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Piero Bevilacqua
Perché TINA [There Is No Alternatives] non ha vinto
13 Maggio 2010
Capitalismo oggi
Il nostro opinionista interviene nella riflessione collettiva che si sviluppa sulla rivista Carta (14 maggio 2010) proseguendo il ragionamento iniziato da Guido Viale

Un breve ricapitolazione storica.

Viale si pone e ci pone grandi, ma essenziali domande, di quelle che tutti noi ci facciamo da tempo, in interiore homine, direbbe Sant'Agostino, ma che non facciamo sistematicamente in pubblico. E a cui, soprattutto, non tentiamo di dare risposte che non siano frammentarie, impressionistiche e occasionali. Ma sono domande importanti, che costringono a guardare con impegno di analisi storica alle vicende italiane e internazionali degli ultimi decenni, ci spingono a comprendere come siamo arrivati sin qui. Interrogativi che in parte si sono già posti e dovrebbero continuare a porsi gli intellettuali di sinistra nei Paesi dell'Occidente. Certo, per rispondere in maniera circostanziata occorrerebbe un saggio , difficile da scrivere, perché dovrebbe coinvolgere non poche competenze. Ma i dibattiti sono utili, aprono problemi e influenzano poi le domande che si pongono gli storici nelle loro ricerche.

Noto, a questo proposito, come segno importante di presa di coscienza, che da qualche tempo si è cominciato a fare opera di ricapitolazione di come sono andate le cose nel trentennio neoliberale. L'ha fatto Serge Halimi, con Il grande balzo all'indietro (2006) David Harvey, con Breve storia del neoliberismo ( 2007 ) Naomi Klein, con Shock economy ( 2007 ) Angelo d'Orsi - l'unico storico di mestiere tra i menzionati - con 1989 (2009), per non dire dei contributi di analisi storica contenuti spesso nelle analisi di un sociologo come Luciano Gallino. E in Italia, non sono mancate le ricostruzioni di storia politica, come ad es. i vari saggi di Nicola Tranfaglia e soprattutto le analisi dedicate a Berlusconi e al berlusconismo. Ultimo il contributo di Antonio Gibelli, Come Berlusconi è passato alla storia( 2010) Incominciamo, dunque , a disporre di sufficiente documentazione per fare luce sulla nostra storia recente. Oggi possiamo cercare di rispondere alle domande che Viale si pone, con meno improvvisazione e molti materiali documentari a disposizione. E, pur nei limiti di una discussione, è possibile utilizzarli per fornire spiegazioni meno impressionistiche di alcuni anni fa.

Io vorrei svolgere delle considerazioni di carattere storico privilegiando due ambiti distinti di realtà, ma che sono poi fortemente legati tra di loro e le cui trasformazioni ci ci forniscono molte informazioni sulla situazione presente. Il primo riguarda l'iniziativa del capitale – vecchio lemma marxiano oggi significativamente dimenticato – il secondo ha a che fare con la morte e la trasfigurazione dei partiti di massa.

Vediamo, brevemente, che cosa sta al fondo delle trasformazioni che ci consegnano la situazione confusa e paradossale in cui viviamo. E' una pagina di storia che appare ormai chiara a tutti. A partire dagli anni '80, il capitale messo in difficoltà, limitato nella sua capacità di accumulazione da quasi due decenni di lotte e di conquiste operaie, spinge sul ceto politico di governo per riprendersi i margini di profitto che non riesce più a conseguire in fabbrica. La Thatcher e Ronald Reagan sono i leader che incarnano con maggiore coerenza ed energia questa esigenza di ripresa dello sviluppo capitalistico. I due modificano il sistema fiscale progressivo (Reagan opera il più grande taglio delle tasse della storia americana) liberalizzano i capitali, riducono le risorse per il welfare, emarginano i sindacati, ecc. Tutte cose note. Meno noto è il fatto - o , per lo meno, poco posto in rilievo - che tale operazione riesce a far leva su una accumulazione teorica e culturale vecchia di decenni, che in quegli anni comincia ad esprimere tutta la sua energia. Si tratta degli studi, ricerche, dibattiti - come ha mostrato ampiamente Serge Halimi - della Mont Pelerin Society, di economisti come Ludwig von Mises, Milton Friedman, teorici come Friederich von Hayeck, ecc. Tutto il bagaglio neoliberista, messo in soffitta dalla grande avanzata dei movimenti egalitari dei primi decenni della seconda metà del secolo, riemerge ora sia come supporto ideologico del capitale, ma anche come prospettiva di sviluppo, di emancipazione dell'intera società.

