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Fabrizio Bottini
Prospettive urbane storiche
14 Aprile 2008
Recensioni e segnalazioni
Un commento alla recensione di De Lucia al libro di Nicoloso sul’architettura del fascismo

Intervengo brevemente a proposito della nota di Vezio De Lucia ripresa da Liberazione, il cui titolo (non so se scelto o meno da Vezio) anche indipendentemente dai contenuti effettivi dell’articolo ne orientava l’intera prospettiva su alcuni orientamenti attuali: di cultura generale, architettonica, urbana, politica.

L’autore del volume recensito, Paolo Nicoloso, ormai da parecchi anni studia sia con notevole capacità critica che smisurato supporto documentale (cosa non scontata) il periodo tra le due guerre mondiali in Italia, specie riguardo al ruolo degli architetti-urbanisti. Di Nicoloso, forse, per inquadrare meglio questo necessariamente parziale approccio “a tappeto” alla massiccia produzione architettonica in tutto il paese nel quadro di un tentativo di modernizzazione nazionale, e naturalmente di “marchiatura” pressoché indelebile impressa sul territorio, si dovrebbe leggere in parallelo anche Gli architetti di Mussolini (F. Angeli, 1999). Qui, attraverso un’ampia rassegna di materiali d’archivio e non, viene ricostruito il ruolo particolarissimo della professione di architetto-urbanista sia nell’edificazione del sistema formativo universitario italiano delle discipline territoriali, sia nei processi di costruzione del consenso.

Per non farla troppo lunga, e rinviando comunque a quello studio, vorrei osservare che la prospettiva attorno alla quale si orienta con qualche ovvio timore (anche forse suo malgrado) la recensione di Vezio non è comunque diffusa e generalizzata, almeno dagli anni ’70 in poi, ovvero da quando si è cominciato da parte di vari approcci, storico-specialistici e non, a scindere secondo vari apporti, personalità, contesti, una mainstream architettonico-urbanistica che le letture dell’immediato dopoguerra sembravano aver fissato attorno a capisaldi assai poco saldi.

La stessa legge generale urbanistica del 1942 (che Nicoloso non tratta appunto perché dal suo punto di vista di studioso ritiene superato l’approccio mainstream) ha una genesi assai diversa e più articolata, rispetto a quella che per decenni è stata sostanzialmente proposta dal gran parte della pubblicistica, ovvero di una sorta di “ do ut des” del mondo degli architetti-urbanisti, accelerato e consentito dal precipitare degli eventi bellici, e per motivi convergenti poi sostanzialmente accantonata nel merito.

Per il resto, è assolutamente condivisibile il giudizio secondo il quale in qualche modo le architetture tanto massicciamente e strategicamente realizzate nel periodo tra le due guerre tendano a conferire un indelebile marchio agli spazi che occupano e organizzano. Ma che quelle forme debbano necessariamente rinviare a valori e simboli dotati di inestricabile rapporto col fascismo e i fascismi, mi sia consentito di dubitare.

Certo è inevitabile che qualche post-qualcosa ringalluzzito dal decongelamento berlusconiano abbia voglia di lucidare vecchi fasti. Ma per fortuna è solo un piccolo occhio di ex padrone che cerca di ingrassare cavalli di proprietà altrui. Che poi alcuni settori culturali non riescano ancora a digerire e far proprie alcune forme e istinti percettivi, credo sia e resti un problema essenzialmente personale, non certo sociale e di cultura diffusa.

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