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Fabrizio Bottini
I parchi sono di destra o di sinistra?
2 Ottobre 2008
Il paesaggio e noi
Una riflessione su esiti e prospettive per la tutela della natura, ripensando alla campagna "ammazzaparchi". Lo Straniero, ottobre 2008

I parchi sono di destra o di sinistra?

Naturalmente si tratta – come al solito maneggiando i due mistici concetti - di una domanda piuttosto cretina e mal posta, ma è innegabile che si tratti di un argomento tale da sollevare immediatamente la questione: conservare o innovare, proteggere lo status quo o cercare equilibri più avanzati? E apparentemente la risposta “di sinistra” potrebbe suonare più o meno: ma è ovvio, si tutela la condizione materiale dell’ambiente, e si innova la sua funzione sociale, non più spazio per pochi privilegiati, ma luogo accessibile a tutti gli strati sociali, spazio di salute, ricreazione del corpo e dell’anima, contemplazione …

Qualcosa non torna, eh? Queste sono le caratteristiche di alcuni tipi di parco, ma non riassumono affatto la grande complessità che questa parola assume all’alba del XXI secolo, dopo quasi due secoli di evoluzione e articolazione delle esperienze. Forse, è il caso di fare un passo indietro.

Anche limitandosi al tipo di parco più convenzionale, ovvero quello che vede una forte compresenza di elementi naturali, più o meno addomesticati, e attività umane, esistono almeno due grandi percorsi distinti per la formazione delle idee di oggi: quello che vede al centro dell’attenzione la città, e quello che privilegia invece la campagna. Naturalmente si tratta di “città” e di “campagna” nell’accezione più generale e storica dei termini, ovvero da un lato il luogo della grande concentrazione umana, della produzione di ricchezza, di scambi, di cultura, di socialità; dall’altro l’ambiente degli spazi aperti incontaminati, del rapporto diretto con la natura, della solitudine. E anche, è il caso di ricordarlo, spazio privilegiato di quello che la premiata ditta Marx & Engels non del tutto a torto etichettava “idiotismo della vita rustica”.

È comunque dalla città, non dalla campagna, che partono le idee di parco moderno. L’accoppiata fra le rivoluzioni borghesi del XIX secolo e il poderoso avanzamento tecnico della produzione industriale, se da un lato produce i leggendari orrori di elefantiasi urbana così ben raccontati da generazioni di romanzieri (ivi compresi in epoca recentissima anche l’ex cyberpunk Bruce Sterling o il campione di vendite globalpopolari Michel Faber, con la sua prostituta vagante nei quartieri vittoriani), vede anche la nascita del modello dell’attuale grande parco di città: quello a cui in sostanza alla fin fine spontaneamente pensano tutti, quando si tratta di parchi. Sono, in Europa, le tenute private della nobiltà e delle varie Corone, o più tardi le vecchie fortificazioni militari di ex potenze, o gli spazi dismessi per le esercitazioni dei soldati, a riempirsi di nuova vita e natura. In qualche caso si aprono semplicemente i cancelli, e il popolo degli esclusi inizia a riscoprire l’odore dell’erba e delle piante. In altri l’operazione è un pochino più complessa, come nel caso del Central Park di New York, realizzato pensando ai grandi modelli parigini o londinesi, ma che ha una storia emblematica.

