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Le profezie di Keynes
3 Marzo 2009
Capitalismo oggi
I commenti di Rossi e Rampini a partire da una lezione del ’28 del grande economista inglese, tutt’ora attuale. Da la Repubblica, 3 marzo 2009 (m.p.g.)

Il mondo possibile dei nostri nipoti

Guido Rossi

Anticipiamo parte del testo pubblicato accanto a una lezione di John Maynard Keynes del ‘28: ambedue intitolati "Possibilità economiche per i nostri nipoti" (Adelphi, pagg. 52, euro 5,50) in questi giorni in libreria.

A Keynes si deve sempre tornare - se non alle sue profezie, alle sue terapie. In particolare, la crisi dei subprime mortgages, che ha dato l’avvio a un crollo del sistema finanziario di cui è oggi impossibile definire le esatte dimensioni, o le probabili ripercussioni, fa tornare d’attualità una questione molto importante nel pensiero keynesiano, e cioè la domanda se sia giusto o legittimo pagare un interesse sul denaro preso a prestito. Già nelle ultime pagine della Teoria generale Keynes aveva previsto la possibilità che il venir meno della scarsità del capitale riducesse i tassi di interesse, provocando «l’eutanasia del rentier». E’ un dilemma antico (...) e generalmente ignorato, ma che oggi, improvvisamente, appare irrisolto: oggi, improvvisamente, spostare il centro dell’economia dal capitale al lavoro non sembra più utopico, e nemmeno impossibile. La ricchezza delle nazioni, appare evidente, non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull’ingegneria azionaria (...): si misura sulla capacità dell’uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzioni e di consumo. Di conseguenza il prodotto del denaro, cioè l’interesse, dovrebbe essere commisurato alla produttività del lavoro, anziché a un mercato retto dall’azzardo, e dall’azzardo oggi distrutto.

Fino a pochissimo tempo fa, il feticcio della liquidità come unica fonte di ricchezza avrebbe sbarrato la strada a qualsiasi discorso di questo genere, ma oggi si comincia a capire cosa succederà domani, quando qualcuno (o più di qualcuno) pretenderà di incassare strumenti finanziari come i credit default swaps - per chi non li conoscesse, si tratta di titoli che costituiscono vere e proprie «scommesse» senza regole né rete sull’inadempienza di enti pubblici e privati nel rimborso dei propri debiti - mettendo a rischio un giro di affari virtuale, ma che ammonta a più di 62 trilioni di dollari (...). «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non fornisce nessun bene». Keynes lo scriveva nel 1933 su The New Statesman and The Nation dell’8-15 luglio. E stavolta aveva ragione. (...)

Prima o poi, il fenomeno che ci siamo abituati, in mancanza di meglio, a chiamare globalizzazione richiederà una gestione, un controllo altrettanto globali. (...)

Questo postula una sorta di Commonwealth che non sembra alle viste, ma che se venisse istituito in una forma qualsiasi non potrebbe (non potrà) non affrontare precisamente quei problemi (la disoccupazione, lo squilibrio fra Nord e Sud del mondo, l’ambiente) che oggi vengono con sconcertante regolarità accantonati in nome di una superiore ragione economica (...).

E un cambiamento di agenda di queste proporzioni porrebbe il problema (che in effetti comincia a porsi) di rivoluzioni solo in apparenza impensabili, a cominciare dall’avvento di una valuta globale. Non sarebbe in fondo nulla di così diverso dai certificati aurei internazionali che Keynes, durante la tempesta degli anni Trenta, proponeva di emettere e distribuire simultaneamente a tutti i Paesi, a condizioni diverse per ciascuno, con lo scopo di rivitalizzare il potere d’acquisto, consentendo il pagamento dei debiti e la ripresa del commercio internazionale. Se dovesse realizzarsi, questo fronte comune fra Occidente e Oriente contro diseguaglianze e conflitti creerebbe le condizioni per qualcosa di molto, molto simile alla fine dell’economia classica (e, oggi possiamo dirlo, anche moderna, e postmoderna) invocata da Keynes.

Da dove può cominciare, una rivoluzione di queste proporzioni? Senza andare troppo lontano, proprio dalle linee d’intervento proposte da Keynes a Bretton Woods (quella vera, del 1944), che gettavano le basi sia di un nuovo sistema di regolamentazione finanziaria mondiale sia di una politica monetaria internazionale tesa a scongiurare tanto i «credit booms», quanto gli «asset bubbles», cioè l’espansione incontrollata del credito, e più in generale le bolle speculative sui beni, immobiliari, energetici o alimentari che fossero.

La fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto (...). Che cosa sarà non è ancora chiaro, ma nel pensarlo possiamo in un certo senso permetterci più utopia di quanta se ne sia concessa Keynes.

Dopotutto il suo mondo era più piccolo del nostro, e l’unico risultato che i suoi nipoti - cioè noi - hanno ottenuto è di renderlo più grande e più instabile. Ma anche meno limitato, più aperto. Questa apertura sembra oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti, essendone capaci, avranno modo di sfruttare.

E’ ancora lui il terapeuta

Federico Rampini

E’ un Keynes insolito quello che l’Adelphi rivela pubblicando il discorso Possibilità economiche per i nostri nipoti con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l’attualità dei giudizi formulati ottant’anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l’analista-terapeuta più autorevole. Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: «Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E’ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità».

E’ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica («il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire»). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all’economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell’economista sulla pulsione «sadico-anale» insita nella bramosía capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce. Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l’ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui «l’amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente». Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza. «Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo».

Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell’avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica. Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché «l’utopia appare oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare». Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, «dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto».

Sta proprio qui l’interesse di questo Keynes riesumato dall’oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l’ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell’Italia fascista. E’ utile scoprire che dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c’era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.

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