loader
menu
© 2024 Eddyburg
Ugo Mattei
Pubblico dominio. La suprema legge che espropria i beni comunI
23 Aprile 2010
Capitalismo oggi
Ancora un capitolo dell’acuta analisi sulle basi giuridiche della rapina dei beni comuni. Questa volta si parla anche di rendita fondiaria- il manifesto, 23 aprile 2010

La difesa della proprietà privata è sempre stata l'obiettivo prioritario dell'azione legislativa dello Stato. Solo durante l'esperienza del welfare state sono stati posti limiti al diritto proprietario, tornato ad essere la stella polare che orienta le scelte dei governi e delle organizzazioni internazionali

All'origine della modernità dominio individuale e sovranità dello Stato, entrambi strutture giuridiche indispensabili in quella fase dello sviluppo capitalistico, articolano fra loro un rapporto ambiguo. Da un lato la sovranità dello Stato moderno si configura come dominio sul territorio imitando quindi la proprietà assoluta (allodiale) fondiaria. Sovranità e proprietà privata assoluta divengono così alleate di ferro contro le strutture comunitarie intermedie fra l'individuo e lo Stato (famiglie allargate, gilde, comunità monastiche) e soprattutto contro i beni comuni (usi civici delle foreste, acque, fauna e flora allo stato libero, frutta e prodotti alimentari da raccolta negli spazi accessibili a tutti). Le enclosures inglesi con la conseguente violenza sul ceto contadino impoverito testimoniano l'efferatezza di tale alleanza. D'altra parte più domini sullo stesso territorio, cifra della proprietà feudale medievale, mal si conciliano con le mitologie della modernità (un solo sovrano assoluto), sicché proprietà privata e sovranità pubblica stentano a sviluppare un equilibrio. In Inghilterra, patria delle enclosueres, si articola la finzione giuridica per cui il Re è il solo proprietario assoluto dotato di «dominio eminente», mentre i proprietari terrieri si configurano come meri concessionari dotati di «dominio utile». La nozione di «demanio» che indica nella tradizione continentale (soprattutto francese: domain) l'oggetto della proprietà pubblica (demanio forestale, idrico, militare ecc. ecc.) non soltanto condivide con dominium l'origine etimologica (manus) ma indica un rapporto fra sovrano e beni che è addirittura qualcosa di più specifico della sovranità. Indica in altre parole un vero diritto di proprietà del Sovrano.

La sovranità limitata

Con il naturalismo giuridico olandese (diciassettesimo secolo), il dominio si libera di ogni rapporto con la giustizia distributiva tomistica che aveva mantenuto in vita qualche dimensione di dovere sociale in capo al proprietario privato. Con la modernità giuridica la proprietà privata si identifica unicamente nella dimensione del diritto. Il diritto proprietario di Gaio (il protagonista della nostra storia di violenza legale) si modella così sul potere fondamentale e naturalmente libero di disposizione del proprio corpo e di quanto, con l'uso o anche abuso di esso, egli riesce a estrarre da Gaia (la terra viva, vittima dell'attivismo irrefrenabile di Gaio). La proprietà assoluta di disporre, libera da ogni vincolo, si iscrive dunque fra i diritti naturali dell' uomo libero, ormai homo oeconomicus, monade soggettiva slegata da ogni legame relazionale diverso dallo scambio contrattuale.

Il diritto di proprietà trova nel legame con la libertà (di sfruttamento economico) la sua più forte legittimazione ed attrattiva. La libertà privata di avere ed accumulare senza limiti né doveri è l'essenza del capitalismo. Oggi si riportano con ammirazione le classifiche dei più ricchi del mondo e si considerano dettate da invidia sociale le preoccupazioni di quanti ritengono inaccettabile la diseguaglianza estrema che consegue all'accumulo illimitato dei ricchi. Questa libertà assoluta dell'individuo è da trecento anni l'essenza del diritto naturale di proprietà privata, concepito come pre-esistente alla sovranità statale. Qualsiasi limite imposto ad esso dal sovrano è conseguentemente concepito come eccezionale. Nell'ambito di quest'idea si colloca dunque la tensione formidabile (ed insieme il dualismo esaustivo) fra la proprietà privata e lo Stato, che fa della prima un limite invalicabile per lo Stato sovrano. La proprietà privata (archetipo del diritto soggettivo assoluto) è così scudo nei confronti del sovrano il quale ne riconosce il credito storico come istituzione fondamentale del primo capitalismo, garantendola attraverso la garanzia della riserva di legge e dell'indennizzo nei confronti dell'espropriazione per pubblica utilità. Come è noto, queste garanzie vengono codificate sul finire del diciottesimo secolo nella Costituzione Americana e nel «Code Civil» francese (1804) e si diffondono senza eccezioni nelle Costituzioni del mondo capitalista.

