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Paolo Cacciari
Serenità e cooperazione nella decrescita felice del Pil
20 Marzo 2008
Capitalismo oggi
"Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta". Così Robert Kennedy 40 anni fa. Nel commento su il manifesto, 20 marzo 2008 (m.p.g.)

Presso il Centro interuniversitario di Bari Uni.Versus, per iniziativa del consorzio di imprese Apulia e del Movimento per la decrescita felice, è stato ricordato con un convegno il quarantennale di un famoso discorso di Robert Kennedy (il manifesto l'ha ripubblicato di recente) sulla fallacia del Pil come indicatore di benessere. Nel pieno '68, pochi mesi prima di essere assassinato, il candidato presidente fece un discorso abbagliante: «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Down-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (...) Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». A risentirlo oggi (sul sito www.depiliamoci.it) c'è da scoraggiarsi due volte: per la regressione culturale, che ha subito il riformismo democratico a tutte le latitudini; per la distanza che ancora ci separa da quei principi - il primato della politica sull'economia - e da quei valori: benessere sociale, pubblico, collettivo. In questi anni è prevalsa la ragione economica (la crescita degli indici borsistici, dei dividendi azionari ecc.) su ogni altra considerazione d'ordine sociale, ambientale, civile e umana. I risultati sono evidenti: inequità insopportabili, disastri naturali, disgregazione delle relazioni sociali, aggressività, stress, infelicità. La crisi finanziaria internazionale è solo l'ultima prova della fisiologia del funzionamento della «megamacchina termoindustriale»: crisi e guerre, shock e violenza sono gli elementi ordinatori permanenti del nostro mondo.

Modificare alla radice gli apparati tecnici e statali di questa società è il solo compito che si può dare una sinistra. «Noi non proponiamo correttivi, ma l'alternativa a questo modello economico e sociale» - ha affermato Fausto Bertinotti. In questo siamo d'accordo. Un modo per incominciare a farlo seriamente sarebbe quello di dismettere categorie di pensiero irriformabili. A cominciare dal Pil.

Gli economisti vorrebbero farci credere che esso è solo un indicatore neutro della quantità di denaro in circolazione. Non è affare loro (degli economisti) se poi questa massa di soldi viene spesa per fabbricare armi o coltivare fiori. L'economia - dicono - è indifferente e non responsabile rispetto alle «preferenze» che la società attribuisce sull'utilizzo della sua ricchezza. Peccato che le cose non stiano affatto così:

1. perché i «consumatori» non sono liberi di scegliere cosa fare dei loro soldi, condizionati dalle necessità e manipolati nei loro desideri e nei loro sogni (potenza delle tv!).

2. Perché non appena si inserisce nel calcolo del Pil una qualsiasi materia, una qualsiasi attività, esse diventano merci. Risorse naturali, relazioni sociali, saperi e prodotti dalla cooperazione lavorativa escono dalla categoria dei beni comuni disponibili, si separano dal mondo della vita attiva e entrano nel circuito delle cose morte, privatizzabili, accumulabili, monetizzabili. Il Pil in realtà ha la funzione di prezzare i beni comuni, li sottrae ai loro produttori e li rende disponibili solo a chi è solvibile sul mercato. Insomma, snatura la produzione e disumanizza il consumo. Una politica davvero riformatrice non dovrebbe limitarsi a limare gli eccessi (lotta agli sprechi, risparmio, equa distribuzione, sostenibilità...). In gioco non ci sono solo misure, temperanze (Ogm no, concimi chimici sì; mine antiuomo no, pistole sì; nucleare no, turbogas sì...), ma logica intrinseca. I beni e i servizi utili, durevoli, prodotti e distribuiti con il minimo impegno di materie prime e di energia, riciclabili, fruibili collettivamente, relazionali, scambiabili gratuitamente sulla base di libere e reciproche convenienze, autocentranti in cicli produttivi corti, locali, sgravati dai costi della pubblicità, senza copyright e brevetti... non fanno parte del Pil; lo fanno decrescere. Con soddisfazione dei produttori e dei consumatori. I primi lavorano meno, i secondi guadagnano in qualità e serenità. La decrescita (del Pil) è quindi molto più di una semplice provocazione che ci aiuta a destrutturate la logica incrementale del capitalismo, essa indica una direzione di senso da dare alla vita e alla politica. Parlare oggi di decrescita in mezzo a una crisi dei mercati finanziari è quindi più che mai obbligatorio, se non vogliamo che siano ancora una volta i lavoratori (precarizzazione), i risparmiatori (perdita di valore dei fondi pensioni) e i consumatori (inflazione) a pagare per tenere alti i rendimenti azionari e i capitali accumulati dalla classi capitaliste.

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