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Ugo Mattei
La lunga marcia della talpa neoliberista
14 Maggio 2008
Capitalismo oggi
"Riformismo", una magistrale riflessione su una parola chiave della mistificazione ideologica del neoliberismo. Il manifesto, 13 maggio 2008

Difficile trovare un termine del gergo politico Italiano contemporaneo, più diffusamente utilizzato di «riformismo». Difficile trovare pure un'ideologia politica maggiormente responsabile della recente catastrofe elettorale delle forze democratiche di questo paese, simboleggiata dallo striscione con scritto «Veltroni santo subito» esposto dai fascisti nuovi padroni del Campidoglio.

Che sia proprio dal recente utilizzo a sinistra del termine «riformismo» che si debba partire nella necessaria analisi della sconfitta di tutto il centrosinistra è fuori discussione. La necessità di «fare le riforme» è stata invocata in campagna elettorale sia dai leaders politici di destra che di sinistra, tanto da costituire il minimo comune multiplo della politica italiana contemporanea: la riforma elettorale, la riforma della scuola, la riforma della sanità, la riforma dell'università, la riforma delle professioni, la riforma del mercato del lavoro.

Che cosa si nasconde dietro alla nuova diffusa ideologia? È abbastanza ovvio che il termine riformista trasmette un tranquillo messaggio di moderazione, che tuttavia nasconde una feroce determinazione securitaria. Il riformista, a differenza del rivoluzionario, non distrugge, non sconvolge, non rivoluziona lo status quo. Egli è sempre dalla parte dell'autorità costituita che garantisce sicurezza alla sua proprietà. Egli è insoddisfatto di alcuni aspetti del sistema e, sposandone la logica di fondo, intende migliorarlo, ripensarlo, favorirne lo sviluppo, trasformarlo in modo magari radicale ma armonico, progressivo, in ogni caso compatibile con fondamenti ed assetti proprietari consolidati.

Il termine mette a fuoco il processo trasformativo piuttosto che il contenuto della trasformazione, ed implica la necessità di ridisegnare alcuni aspetti del sistema istituzionale per ottenere crescita e sviluppo. È questo il messaggio bipartisan dichiarato tanto dalla maggioranza quanto dall'opposizione nel loro competere secondo le regole elettorali di una «moderna democrazia liberale occidentale». Questo tranquillo messaggio subliminale pone il termine «riformismo» in una luce di generale favore, bollando ad un tempo di estremismo e di velleitarismo qualunque voce alternativa.

Da Bentham a Carlo Rosselli

Nell'era del riformismo bipartisan, l'antica opposizione fra conservatore e riformista affonda perché il primo è inevitabilmente condannato di fronte all'«inevitabile» e «naturale» accelerazione storica e tecnologica dell'era postmoderna. D'altra parte, per ragioni in larga misura analoghe ma speculari, affonda pure la contrapposizione fra rivoluzionario e riformista.

Infatti, se il termine reformist fu coniato da Jeremy Bentham nel 1811, esso venne posto al centro della riflessione politica del movimento operaio a metà Ottocento da parte di quell'Eduard Bernstein che, per primo, mise in discussione l'imminenza della rivoluzione proletaria sostenendo la necessità di alleanze strategiche con i partiti borghesi. Il riformismo socialista, teorizzato in Francia da Alexandre Millerand in un famoso libro dal titolo omonimo, conquistò alcuni dei più prestigiosi dirigenti del Partito Socialista Italiano all'inizio del secolo breve, tra i quali bisogna ricordare Turati, Treves, Bissolati, Bonomi, Carlo Rosselli, Matteotti e Gaetano Salvemini, in gran parte espulsi al congresso di Livorno del 1912, proprio in quanto tacciati di revisionismo, un termine che nel frattempo aveva contaminato il riformismo di connotazioni negative.

In ogni caso la corrente riformista, che ebbe notevole peso all' interno della Seconda Internazionale (1889-1914) condivideva sicuramente il progetto di uguaglianza e giustizia sociale del movimento socialista ma si distingueva per il metodo legalista e gradualista piuttosto che rivoluzionario con cui l'obiettivo finale doveva essere raggiunto. In definitiva dunque l'idea di riformismo era sottesa ad un grande progetto internazionalista, ridistributivo e di emancipazione delle classi sociali più disagiate, un'essenza completamente perduta nella attuale concezione bipartisan.