Interessante è osservare che simili garanzie non sono previste per la proprietà pubblica che strada facendo si articola su nuove tassonomie (demanio, patrimonio indisponibile, patrimonio disponibile ecc.) non sorrette da un principio ideologico forte e quindi lasciate al libero gioco della politica e prive di qualsiasi tutela costituzionale. In un certo senso i «diritti» dello Stato non sono declinati in quanto tali. Nella divisione fra privato e pubblico, a quest'ultimo restano sempre meglio teorizzati i doveri di cui il privato «libero» dotato di diritti smette di farsi carico.

La religione dello status

È soltanto con la seconda metà del diciannovesimo secolo che lo Stato sovrano prende coscienza che l'assoluta libertà proprietaria rende Gaio incompatibile con le necessità della convivenza sociale, perché egli inevitabilmente scarica sulla collettività (che lo Stato stesso rappresenta) costi sociali insopportabili. Lo Stato sovrano quindi prova a farsi carico dei doveri rifiutati da Gaio (proprietario libero ed egoista), attraverso la legislazione speciale spesso definita come legislazione sociale. Ciò avviene tuttavia quando ormai il capitalismo fondato sull'accumulo economico illimitato è fortissimo e la primazia economica internazionale si è spostata negli Stati Uniti, luogo in cui l'ideologia materialista dell'accumulo e della mancanza di vincoli sociali diversi dal contratto ha fatto raggiungere all'atomismo sociale uno status quasi-religioso.

La legislazione speciale limitativa della proprietà a fini sociali conferma i tratti eccezionali del dovere sociale di Gaio, e certamente non si fa carico di proteggere Gaia dando un prezzo ai servizi che essa continua a rendere allo sviluppo sotto forma di risorse naturali ed equilibri ecologici conferiti gratuitamente allo sfruttatore privato o pubblico. L'antropocentrismo non risparmia neppure i sistemi socialisti, che si concentrano infatti sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e non di questi su Gaia. Lo sviluppo socialista finora realizzato, fondato su una sovranità statale a matrice proprietaria (capitalismo di Stato), non è meno spietato nei confronti di Gaia di quanto non lo sia quello occidentale.

Nel mondo capitalista il tentativo di limitare Gaio e di teorizzare la proprietà privata come obbligo sociale e non soltanto come diritto, che in nuce potrebbe rendere regola e non eccezione il limite, trova un parziale successo nella Costituzione di Weimar (1919) dove appare per la prima volta la locuzione «la proprietà obbliga». Tuttavia il dibattito sulla funzione sociale della proprietà che ne scaturì non riuscì a superare il dualismo riduzionista fra proprietà privata e sovranità statale che nel frattempo, pur nei limiti della tutela costituzionale della proprietà privata, il positivismo giuridico statalista, trionfante nelle concezioni autoritarie del potere diffusesi in Europa, aveva risolto a favore dello Stato.

In Italia, per esempio, con il Codice Civile del 1942 (ancora vigente) la proprietà è definitivamente scalzata dal piedestallo di diritto naturale preesistente allo Stato (il codice rinuncia a definirla) ma la dialettica fra proprietà privata e Stato non produce una teorizzazione avanzata della proprietà pubblica. Infatti il ruolo di quest'ultimo si limita a regolamentare, conformare e limitare i poteri del proprietario privato che si espandono appena cessa il limite, mentre la proprietà sovrana (dei beni demaniali) non ha vocazione espansiva perché il pubblico difficilmente è visto come portatore di diritti ma solo di doveri di azione (welfare) o di astensione (rispetto della proprietà privata). Il governo pubblico dell'economia infatti si articola su centinaia di enti pubblici (Iri, Eni, Efim, ecc.) governato a sua volta tramite un sistema di eccezioni alla regola, quella dell'impresa privata.

Il dualismo «proprietà- stato» si consolida così nella assegnazione di diritti (alla prima) e di doveri (al secondo). Si naturalizza così una dicotomia fra regola ed eccezione (il dovere è eccezionale e poco teorizzato per il privato; il diritto è eccezionale e sottoteorizzato per il pubblico) che in una concezione della proprietà strettamente individualizzata impedisce di cogliere gli aspetti relazionali ed i veri nessi che ne producono il valore. Tale visione profondamente radicata è prodromica alla privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, esito a sua volta naturale dell'economia cosiddetta mista. Per l'ideologia liberale prontamente tornata dominante dopo la seconda guerra mondiale, lo Stato «toglie valore» alla proprietà privata regolamentandola o espropriandola. Non ci si avvede così che in realtà è lo Stato che «conferisce valore» alla proprietà privata garantendo l'ordine sociale (autoritario) che costringe chi non ha a rispettare chi ha troppo.

