essere obbligatoriamente "estetico", «niente è più distinguibile, né giudicabile, neanche esteticamente». E così «abitabilità, ordine, costruzione, relazione con il contesto, responsabilità civili e di disegno urbano sembrano essere i principali nemici».

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