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Ugo Mattei
Il virtuosismo celestiale dell'accumulo senza fine
11 Gennaio 2008
Capitalismo oggi
Il terzo dei magistrali articoli sui privilegi della proprietà nell’attuale fase del capitalismo: Proteo non perde né il pelo né il vizio. Il manifesto, 11 gennaio 2008

Un formidabile incentivo per comportamenti virtuosi tesi a accumulare ricchezza. La proprietà privata ha assunto una sacralità che la pone al riparo da ogni critica. Eppure gran parte delle costituzioni pongono tutt'ora precisi limiti alla sua diffusione.

Negli Stati uniti è stata emanata una legge per prorogare a settantacinque anni i diritti d'autore della Walt Disney, mentre la Corte federale ha consentito alla Pfizer Corporation di sfruttare alcuni beni comuni in nome dello sviluppo economico

In due precedenti scritti apparsi su queste pagine sono state descritte le trasformazioni soggettive ed oggettive della proprietà privata nell'attuale fase del capitalismo globale. Dal primo punto di vista, la trasformazione più rilevante è stata quella del passaggio dall'individuo proprietario (sovrano dei suoi beni) alla corporation proprietaria, a tal punto potente da contendere allo Stato la sovranità politica (il manifesto, 1/12/07). Dal secondo punto di vista, la cifra della trasformazione è stata quella di una smisurata crescita dei beni occupabili e riducibili alla logica proprietaria del mercato (il manifesto, 28/12/07). Si tratta ora di interrogarsi sul senso politico e giuridico di tali trasformazioni, di verificarne la compatibilità con il contenuto della Costituzione vigente oggi in Italia, per avviare una riflessione critica sulle strade da percorrere nell'elaborare un programma di riforma dotato di una qualche sostenibilità di lungo periodo.

Sul ponte del Titanic

Difficile negare che le recenti trasformazioni della proprietà privata siano da considerarsi processi sociali che hanno lasciato una moltitudine di vinti accanto ad un esiguo numero di vincitori. Poiché tuttavia la storia viene narrata dai vincitori, è difficile sfuggire all'offuscamento generato dall'ideologia dominante da essi prodotta. Ne consegue che pochi programmi politici sarebbero destinati a più sicura sconfitta di quelli che dovessero attaccare il più amato e popolare fra i diritti patrimoniali dell'individuo. Si sprecano infatti le biblioteche volte ad elogiare il diritto dominicale, ed i toni apologetici, hanno nel corso dei secoli accreditato alla proprietà somme virtù, fra cui la capacità di stimolare il lavoro e la produttività, la difesa della libertà e della personalità umana, l'incentivo a comportamenti virtuosi di accumulo e risparmio in vista della trasmissione intergenerazionale delle ricchezze. Si è così prodotto uno spesso strato ideologico dietro al quale si è cementata l'alleanza fra piccola borghesia proprietaria e ceti privilegiati sempre più ricchi, i quali, tramite stili stravaganti di consumo e di ostentazione della ricchezza, dettano i modelli comportamentali che caratterizzano l'attuale danza collettiva sul ponte del Titanic.

Da ormai molto tempo, anche a causa del fallimento del socialismo «realizzato», non ci si sofferma più sul ricco filone di ricerca che vede nella proprietà privata uno dei principali responsabili della povertà e dello sfruttamento. Il riferimento non è soltanto alla critica frontale della proprietà privata prodotta dal socialismo utopista di Jacques Proudhon, raccolta nel celebre aforisma «la proprietà è un furto». Né al materialismo storico di Marx, che pur è prezioso per aver indicato quella netta diversità strutturale fra proprietà privata dei mezzi di produzione ed altre forme di proprietà personale. Una distinzione che la retorica dominante è riuscita a celare, assoldando così la piccola borghesia a baluardo dei privilegi dei super-ricchi. Il riferimento semmai può essere anche a personaggi come Tommaso Moro, niente meno che Lord Cancelliere di sua maestà il quale, nella sua «Utopia», immagina la società ideale come priva di proprietà privata. Anche fra i padri della chiesa non è poi difficile trovare un florilegio di citazioni critiche: «Il ricco è un ladrone» (San Basilio); «L' opulenza è sempre il prodotto di un furto» (San Gerolamo); «La natura ha stabilito la comunità; l'usurpazione la proprietà privata» (Sant Ambrogio); «Nella buona giustizia tutto deve appartenere a tutti. È l'iniquità che ha fatto la proprietà privata» (San Clemente). Parole non distanti da «estremisti» come François Noël Babeuf, secondo cui «Tutto ciò che possiedono coloro che hanno più della loro quota parte individuale nei beni della società è furto e usurpazione».

