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Fabrizio Bottini
Per un Partito del SI (o almeno del forse)
6 Agosto 2010
Scritti ricevuti
Perché non usare al meglio l'area metropolitana interessata dall'Expo 2015? Le premesse ci sono, e in abbondanza, se si vuol cogliere davvero l'occasione

Come avrà sicuramente detto anche Oscar Wilde, dalla morte nasce la vita, eccetera. Insomma stamattina col caldo padano ancora a livelli sopportabili sono andato al cimitero, per annaffiare il micro giardinetto sulla tomba dei miei. E nella relativa tranquillità della necropoli, trascinando su e giù dalla fontanella la dozzina di innaffiatoi che ancora servono a far sopravvivere le piantine nuove, ripensavo alla notizia appena letta sul Corriere della Sera, e che riguardava una zona quasi adiacente al cimitero: la famigerata Cascinazza.

Un articolo ripreso anche da eddyburg, dove si racconta l’ennesima micidiale stronzata dell’urbanistica targata centrodestra per la striscia residua di green-wedge attorno al corso del fiume Lambro: una bella botta di grattacieli, che fanno tanto moderno! Anche qui, scimmiottando benissimo i cugini di cordata milanesi, e ignorando naturalmente qualunque realtà tangibile e logica (a costruirne un’altra ci pensa poi la propaganda) l’enfasi è tutta sullo “sviluppo”, sulla “densificazione” e naturalmente sul “creare nuovo verde” con la classica tecnica per cui si prende un ettaro apparentemente smaterializzato, si costruisce su tre quarti della superficie, e sul quarto rimanente si “crea” il verde, di solito pure a patchwork discontinuo, che troppo grande magari ci vanno quegli sporcaccioni dei rom, o quegli altrettanto sporcaccioni di immigrati sudamericani con le loro feste all’aperto.

Dato che con questo caldo si finisce sempre per svegliarsi un po’ più presto del solito, prima di andare al cimitero avevo anche letto un altro articolo, stavolta dedicato all’Expo 2015. Un anno 2015 che ormai si avvicina pericolosamente, e mentre i nostri grandi eroi del decisionismo centrodestro si cimentano sui massimi sistemi dall’arraffo, questo è mio e questo pure, la natura ahimè sta facendo il suo corso. Perché qual è il tema dell’evento? Lo sappiamo tutti: nutrire il pianeta, e quindi anche i nostri tossici del cemento hanno dovuto accettare, per adesso solo nei sognanti rendering degli ubiqui architetti creativi, le famose serre, il percorso nella natura addomesticata a scopi agricoli, insomma tutte quelle cose lì. Ma alla natura non si comanda, nel senso che ha i suoi tempi, i pomodori non maturano dall’oggi al domani, e men che meno è possibile chiamare una task force internazionale di architetti e scenografi teatrali per allestire quei campi coltivati la settimana prima dell’inaugurazione.

La cosa, piuttosto ovvia, la spiega sull’edizione locale de la Repubblica un preoccupato agronomo: questi si scannano per la presidenza delle società, per i terreni in proprietà o in comodato, ma non ci azzeccano proprio coi tempi inderogabili (davvero inderogabili) del terreno vivo, delle cose che ci crescono dentro, del ciclo naturale ecc. ecc. La vita, la morte, la rinascita … insomma tutti quegli argomenti che finiscono per frullare nella testa, anche senza rendersene conto, girellando per cimiteri.

Al ritorno, in bicicletta, ho deciso di passarci, dalla Cascinazza, dove al momento riescono ancora a brucare le capre, e c’è un ambiente coerente da terzo millennio, mica da anni ’60 di brillantina, Macedonia filtro, e gomito fuori dal finestrino, come piace a certi modernizzatori nostrani. Ed è scattata l’intuizione. Mica tanto geniale a dire il vero, ma tocca accontentarsi. Provo a riassumerla.

A Milano non riescono a fare i campi per l’Expo. A Monza (non nella savana africana, e neppure nella Capitanata) c’è una splendida area agricola, sostanzialmente poco conosciuta dalla cittadinanza salvo appassionati, oggetto di cupidigia da lustri, e vitale per uno sviluppo urbano davvero equilibrato, come ribadiscono da almeno mezzo secolo tutti i piani urbanistici degni di questo nome (patacche escluse). Uno degli elementi di maggiore debolezza, per resistere alle solite pressioni speculative, anche alle più spudorate, è la scarsa conoscenza delle aree da parte degli abitanti. Non è un caso, se ad esempio col parco di greenbelt a Milano spesso qualche assessore fa sparate incredibili sul valore ambientale vero o presunto di certe parti di territorio: se lo può permettere, perché sono pochissimi coloro che effettivamente sanno di cosa sta parlando. In breve, un’area di qualità, frequentata, che contribuisce a costruire l’identità locale, che è percepita come parte integrante e indiscutibile della città, è oggetto di spontanea vigilanza per quanto riguarda trasformazioni ed eventuali speculazioni.

Per disegnare una manciata di rendering di campi e serre probabilmente non c’è neppure bisogno di scomodare qualche archistar chiacchierina che le ribattezza foresta trasversale, o viticcio regionale: basta magari un bel concorso fra studenti di un istituto d’arte. A Monza ce n’è uno, di istituto d’arte, giusto dentro la Villa Reale, altro oggetto di parallela cupidigia. Poi, naturalmente, che si facciano o meno, le cose, dipende da tante variabili: ma vuoi mettere l’immagine? L’idea che quello è un parco, un posto dove si va, visibile, accessibile, bello, pieno di gente e di cose da fare, stramoderno con le urban farm che sono il fiore all’occhiello di qualunque amministrazione davvero progressista.

Cose da fare, cose concrete, cose visibili: questa è l’immagine di un Partito del SI, lontana mille miglia sia dalle lamentele perché non si hanno abbastanza conduttori televisivi prezzolati, sia dai sorrisetti di compatimento, perché con quattro serre di cetrioli idroponici non si riesce a “superare il capitalismo”.

In effetti non era nelle intenzioni. Ma non risulta però che coi sorrisetti sofferti di compatimento si sia mai superato alcunché.

Nota: gli articoli citati nel testo sono quello di Riccardo Rosa dal Corriere della Sera, sui grattacieli alla Cascinazza, e quelli di Alessia Gallione da Repubblica, dedicati alla "emergenza serre" nell'area Expo (f.b.)

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