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Casabella. Le molte vite di una rivista di architettura
25 Giugno 2008
Recensioni e segnalazioni
Un colloquio di Francesco Erbani con Francesco Dal Co e una nota di Vittorio Gregotti. La Repubblica, 25 giugno 2008

La rivista compie ottant’anni

di Francesco Erbani

Quando nacque, ottant’anni fa, la rivista si chiamava La casa bella. Si rivolgeva a una borghesia in ascesa, un po’ impacciata, incapace spesso di addobbare la tavola o di sistemare le poltrone in salotto per la visita dei parenti. Proponeva soluzioni per l’abitare decoroso, educava al gusto e di gusti ne suggeriva molti. Poi, all’inizio del 1933 la testata fu affidata a Giuseppe Pagano e divenne Casabella, un neologismo di matrice modernista che spiazzava le abituali lettrici. Conservò il precetto di educare e informare, raccontando che cosa si realizzava in Europa. Ma invece di vellicare le ambizioni per non sfigurare in società, si rivolse ai primi laureati usciti dalle facoltà di Architettura (fino al 1927 il diploma lo attribuivano le facoltà di Ingegneria), un ceto professionale cui il regime fascista guardava con cupidigia, impegnato in grandi programmi di opere pubbliche e lanciato a sventrare imperialmente i centri storici italiani.

L’esito non fu esattamente quello che il fascismo auspicava. Ma l’obiettivo di educare e informare è rimasto il tratto costitutivo di una delle più celebri riviste di architettura, sostiene l’attuale direttore di Casabella, Francesco Dal Co, professore di storia dell’architettura allo Iuav (Istituto universitario architettura di Venezia), che ne regge il timone dal 1996. In ottant’anni Casabella ha narrato progetti e trasformazioni urbane, segnalando, documentando ciò che si agitava nel mondo dell’architettura, e non solo in quello dell’architettura e fornendo comunque l’occasione, a chi voglia oggi sfogliarne la collezione, di sondare un certo modo d’essere dell’Italia e degli italiani. Che sapessero o meno d’architettura.

La drammatica vicenda di Pagano è all’origine di questa storia. «Pagano si propone di tenere aggiornata quella piccola schiera di giovani professionisti appena laureati e di infondere loro un criterio etico nell’esercizio del mestiere», spiega Dal Co. Pagano è un fascista inflessibile. È nato a Istria nel 1896, il suo vero cognome è Pogatschnig, che cambia nel 1915 quando si arruola volontario nella prima guerra mondiale. Con i legionari di D’Annunzio occupa Fiume nel ‘19 e fonda il Fascio di Parenzo. Ma del fascismo interpreta l’anima sociale e rivoluzionaria. Marcello Piacentini dalla sua rivista Architettura propugna invece quella scenografica e monumentale. Casabella illustra i vantaggi delle scelte compiute nel Nord Europa, incalza il regime a sostenere l’intervento pubblico nell’edilizia, prende a modello la casa popolare della Repubblica di Weimar, non approva le demolizioni nei centri storici, critica gli sprechi di danaro per costruire "boriose montagne di marmo", mentre molta gente è costretta a vivere in luoghi malsani. Avversa gli speculatori che pascolano all’ombra dei gerarchi.

Fino al 1941 Pagano pensa che le sue idee non siano inconciliabili con il fascismo. Ma già nel ‘42 si dimette dalla Scuola di mistica fascista. E un anno dopo, nonostante l’amicizia con Giuseppe Bottai, è costretto a chiudere Casabella. Dopo il 25 luglio Pagano è già dall’altra parte. Si avvicina alla Resistenza, svolge attività clandestina, viene arrestato una prima volta, poi scappa ed è di nuovo catturato dalla famigerata banda Koch. Lo torturano e lo spediscono a Mauthausen, dove muore il 22 aprile del ‘45, pochi giorni prima che arrivino i sovietici.

«Pagano non fu un grande architetto», dice Dal Co. «Il progetto nel quale racchiude le sue convinzioni di aurea mediocritas è l’edificio della Bocconi a Milano. È un interprete moderato del movimento moderno e infatti terrà sempre fuori da Casabella il radicalismo propugnato da Giuseppe Terragni. Nel ‘36 cura una celebre rassegna alla Triennale di Milano sull’architettura rurale, in cui sostiene che il Mediterraneo è la culla del moderno di sempre, il moderno che tutta l’architettura deve eleggere come proprio modello».

La linea di continuità della rivista viene celebrata nel 1946, quando Casabella, che riprende a uscire a ritmi alterni, dedica un numero monografico a Pagano, curato da Franco Albini e Giancarlo Palanti, due dei suoi più stretti collaboratori. In esso è pubblicata la lettera-testamento che Pagano scrive da Mauthausen: «Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A voi continuare bene e meglio». Fra gli interventi anche quello di Ernesto Nathan Rogers, intitolato Catarsi: sarà proprio Rogers a prendere in mano le redini della rivista nel 1954.

Anche la vita di Rogers è segnata dalla tragedia novecentesca. Ebreo triestino, nel ‘39 si rifugia in Svizzera (dove tiene dei corsi ai giovani internati, fra i quali Antonio Cederna), mentre uno dei colleghi del suo celebre studio BBPR, Gian Luigi Banfi (gli altri sono Lodovico di Belgioioso ed Enrico Peressutti) muore ucciso dai nazisti in una camera a gas del lager di Gusen, anche lui pochi giorni prima della liberazione.

