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Michele Spanò
L'inganno della legge
12 Agosto 2008
Capitalismo oggi
Un saggio di Ugo Mattei e Laura Nader su un punto nodale del neoliberismo. In appendice una nota di Benedetto Vecchi su Wto, Fmi e Bm. Il manifesto, 12 agosto 2008

La legittimazione del progetto neocoloniale è stata resa possibile da Wto, Fmi e Banca Mondiale attraverso l'imposizione dei programmi di aggiustamento strutturale in nome dell'efficienza. In questo passaggio, il diritto è stato il custode di un ordine imperiale.

In attesa della traduzione, la lettura del volume di Ugo Mattei e Laura Nader Plunder. When the Rule of Law is Illegal (Blackwell, London-New York) alimenta la convinzione che, nonostante le sue difficoltà, il pensiero critico è ancora vivo. Ma intanto: di cosa si tratta? Plunder sta per rapina, saccheggio. Quella rapina e quel saccheggio materiale e simbolico praticati dagli Stati Uniti a scapito di buona parte del mondo e che oggi avrebbero trovato una sofisticata copertura giuridico-politica nell'onnivalente concetto di Rule of Law.

Mattei e Nader sono due giuristi che puntano a disarticolare il nesso tra Rule of Law e democrazia per lasciare emergere quello tra Rule of Law e Plunder. Per farlo sovvertono una linea di ricostruzione storica - rintracciabile per esempio nei lavori di Niall Ferguson tradotti anche in italiano - che cerca di contrabbandare la Rule of Law per il positivo lascito dell'esperienza coloniale britannica. I due studiosi non nascondono che la pertinenza di un discorso come quello avanzato da Ferguson possa dispiegarsi a partire dalla costitutiva ambiguità della Rule of Law: da un lato fragile copertura e legittimazione del più arrogante diritto di proprietà, dall'altro discorso universale sui diritti umani.

Tra forza bruta e consenso

Un'aporia concettuale che pone il quesito: si può uscire dalla Rule of Law? Per rispondere a questa domanda, va sottolineato che l'egemonia della Rule of Law è data proprio dalla sapiente combinazione di forza bruta e retorica consensuale. Per questo motivo ogni operazione tesa a decostruire tale dispositivo egemonico esige esercizi di immaginazione politica e creatività strategica. Il diritto, stretto tra un uso oppressivo e un'opportunità di empowerment, si presta infatti a invenzioni controegemoniche, rivelando la natura ambigua e potenzialmente sovversiva del pharmakon.

Uno dei tratti salienti della ricostruzione di Mattei e Nader è l'asserita continuità del ruolo svolto dal diritto tanto in epoca coloniale quanto nel tempo di decolonizzazione in cui siamo ancora immersi. Il libro è punteggiato da segnalazioni di luoghi di ricorrenza e elementi di ripetizione: oggi come allora è sempre di Plunder che si tratta. E certamente le ragioni addotte non mancano, sebbene la svalutazione implicita di molto del lavoro compiuto nel frattempo dagli studi postcoloniali - per altro in certo modo presenti in un libro dedicato alla memoria di Edward Said - potrebbe apparire forse frettoloso.

Se è vero che il Plunder si situa all'incrocio di più discipline messe all'opera nel quadro di un vasto progetto neo-imperialista, fornirne - come è intenzione di Mattei e Nader - un'anatomia critica implica la convocazione di saperi diversi: la storia, l'economia e il diritto. È infatti secondo questa costellazione disciplinare che il volume mette a tema il neoliberalismo, il «motore» dell'attuale Plunder. Le recenti vicende argentine fungono da caso esemplare. È sulla pelle degli argentini infatti che si sono prodotte modificazioni rilevanti dell'assetto istituzionale nato dagli accordi di Bretton Woods: il Wto, il Fmi e la Banca Mondiale si emancipano - in virtù di sapienti alchimie giuridico-politiche a firma statunitense - dal loro ruolo statutariamente neutrale di regolatori dell'economia per vestire i panni di ingerenti destabilizzatori della politica. Secondo il potente vettore retorico dello sviluppo si dà così avvio a una delle più ricche stagioni del Plunder. Quella segnata dai piani di aggiustamento strutturale: dispositivi in cui il collasso di un paese viene artificialmente sollecitato così da poter poi giustificare un salvifico intervento che - inutile dirlo - coincide ancora una volta con il più smaccato Plunder.