Il terremoto reaganiano

Nella sua luce storica, il termine riformista, calato nella dimensione di politica economica, si manifesta nelle grandi trasformazioni del modello liberale propugnata dagli assertori del welfare state, in particolare quella visione keynesiana che venne travolta, a seguito della crisi petrolifera di fine anni Settanta dalla «rivoluzione» reaganiana e tatcheriana, che doveva contribuire significativamente di li a pochi anni, al crollo dell'esperienza del socialismo realizzato. È proprio nel quadro delle trasformazioni del contesto politico-culturale globale che vide i natali l'attuale ideologia del riformismo, una teorica non più sorretta da un disegno primario di giustizia sociale ma al contrario volta principalmente alla ricostruzione di un sistema capitalistico il più possibile efficiente.

In quest'ambito, l'ordinamento giuridico, lungi dal proporsi come strumento di limitazione degli impulsi acquisitivi individuali, si propone di favorirne il libero dispiegarsi, sull'assunto che essi, incanalati soltanto da un processo privatistico a mano invisibile, avrebbero finito per favorire, seppure indirettamente, anche i soggetti più deboli tramite una «ricaduta verso il basso» (il cosiddetto trickle down effect) dei benefici di una sostenuta crescita economica. Il progetto reaganiano e tatcheriano non sposò alcun aspetto del modello contro cui si rivoltava ma, visto in prospettiva globale, effettivamente ne travolse, con violenza «rivoluzionaria», ogni contenuto politico e di civiltà. Sono infatti proprio i presupposti della costituzione economica di un modello misto (pubblico e privato) che il riformismo del welfare state aveva prodotto e costituzionalizzato a partire dall'esperienza della Repubblica di Weimar e poi, in Italia, nella Costituzione italiana del 1948 col grande compromesso fra Togliatti, Dossetti ed Einaudi, a crollare insieme al Muro di Berlino, riportando indietro di quasi due secoli il significato di riformismo.

Dal punto di vista contenutistico, nel nuovo ordine globale in cui la crescita economica viene considerate prioritaria indipendentemente da ogni preoccupazione distributiva, il riformista si propone solo di mitigare gli aspetti più estremi e disumani del modello dominante, in un'accezione del termine non diversa da quella che ci può far vedere come riformisti sovrani «illuminati» quali Maria Teresa d' Austria, Leopoldo di Toscana, Federico II di Prussia, Carlo III di Napoli o Caterina II di Russia. Una visione profondamente incardinata nella disuguaglianza sostanziale dei diritti di proprietà e che anzi fa di un modello autoritario, classista, etnocentrico, ma tuttavia preoccupato del proprio «volto umano» (emblematico è a questo proposito il piano per l'Africa di Toni Blair o la Fondazione di Bill e Melinda Gates) la sua cifra caratterizzante.

Questo riformismo della «terza via», che con i lavori di Anthony Giddens cerca di espugnare il fronte intellettuale e politico che almeno in Europa separava la Destra e la Sinistra, trova in Tony Blair e Bill Clinton, i due eroi eponimi capaci dei naturalizzare e rendere bipartisan le ricette del neoliberismo confezionate nel decennio precedente dai loro predecessori nell'interesse degli attori forti dei mercati finanziari globali (Istituzioni Finanziarie Internazionali, Banche, Compagnie di Assicurazione, Edge Funds). Due eroi che non restano isolati in Occidente. In Germania Schroeder, con l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale, emargina Oskar Lafontaine. In Italia sono Massimo D'Alema (primo ministro post-comunista ansioso di partecipare alle guerre globali) e poi Romano Prodi a sdoganare il riformismo neoliberale come pensiero «di sinistra» aprendo la via alla grande convergenza bipartisan.