Le nuove enclosures

La rendita fondiaria assorbe così l'intero valore dei servizi di Gaia oltre a quello prodotto dalla pressione urbanistica esercitata da chi non ha e deve concentrarsi in città per vendere la sua forza lavoro (proprietà di se stesso). La rendita fondiaria è perciò «naturalmente» assorbita dal proprietario e soltanto in via eccezionale ed in rarissime fasi storiche (in Italia, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento) lo Stato interviene per redistribuirla fra chi non ha (come per l'equo canone) o al fine di dare un sollievo a Gaia (parchi pubblici). Risulta tuttavia evidente all'osservatore non offuscato dall'ideologia liberale dominante come il valore della rendita fondiaria sia in realtà un bene comune prodotto da uno sforzo di cooperazione sociale e dai servizi di Gaia che tuttavia la teoria della proprietà dominante assegna senza corrispettivo a Gaio, proprietario privato.

Il dualismo proprietà privata-stato, accompagnato dalla natura sottoteorizzata della proprietà pubblica come diritto meritevole di tutela e dalla mancanza assoluta di una teoria giuridica del bene comune, conferisce alla proprietà privata un vantaggio ideologico difficilmente colmabile. Infatti, secoli di assorbimento progressivo ed inesorabile del bene comune (sociale o naturale) rende la proprietà privata immensamente potente anche sul piano ideologico e presenta ogni tentativo pubblico di gestire il bene comune (che non appartiene di per se al proprietario privato) un'operazione fiscale, soggetta a limiti sempre più stringenti di fattibilità politica.

Questo fenomeno già non facile da scorgere per la rendita fondiaria diventa pressoché invisibile ma ancor più terribile nell'ambito di quella finanziaria governata della proprietà dematerializzata multinazionale che caratterizza la post-modernità. Beni comuni come la conoscenza, la biodiversità, l'aria, l'acqua e gli stessi codici di Gaia sono progressivamente espropriati a favore del privato senza alcuna garanzia. Solo una costituzione globale del bene comune, declinata in forme nuove potrebbe invertire la rotta. Occorre mettersi al lavoro prima che sia troppo tardi.

SCAFFALI

Il valore delle cose nello spazio legale

Il testo in questa pagina ripercorre temi discussi al Convegno «Beni Comuni e partecipazione politica», organizzato dalla rivista «European Alternatives» all'Università di Roma3 il 14 aprile. Oltre ai testi citati nelle scorse puntate di «Gaio&Gaia» (pubblicati il 5 Febbraio, 13 Marzo e il 2 Aprile), vanno segnali «Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo» dello studioso indiano Raj Patel (Feltrinelli), «La conquista dello spazio giuridico» di Mariano Croce (Edizioni Scientifiche Italiane), «L'Europa del diritto» di Paolo Grossi (Laterza), «Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni» di Daniel Bensaid (Ombre corte) e «Il Saccheggio» di Ugo Mattei e Laura Nader (Bruno Mondadori).

Copyright? Dai pirati agli squatter la proprietà è fuorilegge

Uno dei testi più significativi su come si siano definite, nel corso del tempo, forme di governo dei beni comuni e come quelle stesse forme hanno condizionato lo statuto della proprietà privata è sicuramente «Property Outlaws: How Squatters, Pirates, and Protesters Improve the Law of Ownership» di Eduardo M. Penalver e Sonia Katyal (Yale University Press). Un saggio che merita di essere letto (con la speranza che un editore italiano lo traduca) perché ricostruisce come le norme sulla proprietà privata siano state condizionate dalle esperienze sociali di condivisione dei beni comuni. Così, il ricordo del potere dirompente delle repubbliche corsare nate tra il XVI e il XVII secolo in alcuni zone degli attuali Stati Uniti ha determinato la definizioni di leggi a tutela della «terre comuni». Lo stesso si può dire per le occupazioni delle case che hanno portato al riconoscimento del diritto a non essere cacciati da stabili occupati. Ma anche come il rifiuto del copyright abbia portato alla definizione di norme per una gestione alternativa del diritto d'autore.

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg