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Ella Baffoni
Non solo pietre. Le nostre città «militanti»
13 Maggio 2010
Recensioni e segnalazioni
Da Venezia a Signa, Vezio De Lucia racconta cinquant’anni da urbanista vissuti tra l’impegno e l’interesse pubblico. L’Unità, 7 maggio 2010

Non è solo il governo del territorio, l’urbanistica. È politica, è parte di quel vivere civile che pure resiste, sopraffatto oggi dalla rapacità e dall’ignoranza dei potenti. Di questo parla «Le mie città» di Vezio De Lucia.

Facile dire: città. Non so lo pietre e mattoni, ma storia e cultura, politica e società. Provate a leggere Le mie città di Vezio De Lucia (Diabasis). Sono le sue, ma anche le nostre. Cinquanta anni da urbanista vissuti tra speranze e impegno con una bussola forte, l’interesse pubblico. Perché è questo che fa «città»: saper leggere tra le pieghe della comunità, riconoscere l’interesse di tutti e quello dei singoli. Andare oltre al sogno di una paperopoli di villettine in cui rinchiudersi con la tv accesa. Blob melassoso che sta invadendo alcuni dei paesaggi più belli del mondo, cancellando campi e boschi. E che crea insicurezza e paure profonde, tendenza resistibile. Diritti, rispetto, umanità, cultura; se un gruppo si fa comunità è questo il vivere civile. Ora che le città crescono in nome di interessi minuti se non di lobby e di apparati vischiosi, bisogna pur ricordarlo.

Non è un barricadero, De Lucia, né un rivoluzionario. Della stagione del riformismo ci racconta però lo sforzo tenace e controcorrente. E ci porta, pagina dopo pagina, a conoscere uomini a volte dimenticati a cui dobbia mo molto. Antonio Cederna e Italo In solera, Piero Della Seta e Antonio Ian nello, Adriano La Regina e Giovanni Astengo, Leonardo Benevolo e Danilo Dolci, Michele Martuscelli e Eddy Salzano.

L’Italia che lotta per il diritto alla casa ha trovato, a tratti, risposte nell’amministrazione pubblica. Le vittime dei terremoti in Sicilia e Campania hanno avuto ascolto e soluzioni, almeno finché i finanziamenti a pioggia gestiti con grettezza e rapacità non hanno edificato quel disastro, anche morale, che è l’Irpinia.

Il giovane architetto assunto ai Beni stabili colpito dalla tragedia di Agrigento, erano gli anni 60 rinunciò a una lucrosa carriera per fare il funzionario ministeriale. Ai Lavori pubblici lavorò alla legge sugli standard di verde pubblico utili a una miriade di comitati per frenare l’avidità dei costruttori all’equo canone, al Piano casa. Poi, espulso dall’intolleranza del non illuminato Prandini, fu assessore a Napoli, nella stagione del migliore Bassolino, prima del precipizio.

Eccole le «nostre» città. Venezia, Eboli. E poi Roma, Pisa, Formia, Lastra a Signa, la piccola città toscana che rifiuta di diventare hinterland e sceglie il «saldo zero», nessuna nuova costruzione né uso di nuovo territorio ma solo riuso di aree compro messe e parchi a verde. All’Aquila ha dato voce alla critica sulle new town, che hanno consumato il territorio dando una risposta provvisoria e nessun servizio (dove comprare il pane? Dove trovare il giornale?): e il centro storico è rimasto là, in macerie.

L’urbanistica è politica. La deregulation sancita per legge dichiara che la comunità non conta nulla, vince il più forte. Idea eversiva contrabbandata come modernizzazione. A far da argine non bastano ma per fortuna ci sono i comitati cittadini: «Il berlusconismo è diventato la filosofia po litica dominante, anche dove non governa il centrodestra. Sono davvero i peggiori anni della nostra vita». Sicuro. Ma a volte toccare il fondo dà lo slancio per la risalita. E l’orrore del buio dà il coraggio per cercare la fine del tunnel.

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