Il saccheggio delle élite

Ma se questa è ontologia dell'attualità bisognerà pure, come si conviene, rivolgersi all'archeologia del Plunder. Una storia che nasce con la vicenda coloniale europea e che trova un modo singolare di importazione e ricezione nel diritto americano. Singolare almeno per il fatto che vede un diritto nato sotto il segno di un rifiuto del colonialismo europeo trasformarsi nell'arma più potente di un vasto e rinnovato progetto neo-coloniale. Questa rapida ma efficace genealogia del diritto americano insiste sul processo di neutralizzazione che investe il diritto in virtù di un regime discorsivo capace di farlo transitare dall'ambito politico delle scelte e delle decisioni pubblicamente argomentabili a quello apparentemente neutrale di una ragione strumentale ordinata al calcolo e all'efficacia, i cui esiti sarebbero, proprio per ciò, immuni da dissenso e critica. Una teoria del difetto e della mancanza sostiene l'intero impianto: è perché i paesi in via di sviluppo mancano e difettano di cultura legale che opportunamente loro imposta la Rule of Law. Il paternalismo giuridico trova una soluzione davvero interessante - su cui Laura Nader aveva offerto un sguardo insuperato nella sua opera seminale del 1990 Harmony ideology: justice and control in a Zapotec mountain village - nell'ideologia dell'armonia, una strategia volta a prevenire il possibile uso critico dell'eccesso politico della Rule of Law implicato in ogni operazione di Plunder.

Ma la genealogia si approfondisce anche sul coté discorsivo. Mattei e Nader offrono un profilo attento dei nuovi costruttori di legittimità, ovvero di quelle élites culturali in grado - in virtù dell'efficacia sociale del loro presunto sapere - di legittimare, consegnando patenti ora di efficacia ora di moralità, l'imperialismo mascherato dei volenterosi propagatori della Rule of Law. Ugo Mattei aveva già lavorato a una genealogia critica di Law and Economics, qui riproposta e fatta reagire con la cornice teorica del Plunder. Si squadernano così le imposture che hanno tentato di naturalizzare l'idea di proprietà intellettuale, di fatto ignorata o attivamente contestata in scenari culturali che John Locke e i suoi vivaci epigoni hanno deciso di espellere da ogni quadro teorico. Non solo, viene anche descritto lo sconcertante passaggio di testimone che, dai missionari agli antropologi, consegna oggi nelle mani dei giuristi il potere di legittimare una politica di conquista e di prelievo in punta di diritto. Davvero straordinari, in questo senso, sono i riferimenti alle pratiche di governo cui sono stati sottoposti i nativi americani in forza di articolati discorsi antropologici.

Ipocrite sovranità

La prestazione esemplare di queste innovazioni sul piano della legittimazione a fronte della continuità del Plunder è offerta dalla guerra in Iraq e dal ruolo giocato in essa dal petrolio. Le nuove giustificazioni per la guerra sono costruite in virtù di una potenziale universalità della Rule of Law che, alla prova della comparazione, finisce col risultare assolutamente fittizia, provincializzando così le retoriche sul Sonderweg e restituendo il carattere relativo ed eccezionale a un principio che si vorrebbe trasformato in una universale «segnatura» di umanità. Piuttosto, è la costruzione artificiale di vuoti istituzionali a spianare la strada al Plunder, tanto più ipocrita laddove coperta da una politica del doppio standard secondo cui le ricette a base di privatizzazioni e liberalizzazioni sono ammannite soltanto ai paesi bisognosi di aggiustamenti. I paesi egemoni si prendono il lusso di difendersi dalla stessa situazione che creano, sicché la povertà diviene a un tempo l'effetto e la giustificazione del Plunder.

Mattei e Nader tentano quindi una formalizzazione, in termini di teoria giuridica, della genealogia precedentemente allestita. L'affresco che disegnano è il passaggio dalla Rule of Law alla Imperial Law. Gli autori offrono così una lettura alternativa a quanto la sociologia giuridica ha deciso di chiamare «globalizzazione giuridica» e lo fanno studiando attitudini e scelte dei soggetti, trasformazioni e usi degli istituti, per concluderne l'equivalenza tra diritto imperiale e diritto americano. I passaggi di questa conquista dell'egemonia sono molteplici e tutti studiati con attenzione. Ne deriva un catalogo capace di compendiare le caratteristiche del diritto americano che, globalizzandosi, costituiscono la koiné del diritto imperiale: la separazione tra i domini del diritto, della politica e della religione; l'alleanza tra diritto ed economia; il carattere decentrato del sistema giurisdizionale; la natura del processo; la riduzione della democrazia alla liturgia elettorale.

Questi fenomeni non sono stati senza effetti sul diritto internazionale, che ha subito nello stesso tempo una centralizzazione istituzionale e un generale indebolimento sul piano dell'efficacia e dell'autorevolezza. L'egemonia del diritto americano si è infatti nutrita di paradossi: procedure a tutela dei diritti attirano un volume vieppiù maggiore di cause verso le corti statunitensi, mentre una regolazione imperiale del diritto internazionale ne diffonde l'egemonia sul globo. Inoltre, in virtù di una profonda asimmetria tra regolazione amministrativa e pratiche giudiziali, l'egemonia statunitense è andata ulteriormente affermandosi, trasformando la sua ambigua flessibilità in un punto di forza e in un motivo di espansione. Infine, il tentativo di imporre l'equazione tra Rule of Law e Plunder sullo stesso territorio americano. Anche di questo fenomeno gli esempi non mancano e Mattei e Nader ne danno conto: il caso Enron; le elezioni - a tutti gli effetti vinte in forza di un'imposizione giudiziaria - che hanno assegnato la prima presidenza a G. W. Bush; la guerra al terrore, che, nella eloquente definizione di Nat Hentoff, è diventata la War on the Bill of Rights; la retorica patriottarda.

