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Dario Di Vico
Sfilata di capannoni vuoti a Nord Est L’idea: rottamarli o il riuso creativo
10 Giugno 2010
Consumo di suolo
Sembrano capirlo un po’ tutti, che il problema dei capannoni è ambientale e di rapporto con la realtà dello sviluppo. Tutti, tranne qualcuno, naturalmente … Il Corriere della Sera, 8 giugno 2010 (f.b.)

La battuta dell’architetto è intrigante. Con i capannoni del Nord Est sta succedendo qualcosa di analogo ai film di Totò, prima sono stati derisi e trent’anni dopo tutti li rivalutano. Anche in questo caso la rivisitazione è tardiva visto che ormai lungo la Pontebbana, la Valsugana e la Strada del Santo campeggiano le scritte «Vendesi» e «Affittasi». L’epicentro è nella provincia di Treviso con un 20% di capannoni inutilizzati ma dati analoghi interessano tutto il Veneto e il Friuli, con le sole eccezioni di Belluno e Rovigo. Una dimostrazione di come la storia (che sarebbe dovuta morire) sia arzilla e corra velocissima. Ci stiamo ancora interrogando sul riuso dell’archeologia industriale del Novecento, quella «nobile» alla Marzotto/Valdagno, con mattoni a vista, merletti e decorazioni di stampo storicista, e già siamo costretti a fare i conti con i resti materiali del post-fordismo, con le vestigia dell’industrializzazione diffusa.

Il prezzo (alto) allo sviluppo

I capannoni standard, a campata unica e volta a botte, quelli che gli americani chiamano shoe box, scatola di scarpe, sono quasi sempre di cemento grigio. Ottocento-mille metri quadri spesso attaccati all’abitazione dell’artigiano e a due passi dal bar Sport del paese. Negli anni del miracolo nord-estino ne sono nati dappertutto, quasi sempre lungo le strade come accadeva nel Far West e sono stati unanimemente giudicati il prezzo (alto) pagato allo sviluppo, la causa prima del degrado del paesaggio veneto. Nella Marca trevigiana su 95 comuni le zone industriali previste erano 313. In realtà le isole produttive con capannoni e carrozzerie arrivano almeno a quota mille, tutte sviluppatesi in maniera anarchica per colpa di sindaci, imprenditori, immobiliaristi e parroci che mentre i muratori tiravano su le pareti si giravano dall’altra parte. Il giudizio formulato dal grande geografo e paesaggista veronese Eugenio Turri in proposito era netto: «Architettura banale, spesso orribile e di forte visibilità, la cui tristezza si coglie soprattutto nei giorni festivi quando le aree industriali si svuotano».

Giuseppe Milan, direttore dell’Unione Industriali di Treviso, pensa però che sia utile riavvolgere il nastro: «Da noi il modello è stato quello della subfornitura. I Benetton, i De Longhi e gli Zanussi avevano segmentato il processo produttivo e ai piccoli imprenditori è stato chiesto di specializzarsi in una sola lavorazione. Questa divisione di compiti ha garantito per anni lo sviluppo, ha fatto la fortuna di tanti e quindi forse oggi non ha senso sputare nel piatto». Del resto ai tempi della crescita facile non c’era piano regolatore comunale che non prevedesse una zona industriale, una artigianale e una commerciale. Non partiva nemmeno la concorrenza tra i Comuni, tanto ce n’era per tutti, le aree nel giro di qualche anno raddoppiavano il loro prezzo e gli uffici urbanistica delle Unioni Industriali erano presi d’assalto dai Piccoli per le pratiche edilizie.

Usati come leva finanziaria

Gli stessi artigiani usavano poi il capannone come leva finanziaria per avere udienza e credito dalle banche. Ma il troppo stroppia e anche in casa leghista oggi ci si pone il problema del paesaggio da tutelare. I maligni sostengono che in questo modo il Carroccio vuole evitare che i capannoni diventino grandi abitazioni zeppe di immigrati, ma più probabilmente è maturata una nuova intransigenza verso il consumo indiscriminato del suolo.

Un vero censimento dei capannoni sfitti o in vendita nell’intero Nord-Est non c’è. È troppo presto. Alla mancanza di numeri certi viene in soccorso il colpo d’occhio. C’è chi per evocare un paragone tira in ballo gli scenari alla Philip K. Dick e il suo algido pessimismo post-moderno. Per operare, invece, un raffronto più prosaico e vicino a noi, il Nord-est dei capannoni vuoti è assai differente dalla cintura della ruggine attorno a Brescia, con le grandi cattedrali della siderurgia ormai svuotate che fanno mostra di sé a mo’ di dinosauri. L’industria veneta è più giovane, ha meno problemi di smaltimento dell’amianto perché, tutto sommato, chi cuciva vestiti non inquinava. Comunque quale che sia il paragone giusto, la prima ipotesi per i capannoni è rottamarli. «È quella che anche solo istintivamente piace di più» sostiene Ezio Micelli, architetto e assessore al Comune di Venezia. Qualche esperienza è stata fatta - racconta - e cita Montebelluna, la città del sindaco Laura Puppato che ha demolito alcuni impianti "che rappresentavano una ferita", ma anche San Donà di Piave ha operato in senso analogo. Buttarli giù non può essere però una ricetta da adottare e replicare all’infinito. Certo si potrebbe sostituire semplicemente verde a cemento, ma ciò presuppone un intervento finanziario di natura pubblica che di questi tempi è difficile anche sognare. Una strada più realistica porta a convincere e incentivare i proprietari privati di capannoni vuoti perché accettino uno scambio.

