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Sandro Roggio
Villette a schiera e tangenziali, la città delle anime morte
8 Novembre 2009
Recensioni e segnalazioni
Una recensione non proprio letteraria all'ormai noto libro di Giorgio Falco, "L'ubicazione del bene". Da La Nuova Sardegna, 8 novembre 2009, con postilla (f.b.)

Sempre più spesso capita che la letteratura possa aiutare le analisi di urbanisti, i quali si spera possano integrarle presto di nuove citazioni da troppo tempo ferme a Calvino di «Le città invisibili».

Nel libro di Giorgio Falco «L’ubicazione del bene» (Einaudi, 141 pagine, 16 euro) la scena è importante, si svincola dal ruolo di sfondo e si prende la parte grande. L’abitato, con le sue fattezze, conta almeno quanto i protagonisti abitanti; irrompe continuamente con annotazioni tecniche puntigliose che attraversano i racconti: dall’inserzione allettante e palesemente ingannatrice dell’agenzia immobiliare alla perizia estimativa a supporto degli atti d’acquisto. Colpisce la doppia cifra del linguaggio. Già nel titolo che allude ambiguamente al bene, al valore dei valori - il bene opposto male - e insieme al bene immobiliare in terra, descritto con la prosa dei catasti e delle conservatorie dei registri. La casa, bene materiale per eccellenza, è l’obiettivo che nel libro di Falco si realizza a prezzo elevato, come sanno quelli che convivono con il mutuo di lungo corso: il bene, ubicato in qualche agognato luogo abitabile, nell’indistinta trama dell’extraurbano lombardo (ma potrebbe essere in tanti altri posti), è il presupposto di una vita migliore; un atto notarile può decidere la felicità di una famiglia che realizza il suo sogno «a un quarto d’ora dalla Tangenziale Ovest», come dice l’ingannevole pubblicità.

Cortesforza: nell’eden di villette dove s’intrecciano le angoscianti storie che racconta Falco, il bene non c’è. Forse non è rintracciabile neppure il male in quel groviglio di drammi che sottintendono la casa e la sua location, i debiti contratti nello sfondo che divorano parte consistente del reddito, il lavoro che tiene lontani dal bene finalmente in proprietà, mentre gli affetti evaporano, le ambizioni tutte si dissolvono gradualmente, le frustrazioni dominano ogni momento della vita dentro e fuori l’ambiente domestico, cioè vicino e lontano dal bene.

C’è soprattutto la coppia potsmoderna (?) che si affanna a tenere la famiglia unita, animali compresi: coniugi che non hanno la forza di lasciarsi e decidono di «mettere in cantiere un figlio», disavventure che sottintendono avventate intraprese, incomprensioni, una disfatta che si rispecchia a Cortesforza. Un topos letterario, ma tra Corsico e Vermezzo, qualcosa di simile c’è, tante volte, e non potrebbe essere molto lontano da lì o da un qualsiasi altro posto «avvantaggiato» da tangenziali e svincoli; accessibile in modo agevole (si fa per dire) solo in automobile, altro bene indispensabile per raggiungere la meta: la villetta monofamiliare con giardino, mito incontrastato dell’abitare sublimato dalle fictions televisive americane; sintesi individualista, identica a quelle a fianco; stesse abitudini: il centro commerciale più vicino il sabato, il tosaerba e il barbecue la domenica, di nuovo in auto nell’ingorgo interminabile del lunedì mattina.

Nel Paese delle mille città, diverso dall’America, la scelta antiurbana della villetta nel verde nei pressi di uno raccordo è stata alimentata dai messaggi televisivi e sostenuta dalla speculazione edilizia che da decenni produce periferie insensate che divorano il paesaggio agricolo superstite, e insieme storie di ceti medi avviliti dentro questi spazi socialmente contraddittori. Storie che appartengono in modo indistricabile a luoghi così e, chissà perché, non riesci a immaginarle nelle strade e nelle piazze dei vecchi centri.

Oltre i luoghi c’è la commedia umana nel racconto di Falco, impietoso e insieme distaccato; sarà il lettore, se ne avrà voglia, a immedesimarsi nei crucci dei protagonisti e a compatire lui o lei nelle disillusioni ricorrenti. «Il giorno del quinto compleanno di suo figlio, lui compra un camper usato. Lei preferirebbe una casa ma non possono permettersi una casa al mare o in montagna».

postilla

Con un paio di generazioni di ritardo (ma non rispetto al recente film con Di Caprio e Winslet) arriva anche la nostra Revolutionary Road , saga dell’alienazione suburbana dove la banalità diventa tragedia e viceversa. Un po’ meglio, e un po’ peggio, come ovvio, rispetto al modello originale, ma va anche tenuto conto che personaggi e ambienti di Falco sono quelli del terzo millennio, della globalizzazione, della precarietà. La cosa buffa, se così si può dire, è che Roggio è stato fin troppo buono nella sua recensione, forse anche oltre le intenzioni: chissà se Sandro è mai stato in quella striscia di ex campagna “tra Corsico e Vermezzo”, coi capannoni ammucchiati su una sponda del Naviglio, gli arredo bagno persi nei campi dall’altra, e le file di villette a fare da skyline a certi tramonti pieni di catarifrangenti. Perché Cortesforza non c’è, come non c’era ovviamente una Revolutionary Road fra i parcheggi delle balere e le rolling hills del suburbio newyorkese all’epoca delle Levittown. Cortesforza, lo scrittore se l’è inventata, non tanto per evitare le querele di qualche sindaco, villettaro, lottizzatore, ma molto probabilmente per licenza poetica, per poter introdurre qualche variante urbanistico-narrativa, qualche oscillazione nelle destinazioni d’uso dei personaggi e degli ambienti. Che lì “fra Corsico e Vermezzo” manca del tutto. Chi non l’avesse ancora letto lo legga, magari partendo dal piccolo estratto che ho riportato tempo fa su Mall (f.b.)

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