Quest'ultima notazione meriterebbe una riflessione apposita. Noi, infatti. ci siamo poco interrogati sulle ragioni del successo del messaggio neoliberista, che ha spadroneggiato sulla scena mondiale per un trentennio. E che ancora lancia proclami nonostante la montagna di disastri sotto cui la storia l'ha seppellito. Un successo anche elettorale, vale a dire il premio del consenso da parte dei cittadini elettori, soprattutto in USA e in Gran Bretagna. Halimi attribuisce la resistibile ascesa soprattutto alla incapacità di resistenza dei partiti storici della sinistra. E questa è certamente una parte della risposta, ma non la risposta. Una più ampia spiegazione, a mio avviso – pur nei limiti di queste note – consente di capire meglio le ragioni di una sconfitta e soprattutto le possibilità che oggi si aprono davanti a noi.

Io credo, infatti, che il neoliberismo si è affermato grazie alla sua capacità di presentarsi come un messaggio di liberazione, di avanzamento di civiltà. Esso è stato in grado di elaborare un nuovo racconto della modernità, di rilanciare aspettative di carattere universale. La libertà individuale combinata con la promessa di arricchimento ha costituito una miscela di potente suggestione ideologica. Ma il successo del neoliberismo è stato reso possibile da un insieme di circostanze che noi autocriticamente dovremmo oggi essere in grado di porre in luce con maggiore coraggio. Provo, per brevità ad elencarle: 1) La crescita del welfare negli anni '60 e '70 aveva creato una crisi fiscale dello Stato che ha finito col rendere sempre meno popolari le politiche keynesiane di piena occupazione e di redistribuzione della ricchezza. Qui, sul piano della teorica economica, la risposta più convincente e alla fine vittoriosa è apparsa quella neoliberista. La sinistra non ha avuto una propria risposta strategica dotata di pari forza. 2) La spinta egalitaria degli anni Sessanta e Settanta, si era esaurita, trasformata in corporativismo conservatore di gruppi, ceti, che difendevano alla fine anche tanti privilegi ammantati di conquiste sindacali. A questo proposito va detto che non si comprenderebbe il lungo consenso di cui, per esempio, ha goduto la Thatcher se non si comprende il risentimento popolare su cui essa ha potuto far leva denunciando posizioni di corporativismo sempre meno giustificabili. 3) In Germania e in Italia – Viale ne fa giustamente cenno per l'Italia - una parte dei movimenti è addirittura finita nel terrorismo, creando un danno di incalcolabile portata. 4) La spinta egalitaria non è stata in grado di elaborare una nuova visione generale delle sue ragioni e soprattutto non è stata in grado di realizzare una sintesi con le nuove culture emergenti dell'ambientalismo. Queste ultime, che pure hanno conosciuto momenti importanti di affermazione, sono rimaste come realtà “specialistiche”, di forte marchio identitario, ma incapaci di diventare l'asse di una nuova progettualità politica simile a quella dell'egalitarismo antiautaritario dei decenni precedenti. 5) L'URSS appariva ormai come un pachiderma autoritario privo di vita e di prospettive. Questa può apparire una notazione eccentrica, che poco abbia a che fare con il successo del neoliberismo.Al contrario, io credo che sia centrale. Già prima del suo crollo, l'URSS inviava messaggi devastanti per le sinistre sparse per il mondo. Negli anni di Brezeniev quel Paese non appariva in grado di far accedere con regolarità i cittadini ai beni di prima necessità, mentre le vetrine dei Paesi dell'Occidente straripavano di beni di lusso. Dal Paese del socialismo realizzato non era mai arrivato un contributo teorico e culturale degno di nota per la causa del sinistra internazionale. E in quegli anni si poteva registrare – come si espresse Mario Tronti – solo «l' encefalogramma piatto del materialismo dialettico». Vale a dire la vulgata ideologica del marxismo ridotto a catechismo scolastico. Ma in tanta inerzia e immobilità era racchiuso un insegnamento distruttivo per tutti noi. L'egalitarismo bolscevico, la socializzazione dei mezzi di produzione, vale a dire l'indicazione strategica fondamentale dell'alternativa al capitalismo, erano finiti in un cul de sac.