Ebbene, se tutto sembra congiurare verso una dichiarazione di avvenuto decesso della Rule of Law, che cosa può ancora, se può, il diritto? Le conclusioni di Mattei e Nader, nonostante il tentativo di catalogare qualche virtuoso esempio di resistenza dei diritti tradizionali al Plunder generalizzato, sembrano inclinare verso un profondo pessimismo: tra giustizia e Plunder, sembra quest'ultimo ad aver trionfato. E tuttavia. Le indicazioni su dove cercare per rinvenire alternative possibili non mancano. Un diritto consuetudinario dei poveri fu, in altre epoche, rivendicato e opposto al sopruso e all'ingiustizia. Certo, sarà necessario «rettificare i nomi». Certo, bisognerà aggiornare gli strumenti concettuali e le griglie interpretative. Certo, bisognerà innovare sul piano delle pratiche e della loro necessaria articolazione. Certo, bisognerà riprendere e radicalizzare il filo più robusto tessuto da Mattei e Nader: quella genealogia e quella decostruzione del diritto di proprietà già bollato dai giacobini come il «terribile diritto». Ma è una battaglia ancora aperta e merita di essere combattuta.



Movimenti nelle nuove mappe del neoliberismo

di Benedetto Vecchi

Sono passati pochi anni, eppure sembra un secolo da quando le piazze del mondo erano riempite dai movimenti sociali per chiedere la soppressione del Wto, del Fmi e della Banca mondiale. Eppure si può dire che, anche se quei movimenti oggi conoscono una crisi, quella partita l'hanno in qualche misura vinta. Non che la triade del pensiero unico sia scomparsa, ma è indubbio che i think-tank del neoliberismo sono da cercare altrove.

Il Wto è paralizzato a causa dei conflitti interni. Una coalizione di stati, tra cui Cina, India e Brasile, chiede di poter contare di più, mentre le scintille tra Unione Europea e Stati Uniti incendiano sempre più le sue sessioni. I programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale passano attraverso estenuanti negoziati con i paesi che li devono poi applicare. Le «pagelle» del Fmi sono ormai agitate come volantini di propaganda per legittimare politiche neoliberiste definite tuttavia in palazzi diversi da quello del Fondo Monetario. La Banca mondiale, infine, deve vedersela con opposizioni tanto diffuse, quanto radicali ai suoi progetti di sviluppo.

Più semplicemente, il neoliberismo è in fibrillazione, mentre la recessione è diventata la realtà quotidiana per uomini e donne tanto nel Nord che nel Sud del pianeta. In questa crisi nulla rimane però uguale al passato e il capitale può sacrificare sull'altare della sua egemonia istituzioni importanti come il Wto, il Fmi e la Banca mondiale. In nome della continuità, ma innovando le procedure, le istituzioni che debbono garantirla. L'esito di tale innovazione è ancora incerto, ma alcune tendenze sono però chiare. Maggior rilievo hanno gli organismi sovranazionali su base regionale e le relazioni informali tra stati. Esempio di ciò è il comportamento della Cina in Asia e i rapporti di partnership stabiliti a Pechino con alcuni paesi diventati nodi importanti nell'economia mondiale perché produttori di petrolio o gas naturale (la Russia, l'Iran, il Venezuela).

Giovanni Arrighi nell'importante volume Adam Smith a Pechino ritiene che questa crisi, che vede il ritorno sulla scena mondiale della Cina, può diventare una chance per il Sud nel mondo per mandare in frantumi l'egemonia dei «paesi ricchi», senza che questo significhi un ritorno al nazionalismo economico. È in atto cioè un cambiamento nella geometria del neoliberismo, con alcuni nodi minori divenuti nel frattempo veri e propri «cluster», cioè snodi del capitalismo globale. Dunque un mutamento lontano anni luce da quella proposta di attivisti e studiosi come Walden Bello, che vedeva l'irruzione dei movimenti sociali nella stanza dei bottoni come l'unica possibilità di raddrizzare il legno storto dello sviluppo economico.

La tendenziale irrilevanza del Wto, del Fmi e della Banca mondiale costringe dunque a registrare le nuove mappe del neoliberismo, proprio per il perdurare della sua vocazione «globale». Mappe che possono essere definite a partire dagli atelier diffusi della produzione e delle contraddizioni di quella sovranità imperiale che si è affermata nel quindicennio passato. Mappe tuttavia «partigiane». Perché la crisi non è solo una chance per il capitale, ma anche per l'agire politico e sociale di quei movimenti che hanno accelerato la messa a nudo del neoliberismo solo pochi anni fa.

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