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Pierluigi Panza
Le città tradite dall'architettura
3 Giugno 2010
Recensioni e segnalazioni
Recensione all’ultimo lavoro di Vittorio Gregotti, “Tre forme di architettura mancata”, Il Corriere della Sera, 3 giugno 2010. Perché i superprogettisti attuali sono inadeguati (f.b.)

A causa di un’interpretazione perversa, nichilista e schizofrenica della globalizzazione, l’architettura sta rinunciando a tre suoi storici principi: quello di modificare il contesto urbano con un disegno razionale e socialmente condiviso; quello di lavorare anche nella piccola dimensione e, infine, quello di intendere la costruzione come metafora di lunga durata. È quanto denuncia Vittorio Gregotti in Tre forme di architettura mancata (Einaudi).

Sono considerazioni veritiere, frutto di un’analisi attenta delle trasformazioni in atto nelle città del mondo.

La prima rinuncia riguarda il disegno, ovvero lo strumento di mediazione tra pensiero e azione costruttiva, «ridotto oggi a design», così come l’architettura è ridotta a immagine al servizio del consumo e del consenso. Tra le cause che hanno portato a questa condizione Gregotti ne evidenzia, in particolare, due. Una è l’estensione del termine «creatività» a qualunque fenomeno e la sua identificazione con la «diversità» o la «bizzarria». Aspetti, questi, che portano a privilegiare i progetti più mercificabili perché rispondenti ai criteri di spettacolarizzazione (come studiati da Guy Debord). Gregotti rivolge a questo atteggiamento la critica di Kristeller: «Nel mondo esistono molte idee originali, che però sono inutili o persino dannose». La seconda causa che ha portato alla prima rinuncia è la feticizzazione dei nuovi mezzi di rappresentazione. Gregotti ritiene che i nuovi mezzi messi a disposizione dalla rete e dal broadcast non abbiano ancora «trovato una relazione con i processi di costituzione del progetto».

La seconda rinuncia dell’architettura contemporanea, indotta dalla predilezione accordata oggi ai flussi immateriali e al consumo, è la negazione con la storia e con i luoghi come territori della memoria da trasformare nel dettaglio. In sostituzione a questa relazione assistiamo al trionfo del colossale, diventato quasi un’esibizione fallica del potere. Si tratta di una «bigness» architettonica (il grattacielo più alto, più storto, ruotante...) che nulla ha a che vedere con le cosiddette sette meraviglie, o colossi, del mondo antico, ma è espressione di «potere violento», come si mostra nei Paesi asiatici, dagli Emirati alla ex Unione sovietica. Solo rivalutando l’importanza del contesto, «proprio perché viviamo un’età di incertezza dei fondamenti e delle regole», e solo affidando la trasformazione al disegno al di fuori di un uso ideologico possiamo riassumere una «responsabilità di lunga durata». Accettando di essere solo rispecchiamento del nichilismo contemporaneo (quasi una nemesi per il pensiero di sinistra che aveva sostenuto la «teoria dell’arte come rispecchiamento» di Lukács, e questa è una possibile prima obiezione alle «tre rinunce») l’architettura si presenta come mera merce comunicativa, rinunciando a quel cammino di rischiaramento proposto dal Razionalismo così come va definendosi tra il 1910 e il 1933 e che trova la sua genesi già nel Settecento utopistico di Ledoux.

Infine, lo «scostamento» verso un’idea di arte come appagamento delle emozioni sottrae all’architettura una terza caratteristica sua propria: quella di essere una «metafora dell’eternità» come fu dalle origini, siano esse fissate nella capanna primitiva di Laugier o nel vitruviano radunarsi degli uomini intorno al fuoco.

L’architettura, dunque— come scrive Gregotti —, è diventata «landmark», oggetto di arredo urbano, «brand», packaging, mezzo per creare consenso politico (questo, che ora si chiama marketing urbano, non è però una novità) ecc. ecc. Ma perché oggi avviene questa triplice dissociazione tra l’architettura e la sua tradizione?

Credo non inopportuno provare a tracciare qualche risposta come avvio di un discorso sull’analisi di Gregotti.

Anzitutto perché l’attuale «società liquida» è dissociata, schizofrenica, giunta alla creazione di cellule artificiali, corpi transgenici, organizzazioni post famigliari, sistemi a obsolescenza rapidissima e molto altro ancora. L’architettura, che come diceva il filosofo progressista Enzo Paci in Relazioni e significati, deve ogni volta rifare i conti con la Lebenswelt, con «il mondo della vita», poteva o doveva restare impermeabile a tutto ciò (seconda obiezione alle «tre rinunce»)?

L’architettura, proprio perché opera su un territorio della memoria (la conservazione delle tracce materiali mi sembra una consapevolezza abbastanza raggiunta), è chiamata a lasciare una testimonianza formale anche di questa nostra stagione, per quanto perversa possa essere. Altri conserveranno o cancelleranno questi nostri segni.

Bene, ma l’architettura, ha detto altrove Gregotti, può assumersi però il compito di porsi come attività di critica operativa verso questa società, proprio partendo— con una ipotesi di lavoro che era un tempo patrimonio della destra conservatrice— dal rispetto per la propria tradizione. Questo è il coraggioso obiettivo di Gregotti. Ma come realizzarlo non solo a parole? Un muro dritto e spoglio, anziché storto e colorato, ci farà essere uomini migliori come pensava Rousseau nel 1747? «Lo sforzo progettuale — scrive come messaggio in bottiglia Gregotti — si dovrebbe concentrare sempre intorno alla ricerca di un principio insediativo che facesse spazio al nuovo come ragionevole dialettica nei confronti del contesto, si proponesse radicalmente diverso nei principi anziché nella morfologia decorativa... e al riparo dalla ridondanza... Un’architettura nobilmente semplice».

«Nobile semplicità», come obiettivo dell’arte: l’aveva già scritto Winckelmann nel 1746. Ma quanta alta ambizione c’è nell’affidare all’architettura un ruolo da protagonista nella trasformazione sociale, chiedendole di non cedere al soddisfacimento di desideri semplici (come invitava invece a fare il filosofo marxista Ernst Bloch in Il principio speranza, terza possibile obiezione alle «tre rinunce»)! In una civiltà che abbandona anche il «principio d’individuazione» del singolo individuo, l’architettura dovrebbe non mollare Alberti e Vitruvio e farsi quasi braccio operativo delle «scienze sociali». Rischiando di tornare ad essere persino una «istituzione totale», pericolo mostrato dal filosofo filo maoista Michel Foucault (quarta obiezione alle «tre rinunce»). In questa prospettiva c’è qualcosa di glorioso e nobile per l’architettura, che la rende autonoma nelle scelte rispetto alle altre discipline, ma anche eteronoma rispetto agli scopi da raggiungere.

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