Esiste una legge regionale veneta che introduce il principio del credito edilizio, tu rottami da una parte a tue spese e hai diritto a una pari volumetria da costruire in un’altra. Dirlo è facile, realizzarlo un po’ meno. Intanto perché secondo un famoso studio dell’università di Padova (professor Tiziano Tempesta) in Veneto negli anni del mattone facile si è già costruito oltre ogni misura, ma anche non volendo prendere in considerazione i dettami dell ’urbanisticamente corretto, è difficile che in piena recessione un artigiano chiuda a Schio e avvii contemporaneamente un’altra attività a Belluno. L’idea dello scambio comunque è assai presente nel dibattito locale e la rivista Nordesteuropa, che organizza ogni anno in primavera il Festival Città-Impresa, sta studiando il tema per mettere a punto una nuova proposta. Anche l’idea cara all’ex governatore Giancarlo Galan di liberare il territorio costruendo grattacieli non sembra in realtà così attraente. Secondo Flavio Albanese, architetto e ex direttore di Domus, «per valutare i grattacieli bisogna capire cosa trovano sotto, che contesto e che accoglienza c’è, costruire in alto non può essere un mero espediente tecnico».

Revisionismo urbanistico



Se la rottamazione è una strada difficile, l’idea del riuso comincia a contare molti supporter della serie «i film di Totò non eran tremendi». È il revisionismo urbanistico che fa di necessità virtù. «Non ha senso rifiutare quello che abbiamo fatto per 40 anni - spiega Claudio Bertorelli, direttore del Festival Comoda/mente di Vittorio Veneto -. Lavorare sui capannoni non è un incubo ma una fantastica occasione. E poi il capannone è uno strumento molto flessibile». Aggiunge Flavio Albanese: «Brutti? È l’architettura dei condomini anni ’70 è forse bella? Vi sembrerà strano ma i capannoni sono assai pertinenti al modo di vivere di oggi. Guardate gli annunci di ricerca di case». Fino a 6-7 anni fa si cercava un appartamento da 140 metri quadri con un grande soggiorno, oggi invece tutti scrivono nelle primissime righe «ampio, spazioso e luminoso». L’idea che circola tra gli addetti ai lavori è di replicare in Veneto quanto fatto a Milano in Porta Genova o a Lambrate, un intelligente lavoro di riconversione urbanistica che deve far nascere occasioni di lavoro e loft da abitare, perché, «non è tempo di soldi pubblici, non siamo negli anni ’70, i capannoni vanno rimessi in commercio». Bertorelli giura che di esperimenti di questo tipo ormai ce ne sono in giro per il Nord-Est alcune decine. I casi più conosciuti sono quelli di Mario Brunello, che insediato il suo laboratorio musicale Antiruggine in un capannone nel centro di Castelfranco e di Cristiano Seganfreddo per l’arte contemporanea in piena Vicenza. Tutti laboratori di terziario, tutti esperimenti di un’economia nella quale si dà per scontato che viaggino campioni e idee al posto delle merci. Tutti test di maturità per la classe creativa veneta che adora il sociologo americano Richard Florida.

Tra manifatturiero e terziario

Ma quale sarà veramente l’economia del dopo-crisi? Ci sarà davvero una staffetta più o meno virtuosa tra manifatturiero «povero» e terziario creativo? Gli industriali di Treviso per risolvere il rebus dei capannoni partono da queste domande. Il direttore Milan sostiene che dalle informazioni raccolte è vero che i capannoni inutilizzati sono più frequenti nelle aree industriali più piccole e meno attrezzate ma la sorpresa è che in parallelo vi sono numerose imprese che hanno comunque esigenza di spazi più grandi rispetto al passato. Servono a creare un’organizzazione più efficiente del loro ciclo industriale e logistico. I nomi sono importanti come gli investimenti che hanno messo in cantiere: infatti Geox, Benetton, Breton, Texa e Polyglass negli ultimi mesi hanno, in controtendenza, accresciuto le loro superfici. Ma accanto alla logistica che ha bisogno di grandi spazi si intravede un ruolo anche per le matite. L'idea che circola tra i confindustriali è quella di assecondare una sorta di via trevigiana al design. Si è partiti ristrutturando una vecchissima fornace ad Asolo e lanciando Treviso Design ma l’idea è che un giorno o l’altro verranno buoni anche quei famigerati capannoni. A meno che nel frattempo non si siano trasformati tutti in discoteche.

Nota: quasi contemporaneamente a questo articolo, un quotidiano americano ne pubblicava un altro su temi identici, anche se in prospetiva diversa, sul noto caso di deindustrializzazione dell'area di Detroit, che propongo su Mall (f.b.)

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