Rogers si inscrive nella linea di Pagano. Ma mutato del tutto è il contesto. Sono gli anni dell’impetuosa espansione delle città, della speculazione e dei grandi esperimenti di edilizia popolare (il piano Ina-Casa inizia nel 1949). «Rogers intrattiene legami con l’ambiente di Adriano Olivetti e allarga i riferimenti internazionali di Casabella», ricorda Dal Co. «Nei suoi editoriali insiste sulla dimensione etica e sul riscontro sociale del mestiere d’architetto. In questi anni Casabella compie una scelta di campo, sostiene le ragioni della pianificazione urbana contro chi lascia che la crescita delle città sia affidata alla rendita fondiaria. Questa posizione è limpidamente espressa, per esempio, nelle discussioni sul Piano regolatore di Roma, nei primi anni Sessanta, o sul centro direzionale di Torino».

Fra i nomi che arricchiscono Casabella negli anni di Rogers (che conserva la direzione fino al gennaio del 1965), Dal Co ricorda quelli di Giulio Carlo Argan, di Pierluigi Nervi e del filosofo Antonio Banfi. Contemporaneamente approdano alla rivista i più giovani Aldo Rossi, Vittorio Gregotti e Giancarlo De Carlo. Nel ‘70 Casabella tenta una svolta che, segnala Dal Co, rompe con la tradizione di rassegna d’architettura che rifiuta di farsi sostenitrice di tendenze. Alessandro Mendini, il nuovo direttore, «vuole che Casabella abbia un suo esplicito punto di vista, diventi una rivista d’avanguardia al pari di altre che si muovono sulla scena della pubblicistica e della cultura italiana dopo il Sessantotto». Ma i risultati stentano a vedersi. «Le vendite vanno male e si fa fatica a comprendere come Casabella si appiattisca troppo sul contingente». Toccherà a Gregotti, dopo la direzione molto centrata sul dialogo fra discipline – gli storici, i filosofi, i sociologi – di Tomás Maldonado, «riportare Casabella nella linea di Rogers». L’architetto milanese assume la guida della rivista nel marzo del 1982. «L’architettura torna a essere centrale, come pure l’informazione e l’aggiornamento. La novità di Gregotti consiste nell’imporre giudizi di valore di cui fa le spese uno dei protagonisti della scena di quegli anni, Aldo Rossi».

La Casabella che si è affacciata sul nuovo secolo vive in un contesto radicalmente cambiato. «Proviamo a distinguere la storia dell’architettura dalla pratica, che utilizzano strumenti diversi», racconta Dal Co, «e teniamo rigidamente separata l’informazione dalla pubblicità: la commistione nel nostro campo può avere effetti tanto soffusi quanto perversi». Ma il vero problema è la lingua che si usa per raccontare l’architettura, in un sistema in cui la comunicazione è dominata dalle parole ad effetto, dalla ricerca di stravaganza. «Di per sé l’architettura è specchio del mondo, tanto più l’informazione sull’architettura rischia di essere schiava dei luoghi comuni, dei nomi che ritornano. Il nostro sforzo è quello di non ridurla a moda o, peggio, a tatuaggio, come diceva Adolf Loos. In generale si presta troppa attenzione a progetti quanto meno contraddittori, solo perché opera di un ristretto numero di grandi firme, ma nel frattempo le città continuano a crescere in modi abnormi. A Milano, per fare un esempio, tutta l’attenzione è concentrata sul progetto dei grattacieli di City Life. Ed è giusto che si discuta. Ma non c’è la stessa preoccupazione per quel che è già avvenuto nell’area dell’ex-Maserati, che a mio avviso è un obbrobrio. Spesso sfugge la complessità dei problemi che c’è dietro l’architettura».

Quante discussioni sul moderno

di Vittorio Gregotti

Quando Ernesto Nathan Rogers venne chiamato a riaprire Casabella, insieme a Giancarlo De Carlo e a Marco Zanuso, fui scelto a far parte della redazione. Il primo numero con un testo di apertura di Walter Gropius venne pubblicato nel dicembre 1953. Nel 1956, quando De Carlo e Zanuso lasciarono la redazione, fui nominato caporedattore e rimasi sino al 1963. Furono anni di straordinarie discussioni, con il contributo di Enzo Paci, sui temi del progetto di architettura in relazione al pensiero fenomenologico, al marxismo ed al pensiero negativo. Gli incontri con tutti i protagonisti europei del movimento moderno erano frequentissimi.

Nel 1982 fui chiamato a Casabella come direttore. Il programma che si sviluppa lungo quattordici anni ha un obiettivo principale. Offrire un punto di vista preciso, quello habermasiano del progetto moderno, aperto alla discussione, contrario all’ideologia postmoderna che anche oggi perseguita l’architettura con nuove estetiche, aperto alle nuove forme di realismo critico e ai problemi del disegno urbano e territoriale. Si cercava di scegliere da un preciso punto di vista cosa pubblicare ed anche perché e di riaprire il dibattito intorno ai fondamenti della disciplina. In questo ci sono stati indispensabili i contributi di Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, François Lyotard, Joseph Rykwert, Kenneth Frampton. Ci sorreggeva poi la solidarietà di architetti come Ungers, Stirling, Siza, Bohigas, Chemetov, Ciriani, Valle, Snozzi, ma anche di architetti che sostenevano punti di vista diversi come Robert Venturi o Aldo Rossi (pubblicato nel 1984). La collaborazione con i redattori, da Croset a Bruno Pedretti, da Brandolini a Giacomo Polin, è stata indispensabile ma soprattutto il contributo attivo e costante di Bernardo Secchi e Manfredo Tafuri hanno costruito gran parte della vitalità della rivista in quegli anni. All fine del 1995 la rivista viene forzosamente acquistata dal gruppo Berlusconi, io vengo licenziato e Francesco Dal Co è nominato direttore.

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