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Lodo Meneghetti
Popolamento e metri cubi
18 Gennaio 2009
Milano
L’ipotesi dell’assessore milanese ...

L’ipotesi dell’assessore milanese (Carlo Masseroli) allo “sviluppo del territorio” (titolo significativo al posto di “urbanistica”) è: 700.000 abitanti in più nella città. Intanto lui decide subito l’aumento dell’indice di fabbricazione da 0,65 a 1 mq/mq.

Tale massa di popolazione dovrebbe trovar posto all’interno del territorio comunale di 181 kmq. Richiederebbe 70 milioni di metri cubi di edifici, 20 kmq di area coperta ma 60 kmq di superficie fondiaria totale, a cui se ne dovrebbero aggiungere altri 20 di verde pubblico, servizi sociali, attrezzature tecniche; poi le infrastrutture di trasporto: si arriverebbe a circa 80 kmq. Partendo dal dato della densità demografica attuale, meno di 7.200 ab/Kmq e applicandolo alla nuova popolazione si ha la conferma: oltre 97 kmq tutto compreso, come in un saldo. Non potendoli reperire si potrebbe sopraelevare tutta la città del 52 per cento, stante che la popolazione aggiuntiva sarebbe il 52 per cento dell’attuale. L’aumento dell’indice di fabbricazione guarda caso è del 54 per cento. La doppia proposta non sembra mettere in rapporto i due termini ma l’assessore, che non è un pazzo, ha un disegno chiaro. Non gl’importa la dimensione demografica della città, gl’importa garantire al mercato immobiliare una colossale crescita delle possibilità edificatorie e gettare le aree ancora libere in mano agli immobiliaristi. Infatti è andato avanti sul piano pratico dell’edificazione pressoché immediata sfruttando la pressione dell’Expo: disponibili 9 kmq di aree a standard e altri 6 di vario tipo, basta sopprimere i vincoli: suoli privati di riqualificazione, aree industriali dismesse, scali ferroviari, aree per servizi tecnologici, eccetera: 15 kmq in totale, pronti per (dicono) 160.000 residenti (noto, 10.700 ab/kmq). Infine il nostro sta promuovendo l’operazione immobiliare sulla zona degli ippodromi in base a un accordo di programma. Non una parola sulla possibile riconquista delle case sottratte alla residenza dalla quarantennale deregulation urbana in favore di una terziarizzazione insensata. E gli edifici nuovi o seminuovi per uffici rimasti vuoti in parte o totalmente? Osservazioni di passaggio perché il tema porta lontano, indietro nel tempo dapprima.

Il discorso dell’assessore e di quelli che lo attorniano è falso, ma insidioso poiché sembra sfruttare certe discussioni del passato che lo stato attuale della metropoli (quantomeno comune di Milano e circondario “dei cento comuni”) fa ritenere morte benché, allora, fondate su analisi e valutazioni ragionevoli. La città, dopo aver toccato il vertice di popolamento, 1.745.000 residenti nel 1973 (1.732.000 al censimento 1971), cominciò a perderne con eccezionale rapidità; nel 1981 ne contava già 140.000 di meno: quello fu il momento in cui avrebbero dovuto essere ascoltate le voci di chi non si rallegrava davanti al fenomeno. Meno gente abita a Milano uguale a meno problemi, sosteneva certa sociologia; al contrario, uguale a più problemi rispose certa urbanistica insieme alla demografia sociale. Lo spopolamento, o meglio la cacciata dei residenti verso l’hinterland e altrove a causa dei noti processi economico sociali produttivi e riproduttivi è stato travolgente, non ha trovato ostacoli e gli abitanti contati dal censimento 2001 erano solo 1.182.000 unità. L’aumento recente (1.302.000 abitanti al 2008) è dovuto esclusivamente all’arrivo di stranieri, non al rientro di vecchi residenti o giovani provenienti dal circondario. L’aver trascurato completamente la questione delle abitazioni, in specie delle case popolari o comunque a regime locativo o proprietario controllato, è la colpa gravissima delle amministrazioni d’ogni colore che si sono succedute. Una questione milanese delle abitazioni doveva essere affrontata come problema residenziale in senso lato inserendo nella prospettiva di nuova città la città storica in primo luogo, poi la città nuova conforme a un piano moderno delle destinazioni sociali.