Non nasce infatti dal semplice e “spontaneo” accerchiamento da parte della città di una grande proprietà a spazi aperti, ma da un preciso progetto culturale e urbanistico, come forse si può intuire dalla forma esattamente rettangolare, l’opposto di qualunque idea di natura. Il Central Park nasce dall’idea di natura sapientemente addomesticata di un ex giardiniere, Andrew Jackson Downing, e dall’impegno di un giornalista, William C. Bryant. Che insieme riescono a suscitare un vasto movimento di opinione pubblica favorevole al grande progetto: espropriare il rettangolo compreso fra la 59° e la 110° Strada, e la Quinta e Ottava Avenue, per farne appunto il grande polmone verde di cui Manhattan aveva bisogno. Sono, letteralmente, centinaia di isolati urbani strappati all’edificazione così come prevista dal piano urbanistico del 1810, ovvero quello che traccia la famosa griglia ortogonale delle strade. L’operazione si rende possibile, sia perché si tratta di aree poco pregiate, e in parte già di proprietà di enti pubblici, sia perché il movimento di opinione rende chiara una cosa: quel parco sarà un grande elemento di identità comunitaria; tutti i cittadini lo sentiranno come proprio, e diventerà (come poi puntualmente accaduto) simbolo e orgoglio della città. Uno dei motivi, se non il motivo, per cui a nessuno, anche nella città patria della speculazione edilizia e dei grattacieli a vanvera, ha mai pensato né penserebbe mai di costruirci dentro, al Central Park.

La cultura di cui era portatrice Andrew Jackson Downing, era però più complessa di quella di un semplice progettista di giardini, con la scelta delle essenze e composizione spaziale. Downing, e dopo di lui il suo successore al Central Park, Frederick Law Olmsted, danno un contributo fondamentale all’idea di territorio moderno: il concetto di spazio aperto naturale in una grande regione metropolitana, inteso come mescolanza di elementi del parco cittadino (a partire dall’idea di accesso pubblico), dell’ambiente rurale, e infine della grande riserva naturale. Si affermano, nella nascente pianificazione territoriale dei primi grandi spazi metropolitani, i concetti base di green wedge, il cuneo verde che collega radialmente gli spazi aperti più interni alla città con l’area rurale, e la green belt, concetto di origine biblica, a impedire che la metropoli consumi tutto il territorio che le dà vita. Una versione intermedia di questo tipo di spazi verdi è quella proposta da Olmsted nella cosiddetta Emerald Necklace (Collana di Smeraldi) a Boston, e più ancora nel grandioso piano regolatore proposto da Daniel Burnham per Chicago nel 1909.

In questo caso, si mescolano organicamente nella progettazione della metropoli tutti i tipi di spazio a parco: il polmone verde urbano per il passeggio e la sosta di tradizione europea, una sua versione allargata e molto naturalistica (che anticipa certe soluzioni moderne di verde metropolitano) sulla sponda del lago, con bacini per la navigazione a vela, oasi naturali ecc; infine i collegamenti a cuneo verde verso le aree naturali regionali esterne alla formazione urbana-ferroviaria-portuale. Il verde rappresenta (come nel caso del Mall di Washington, progettato dal medesimo Burnham sulla base dell’idea originale di l’Enfant) la struttura fondamentale della città: a collegare tutti i parchi urbani, e poi il più all’esterno il verde regionale, c’è l’enorme semicerchio della parkway, vera e propria “autostrada nel verde” che unisce all’infrastruttura stradale per le prime automobili (nel 1909!) ampie strisce alberate e piantumate destinate alla sosta e al passeggio.

Ma l’idea più nota, e giustamente tale, di green belt, è quella proposta dal britannico Ebenezer Howard nel suo fortunatissimo libretto di riforma sociale del 1898: To-morrow, a peaceful path to real reform. Qui, nel tentativo di porre rimedio alle penose condizioni abitative della classe operaia urbana inglese, realizzando nella campagna grandi insediamenti integrati cooperativi di abitazioni, industrie, servizi, si individua proprio nella green belt lo strumento fondamentale di soluzione del conflitto fra città e mondo rurale/naturale.

Il territorio più giusto ed equo del domani, secondo Howard, dovrà comporsi di una serie di Città Giardino sparse nel contado, ciascuna autosufficiente anche dal punto di vista alimentare grazie ad una ampia area di verde destinata alla coltivazione, alla contemplazione, alla tutela dell’ambiente e del paesaggio tradizionale. Si recupera così in pieno anche il senso dell’identità locale e dell’attaccamento alla terra, caratteristico dell’origine biblica del concetto di green belt, allontanandosi con l’idea di Città Giardino dalla contrapposizione urbano rurale bollata dai marxisti con lo “idiotismo della vita rustica”.