Dunque, riassumendo, in quegli anni i nostri numerosi e anche universali successi, tutta la nostra precedente storia, bloccata in un empasse strategico, appariva come un unico irrimediabile errore. E lo Stato, la leva fondamentale per la redistribuzione della ricchezza, si cominciò ad additarlo non più come la soluzione, ma per usare le parole di Reagan all'atto del suo insediamento , come «il problema».

Quel che accade ai partiti.

Dunque non si comprende il successo dell'ideologia neoliberista se non si rammenta questa temperie politica e culturale, ma anche se non si afferra l'orizzonte progettuale che esso è stato in grado di offrire in quella fase storica. Aggiungiamo, che, a cascata, l'iniziativa della destra ha conseguito successi su successi, ad esempio trascinandosi dietro la grande massa degli intellettuali organici del secondo Novecento: gli economisti. Questi nuovi ideologi della crescita non solo si sono moltiplicati a dismisura, si sono insediati in tutti i gangli di potere della società attuale( Governi, Banche, FMI,Banca Mondiale, Centri Studi, Università, ecc) ma hanno creato un nuovo dominio ideologico, quello che io chiamo l'aristotelismo economicistico della nostra epoca. Essi hanno elaborato ed imposto l'economia capitalistica come un principio di realtà, la crescita come condizione ineliminabile dell'avanzare della storia umana.

Nella congiuntura storica che abbiamo molto schematicamente tratteggiato, i partiti storici della sinistra si sono trovati intrappolati. Essi non solo non disponevano di nuove strumentazioni teoriche per rispondere alla sfida che avevano di fronte, ma addirittura si trovavano obiettivamente nella stessa traiettoria degli avversari. Non chiedevano i vecchi partiti comunisti, socialisti e socialdemocratici dell'Occidente lo sviluppo economico sempre più ampio per poter redistribuire la ricchezza? Ebbene, qual'era in quella fase la via migliore, la più efficace, quella di un potenziamento dello Stato sociale, che frenava l'economia e creava inflazione , o quello di liberare le forze produttive da lacci e lacciuoli per far riprendere la corsa dello sviluppo?

Il fatto che gli ex partiti operai e popolari abbiano a un certo punto fatto proprio il punto di vista e addirittura l'orizzonte strategico dell'avversario è infatti l'altro grande passaggio che spiega molte cose del presente. Risponde a molte delle domande che Viale formula. Dal momento che quei partiti non si pongono più il problema di rappresentare gli interessi della classe operaia, essi sono spinti a cercare il loro consenso un po' dappertutto, diventano, per dirla con le parole del politologo tedesco Otto Kircheimer, partiti pigliatutto. Da quel momento non serve più la militanza, il partito dotato di insediamento territoriale, faticoso da gestire. Serve un strumento agile, capace di lanciare continui messaggi pubblicitari rivolti indistintamente ai cittadini ridotti a elettori. Possibilmente guidato da un capo, che ha elevate capacità comunicative, nell'epoca in cui la TV è diventato il mezzo principe della lotta politica. In Italia Massimo D'Alema ha incarnato alla perfezione questa metamorfosi con risultati di fallimento che oggi dovrebbero far parte di un sereno e definitivo bilancio storico.

Se non riflettiamo bene su questa radicale trasformazione della politica, dei suoi mezzi, dei suoi linguaggi, delle sue simbologie ci perdiamo un tratto fondamentale della trasformazione culturale in cui siamo immersi. Come aveva lucidamente previsto Guy Debord, la politica è stata fagocitata nella società dello spettacolo. Spettacolo che è un settore dell'industria dell'intrattenimento, vale a dire un segmento del capitale. Dunque gli strumenti della rappresentanza sono finiti nel tritatutto dell'industria capitalistica.Gli strumenti della democrazia rappresentativa trasformati in ingranaggi della macchina economica. E in questo l'Italia diventa un caso da laboratorio: perché un capitalista, Berluscconi, un capitano d'industria della società dello spettacolo, diventa anche presidente del Consiglio. Il capitale che si mangia la politica e la subordina ai suoi voleri conosce una incarnazione personale potremmo dire perfetta.

Stentiamo a riconoscerlo: ma la politica, che aveva incarnato per decenni e per milioni di uomini, un modo di vivere e di interpretare il proprio tempo, un progetto di speranza collettiva è degradata a mera finzione spettacolare. Una stella polare che indicava una via e dava senso alla storia è stata cancellata dall'orizzonte. Va ricordato a questo proposito che il dilagare ossessivo dell'ideologia mercatistica, l'illusione di affidare al libero mercato la soluzione di tutti i problemi sociali, ha colpito al cuore una delle grandi conquiste della civiltà politica europea: la figura e la nozione di interesse generale. Nelle nuova vulgata questo è stato affidato allo spontaneo ricomporsi degli egoismi individuali, all' hobbesiano homo homini lupus, che si sarebbe ricomposto in una superiore armonia sociale grazie alla sua intrinseca logica competitiva. Si è trattato di una delle più colossali sciocchezze ideologiche circolate nel dibattito pubblico in tutta l'età contemporanea. Ma l'esaltazione degli interessi individuali, dell'egoismo del singolo come motore di progresso, che ha colpito ovunque lo spirito pubblico dei diversi Paesi e devastato la politica, in Italia ha avuto effetti particolarmente perversi. Nel nostro Paese, dove lo Stato-Nazione è non solo di recente formazione (come la Germania), ma soprattutto fragile per varie ragioni che qui non si possono spiegare, i grandi partiti di massa avevano surrogato la debole identità nazionale degli italiani. Risucchiati i partiti nella macchina dello sviluppo, nel giro di 10-15 anni, i nostri concittadini sono stati privati di gran parte degli antichi punti di riferimento. E nella confusione e nel risentimento generale l'individuazione di un capro espiatorio, la scoperta di un nemico – la massa dei disperati che si rifugiano nelle nostre città e campagne - può rappresentare perversamente, per molti, un segnale di orientamento e di senso. Non si comprende dunque la scadente qualità dello spirito pubblico che ha segnato tanti ambiti della vita italiana senza considerare queste trasformazioni.

Nuovi saperi e democrazia.

Abbiamo cercato di disegnare le origini capitalistiche dello stato presente. Ma oggi noi possiamo anche discorrere del seguito di una storia che è andata diversamente da come i suoi protagonisti si aspettavano. Credo che sia molto importante sistemare quanto è avvenuto nel quadro di un ciclo storico ormai concluso. E non c'è dubbio, a tale proposito, che la grande sfida neoliberista è definitivamente tramontata. E' terminata non solo per il tracollo economico e finanziario in cui quella politica ha trascinato il mondo intero. La crisi presente è solo la sanzione definitiva di un fallimento più generale e ormai inoccultabile. Com'è ormai noto, quella stagione non ha accresciuto i posti di lavoro, ma ha solo camuffato e nascosto una montante disoccupazione di massa con il lavoro precario. E a ha fatto ristagnare i redditi di ampie fasce di popolazione sia in Usa che in Europa. Dalla fine degli anni '80 le crisi finanziarie hanno costituito un vero e proprio “periodo sismico” delle società industriali, quale mai si era visto nei decenni e secoli precedenti. La politica dominante ha alimentato i consumi con l'indebitamento delle famiglie e ha messo le società di fronte a problemi prima sconosciuti: montagne di rifiuti che minacciano i centri abitati, inquinamento e distruzione dei territori, delle acque, delle coste, consumo distruttivo di risorse, prospettive di mutamenti apocalittici degli equilibri climatici. Ma forse soprattutto il più cocente dei fallimenti, che colpisce al cuore il pensiero neoliberista, è stato la minore crescita del Pil mondiale rispetto ai periodi precedenti. Tra il 1979 e il 2000 il tasso annuo di aumento è stato dello 0,9 contro il 3 del 1961-78 e il 3, 4 del 1950-60 (B. Milanovic, Worlds Apart . Measuring international and global iniequality, Princeton University Press, 2005). Quindi neppure scatenando tutte le forze, in piena libertà, il capitalismo è riuscito a creare più ricchezza rispetto ai periodi dominati da politiche keynesiane.

Occorre dunque soffermarsi su questa sconfitta storica. Perché essa costituisce una frattura incomponibile nel fortilizio dell'egemonia capitalistica e apre varchi nuovi alla progettualità alternativa della sinistra. Anche se il presente appare confuso e scorante occorre saper guardare sotto la superficie confusa della cronaca e cercare di intercettare le onde lunghe e sotterranee della storia. Per questo io dico, con assoluta convinzione, che T.I.N.A. non ha vinto. L'affermare che non ci sono alternative al dominio presente altro non è che l'ennesima incarnazione di una annunciata fine della storia. E sia per il mestiere che faccio, che per l 'esperienza condivisa con milioni di persone, so bene che chiunque abbia proclamato la fine della storia è stato sempre, di lì a poco, superbamente smentito dal corso della storia reale.

Si possono oggi elaborare prospettive che fanno capo a saperi nuovi, fondati su una visione olistica della realtà, capace – come insegna Edgard Morin- di guardare al mondo sociale e naturale come parte di una rete di equilibri complessi che si muovono insieme. Il capitale oggi dispone solo di mezzi di conoscenza strumentali, specialistici e votati al dominio e all'uso, ma la sua cultura fondamentale, l'economia, è ormai diventata una tecnologia della crescita. Nulla di più. Essa è ormai priva di pensiero. Nel campo della sinistra molto è nel frattempo fiorito e cresciuto. Esiste oggi una cultura diffusa, potenzialmente egemonica, ma frantumata e dispersa, impensabile solo 30 anni fa. E ovviamente diffusa su scala mondiale. Uno studioso che ha lavorato per anni, cercando di dare dimensioni al fenomeno, ha potuto constatare che sono decine di milioni le persone che nel mondo danno vita a movimenti per rivendicare diritti personali e ambientali. E si tratta di un fenomeno in costante espansione( P. Hawken, Moltitudine inarrestabile, Edizioni Ambiente, 2009). Questa incoraggiante scoperta apre ovviamente rilevanti problemi di coordinamento che rappresentano una delle grandi sfide e uno dei nuovi territori di impegno della sinistra.