Il punto di incontro o scontro doveva essere non solo la quantità di popolazione ma anche la struttura demografica e sociale giacché la città stava perdendo quei caratteri che ne facevano una entità equilibrata. L’enorme pendolarismo sconvolge l’equilibrio storico e moderno. Si aggrava in maniera non sopportabile dalle strutture e infrastrutture urbane la contraddizione, per così dire, fra città del giorno e città della notte, fra la città del lavorare studiare vendere comprare e quella del risiedere. Attualmente entrano ogni giorno dai confini comunali dalle 500 alle 800.000 automobili. Alcune centinaia di migliaia di lavoratori arrivano con la Nord e altre linee di trasporto pubblico. Quanti abitanti dunque avrà la città del giorno? Non meno di un milione in più dell’altra. Qual è la città vera? Quale la città giusta? Né l’una né l’altra.

La città notturna è vuota di senso sociale, è priva dei ceti (perché non diciamo classi?) che ne designavano positivamente il carattere e il destino: la famosa borghesia industriale illuminata, la classe operaia antagonista con cui doveva fare i conti. La città notturna presenta una struttura (piramide) per età tutta gonfia verso l’alto, ricca di anziani e vecchi e scarsa di giovani. La popolazione non si riproduce e i rapporti di produzione sono poveri, non presentano articolazioni efficaci. L’industria urbana è sparita, domina il terziario di ogni tipo. Questo è il fenomeno distruttivo della città non resistibile: che le ondate di terziario succedutesi hanno allagato gli spazi residenziali e non si trattava affatto di quel settore “avanzato” con cui i fautori sarebbero disposti a giustificare la demolizione di Sant’Ambrogio. È proceduto senza soste alla conquista della città residenziale un settore economico tutt’altro che innovatore: tradizionale, capillare, nascosto, persino nero, meri uffici e negozi multipiano che scalzavano abitazioni. Forme operanti nel campo delle rendite finanziarie e fondiarie, dei commerci a-qualitativi sia di massa che di élite, di servizi privati mediocri sostitutivi di servizi pubblici. Intere case o parti rilevanti sono state destituite della loro funzione. Il permissivismo circa il mutamento di destinazione faceva parte del gioco, favorito dallo stesso regolamento edilizio. Che dire poi della pratica diffusa e tollerata di affittare le abitazioni come uffici?

La città diurna è un pasticcio, un pudding mal riuscito. Non funziona, vive da malata. Una Milano in cui domina il commercio (in primis quello del denaro) e che perciò dovrebbe, dicono, assicurare la massima dinamica degli spostamenti, trascorre le giornate sconvolta da un traffico privato al limite del blocco perenne. I cittadini residenti ne hanno solo svantaggi. I padroni della città commerciale, i modisti, non sembrano toccati, dispiegano i prodotti nelle loro fortezze (i magnifici palazzi destrutturati). L’autorità pubblica pare sottoposta in pieno agli interessi che provocano l’effetto traffico senza subirne troppo danno.

È passato oltre un quarto di secolo e ciò che sarebbe stato giusto discutere allora, cioè una politica di ripopolamento della parte centrale dell’area metropolitana, è diventata un’idea apparentemente balzana poiché irrealizzabile per mille motivi denunciati da tante associazioni e singole persone. Idea invece perfettamente coerente al disegno neoliberale e neo conservatore di liberare, appunto, la città dagli strati sociali residuali a minor reddito e di trasformarla definitivamente nella città del consumismo smodato. Gli edifici che si costruiranno nelle ultime aree libere prima vincolate a funzioni sociali o comunque utili a cittadini e a commuter resteranno in parte vuoti (cosa irrilevante per gli speculatori), in parte saranno uffici inutili o gestiti dalle mafie di ogni genere, in ultima parte saranno destinati a qualche migliaio di nuovi abitanti chissà da dove provenienti ma in grado di pagare prezzi d’acquisto da 10.000 euro in su al metro quadro o affitti annuali in proporzione. Milano non presenterà nemmeno un metro quadro di superficie pubblica volta al bene sociale, diventerà sempre più invivibile per i milanesi resistiti e per i pendolari costretti a usufruire ogni giorno di una non- città, un mostro disurbano e disumano. Persa per sempre la città funzionante, affabile, bella; durata, pur in mezzo a vicende difficili, fino all’inizio degli anni Settanta.

Milano, 5 dicembre 2008

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