E non a caso sarà questa idea di massima “riformista”, di moderato ritorno alla natura compatibile con lo sviluppo industriale nonché coi meccanismi di mercato, a imporsi via via in Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre mondiali, fino a sfociare dopo il 1945 nella politica delle nuove città pianificate, e di istituzionalizzazione nazionale della green belt, soprattutto come forma di separazione fra le principali aree metropolitane del paese.

È anche il concetto generale che viene introdotto in Italia pochi anni più tardi, quando la rapidissima e incontrollata crescita urbana del boom economico pone la questione del governo dei grandi spazi regionali, soprattutto nell’area strategica dello sviluppo industriale del “triangolo” Milano-Torino-Genova.

È attorno al capoluogo lombardo, nella sua regione urbana che di lì a poco inizierà a colmarsi dello spillover produttivo e insediativo, che nascono le esperienze originali in questo senso. I cunei verdi che dovrebbero collegare il nucleo denso metropolitano centrale a nord alla fascia prealpina, e a sud alla pianura agricola irrigua, sono la struttura portante della cosiddetta “turbina” del Piano Intercomunale Milanese. Il parco fluviale della valle del Ticino, nato dalla consapevolezza della precarietà del sistema naturale di fronte alla crescita industriale e urbana, della quale vuole anche inconsapevolmente costituire una “frontiera”, si forma attraverso un inedito processo partecipativo di base, che troverà la prima sanzione ufficiale in una affollatissima storica assemblea al Civico Teatro Fraschini di Pavia il 2 marzo 1967. Il processo di riorganizzazione della tutela degli spazi verdi di area vasta, si completa con l’istituzione della prima vera green belt agricola, ovvero il Parco Sud Milano, alcuni anni più tardi.

È in questo sistema complesso di identità, struttura istituzionale, relativa consapevolezza e consuetudine da parte dei cittadini, che irrompe negli anni più recenti l’attacco alle radici fondative, così come si è cercato di descriverle brevemente, da parte di alcune forze – fra le più retrive, è il caso di sottolinearlo – del nostrano centrodestra. Ma, almeno in parte, la vicenda del cosiddetto emendamento “ammazzaparchi”, e dei vari tentativi paralleli di sradicare un’idea di pianificazione e uso del territorio che viene da molto lontano (e non è affatto un’invenzione “comunista” o di epoche di decisionismo politico per qualche motivo tramontate) ci fa tornare alla domanda di partenza: i parchi sono di destra o di sinistra?

E la risposta a questo punto può dirsi, se non bi-partisan come usa oggi, almeno storicamente motivata. Se per conservazione intendiamo il mondo della campagna, emendato grazie all’innovazione tecnologica e sociale da ogni “idiotismo della vita rustica”. Se per progresso intendiamo il mondo della metropoli, inteso nel senso ampio, partecipativo, sostenibile che ha assunto nella progettualità diffusa degli anni più recenti. Se accettiamo queste due prospettive, allora la risposta la troveremo facilmente solo guardandoci attorno, ovvero costruendo qualcosa che si avvicini il più possibile a una identità urbano-rurale.

Tanti dei solenni personaggi citati nei paragrafi precedenti, ci guarderanno (per dirla con Horatio Nelson) “dall’alto dei secoli della storia”.

Deve essere stato il peso di quello sguardo, ad aver spinto anche qualche sindaco leghista sconfessare l’assessore pezzo da novanta del partito, quando ha provato l’ultima volta ad ammazzare i parchi. Si saranno chiesti: vado, l’ammazzo, ma poi dove diavolo torno?

(*) Questo articolo è nato come Traccia di intervento al convegno: Grandi opere, aree protette e tutela del territorio, Albugnano (At), Abbazia di Vezzolano, 14 giugno 2008

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