La creazione di un ideologia riformista, come strumento che aliena la distribuzione a favore della produzione e dell'accumulo concentrato di ricchezza, sposa questo modello di sviluppo interamente «mercatista» (fondato sull' oligopolio reale accompagnato dalla retorica della competizione) che a casa nostra si è continuato a celebrare nel Partito Democratico, proprio mentre la destra sociale neocorporativa lo scaricava giusto in tempo attraverso l'impressionante piroetta di Giulio Tremonti, già campione di privatizzazioni e finanza creativa (La paura e la speranza, Mondadori 2008 è stato un bestseller in campagna elettorale vendendo antimercatismo, sicuritarismo e xenofobia).

Anche a sinistra, non soltanto le periodiche drammatiche convulsioni nei contesti di produzione (crisi dei mercati asiatici del '97, crisi subprime e recessione attuale) ma anche, soprattutto, il progressivo allargamento del baratro fra ricchi e poveri che strutturalmente condanna l'Africa e gli altri paesi periferici subalterni alla sete e alla fame dovrebbero suggerire un ripensamento onesto dei termini della questione «riformista». L'economista austriaco Joseph Shumpeter una volta scrisse che così come sono i freni che consentono ad un veicolo di poter avanzare spedito, senza incidenti, altrettanto avviene per un modello economico capitalistico. Quest'idea fu ripresa da Michel Albert nel suo famoso saggio sui due capitalismi, ed è stata sviluppata nella letteratura giuridica ed economica più avveduta (ancorchè minoritaria) ma ha ottenuto scarsa eco nella discussione sulla politica economica italiana. Al contrario, il riformismo a casa nostra si misura con il metro delle «lenzuolate» di bersaniana memoria, e fa proprio della crociata contro i «lacci e lacciuoli» (espressione che risale ad un maestro della grande destra come Guido Carli) la sua bandiera. Le riforme volte alla liberalizzazione denigrano così sistematicamente il controllo giuridico pubblico (i lacciuoli appunto) nel rivolgersi contro taxisti, farmacisti e notai nell'ambito dei lavoratori autonomi (particolarmente attivi qui i professori Giavazzi e Alesina) e in quello dei dipendenti prendono di mira, in nome della flessiblità le garanzie ottenute dai lavoratori attraverso le lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta (il nome che va citato qui è quello di Pietro Ichino).

Finanzieri d'assalto

Questo riformismo neoliberale presenta evidente l'imprimatur economico, politico e culturale del centro attuale del capitalismo internazionale, quegli Stati Uniti d'America che, seppure in profonda crisi, hanno colonizzato l' immaginario postmoderno dell'Europa e delle altre paesi periferici e semiperiferici, secondo la geoeconomia tracciata da Immanuel Wallerstein. Il cosiddetto capitalismo statunitense, subito dopo aver determinato la fine del socialismo reale in Unione Sovietica, ha sferrato un attacco durissimo contro il capitalismo sociale europeo, denigrandone come «lacci e lacciuoli» che ne impediscono il decollo nell'empireo alato dei mercati finanziari (ma che forse ne impediscono pure il precipitare nel vortice dei fondi sub-prime), quelli che invece sono i suoi freni istituzionali.

Sono queste le questioni che si nascondono dietro la desiderabile e rassicurante bandiera del riformismo postmoderno. Una religione della crescita e dello sviluppo sostenuta anche culturalmente dagli oligopolii globali. Una radicale sovversione di quell'ideale riformista che, frutto di un pensiero emancipatorio socialista ed internazionalista, non poteva che porre l'eguaglianza, la giustizia sociale e la ridistribuzione delle ricchezze per mezzo del diritto al primo posto fra le preoccupazioni di una politica che voglia dirsi civile e che sappia farsi carico delle esigenze non più procrastinabili di tutto il pianeta. L'attuale riformismo eurocentrico quando non localista altro non è che un'ideologia di resistenza dell'Occidente opulento che disperatamente difende (con toni più o meno insopportabili) il frutto della sua pluricentenaria predazione. Che sia una politica suicida lo ha sperimentato per ora il Partito Democratico. La demografia ed i nostri fratelli affamati ci mostreranno presto che se non si inverte la rotta c'è soltanto la catastrofe annunciata.

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