Sono molto d'accordo con Viale sul fatto che oggi i movimenti mettano bene insieme – a differenza di quanto accadeva tempo fa – saperi specialistici e circostanziati con la partecipazione democratica. Essi costituiscono l'esatto contrario di ciò che sono diventati i partiti politici tradizionali: non solo chiuse oligarchie, ma gusci vuoti di ogni qualsivoglia cultura e sapere. Piccoli sopramondi che dialogano fra sé su temi che riguardano il loro potere nella società. Tali movimenti, a differenza dei gruppi ideologici degli anni '60, nascono su basi locali e naturalmente posseggono – come patrimonio di formazione e come aspirazione inespressa – un orizzonte generale. Ma il loro fuoco è molto concreto e riguarda ragione prevalentemente di naturale ambientale, ma anche la rivendicazione di diritti, che si innescano nei vari territori. Ora, di fronte a questo mondo in fermento, io credo che si pongano due problemi di prospettiva. Il primo riguarda non solo il collegamento organizzativo fra tante e disperse iniziative e gruppi. Occorrerebbe, almeno una volta l'anno, organizzare un'assise nazionale, convocare gli Stati Generali dei movimenti. E ciò al fine di elaborare l un orizzonte generale comune, obiettivi da perseguire insieme. Servono mete di medio periodo verso cui tendere e far muovere militanti e cittadini. Io credo che un obiettivo su cui lavorare sia quello della creazione di una vasta area di economia dei beni comuni in cui inserire in primo luogo il lavoro umano, risorse come l'acqua, l'energia, la terra fertile, la scuola e l'Università, la sanità, ecc. E qui servono elaborazioni e progetti concreti e praticabili da parte di chi ha le competenze in merito. Se noi riusciamo a rispondere ai disagi materiali, alla precarietà, allo sfruttamento di milioni di cittadini con indicazioni di mutamento possibile delle loro condizioni di vita, con il conflitto organizzato, noi li strappiamo dall'insicurezza che li butta in braccio al populismo mediatico, e alla politica razzista della Lega.

L'altro problema – più volte discusso – è che cosa fare dei partiti politici. Non bisogna dimenticare che essi costituiscono un terreno necessario di conflitto. Spesso la nostra limitata cultura democratica ci fa dimenticare che lo Stato, il quale prende decisioni del tutto lontane dai bisogni dei cittadini (ad esempio mandando l'esercito a combattere in Afganistan, o investendo miliardi di euro in nuovi armamenti ) altro non è che il ceto politico attivo in posti di potere. Sono nostri concittadini, da noi eletti, che prendono decisioni contro i nostri interessi, a favore di poteri economici e politici che li sostengono nella conservazione della loro posizione di privilegio. Possiamo tollerare più a lungo tutto questo ? Nei movimenti si pratica una democrazia diretta, partecipata. Ma la democrazia rappresentativa va alla deriva, sempre meno risponde agli interessi generali. Ci rifugiamo nelle realtà locali aspettando che accada qualcosa ?

Ora, io credo che i partiti senza vita che abbiamo di fronte costituiscano ormai una eredità inerte di un passato particolare. Un passato segnato da una fondamentale caratteristica storica dell'informazione: il suo essere un potere fortemente asimmetrico e disuguale. L'informazione, vale a dire la materia prima della democrazia moderna, è sempre stata una forma verticale di comunicazione. Dai giornali, alla radio alla TV – come ci ricordano gli studiosi dei media, da Castells a Rodotà - tutte le vecchie fonti di informazione cadevano e cadono su fruitori senza voce, consumatori passivi di notizie e messaggi.

Oggi la rete di Internet crea e diffonde una comunicazione di tipo nuovo, orizzontale, in cui tutti si è al tempo stesso creatori, fruitori e distributori di informazioni e conoscenza. I partiti con i loro capi, le loro strutture piramidali (piccolissime piramidi in verità) riflettono una vecchia organizzazione gerarchica destinata a essere travolta o comunque messa in crisi da internet. E qui si apre un varco nuovo in cui occorre cominciare a saggiare nuove potenzialità. Perché non c'è alcun dubbio: la democrazia rappresentativa durerà a lungo e occorre penetrare nel suo fortilizio se si vuole maneggiare anche «le leve di governo» cui allude Viale alla fine del suo intervento. Su questo la creatività politica dei movimenti deve fare un passo avanti. Occorre creare strutture di rete grazie alle quali il potere costruito dal basso condiziona non soltanto le amministrazioni periferiche, ma vuole contare dentro il cuore dello Stato.

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