Occorre oggi recuperare chiarezza sui presupposti teorici delle riflessioni volte a sostenere l'illegittimità di un eccessivo accumulo di proprietà privata (che oltre una certa soglia andrebbe impedito tramite apposite misure fiscali patrimniali). Si potrà allora fondare il coinvolgimento di tutti i lavoratori (per esempio tramite una parte del salario sotto forma di stock options) e delle moltitudini titolari dei beni comuni nei benefici del processo produttivo. È noto che qualsiasi forma di produzione richiede diversi input: gli economisti parlano di capitale e lavoro. A questo binomio vanno aggiunti diversi beni comuni, in particolare «i luoghi» in cui la produzione avviene. Dobbiamo realisticamente accettare che lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo siano stati sostanzialmente «privatizzati» in modo irreversibile se non legittimo: gli economisti infatti considerano la terra uno «strumento» per il cui utilizzo il proprietario (ancorché fannullone) può chiedere un prezzo (canone di locazione).

Tuttavia fra i beni che si trovano in natura strutturalmente comuni e necessari per la produzione si trovano ancora (sempre più contesi) acqua, aria e luce del sole. Nessuno fra questi fattori (capitale, lavoro e beni comuni) è di per se capace di produzione. La produzione li richiede sempre tutti presenti simultaneamente. Il capitale non produce assolutamente nulla senza il lavoro che sfrutta ed i beni comuni che consuma. Il lavoro senza il capitale può dar vita all'artigianato, ma a sua volta non produce senza sfruttare beni comuni. I beni comuni non sono produttivi se non «sfruttati» dal lavoro e dal capitale. Ne segue che la produzione è sempre un progetto cooperativo, gran parte dei cui imput non sono proprietà dell'imprenditore (abbiamo abolito la schiavitù) e spesso appartengono a tutti (beni comuni).

Il parassita di Axum

La «proprietà» di quanto collettivamente prodotto, non dovrebbe appartenere perciò al solo capitalista ma anche in parte ai lavoratori (proprietari del lavoro) ed in parte a tutta la collettività (proprietaria dei beni comuni). La scienza economica dominante è per lo più responsabile dell'illusione ottica per cui il capitale è di per sè produttivo. Essa fonda così l'argomento utilizzato dal capitalista per appropriarsi dell'intero prodotto collettivo una volta liquidato, sotto forma di salario, il singolo input lavorativo. Il capitalista che acquista la proprietà del prodotto finito, infatti, non paga né i beni comuni né quello che potremmo chiamare «surplus della cooperazione». Infatti, secondo un celebre esempio, un uomo da solo in cento giorni di lavoro non riuscirà ad issare l'obelisco di Axum, mentre cento uomini ci riusciranno in un sol giorno. È questo surplus o premio cooperativo, dotato di straordinario valore, che il proprietario non paga retribuendo separatamente 100 unità lavorative. Naturalmente per la produzione del surplus risulta necessario un coordinamento. Il lavoro del coordinatore, tuttavia, ai fini della produzione non è più necessario di qualsiasi altro. In una buona organizzazione produttiva infatti tutti gli input sono necessari e sufficienti, sicchè tutti i partecipanti devono partecipare alla divisione del premio e certo non soltanto il proprietario.

La Costituzione italiana stabilisce, con l'articolo 42, che la proprietà è pubblica o privata e che la Repubblica deve rendere quest'ultima accessibile a tutti al fine di garantirne la «funzione social». Inoltre, l'articolo 43 afferma che l'iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza alla libertà o alla dignità umana. Quanto al lavoro, su cui si fonda la Repubblica, esso deve dar diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa» (articolo 36). Anche i beni comuni sono tutelati in modo ampio (articolo 9).

Difficile alla luce di questo fraseggio considerare la proprietà privata privilegiata rispetto al lavoro o ai beni comuni. Eppure «il capitalismo realizzato» privilegia pochi proprietari o managers, a scapito dei molti, piccoli proprietari o proletari che siano. Infatti, le trasformazioni soggettive della proprietà, che sostituiscono sul piano paradigmatico il vecchio e odioso latifondista con un entità astratta quale la corporation che scherma i suoi gruppi di controllo (formalmente proprietari) ed il suo management (a sua volta proprietario grazie alle stock options) non lasciano indenne il lato oggettivo.

La legge di Topolino

La crescita drammatica della capitalizzazione rende la corporation talmente potente da potersi «comprare» tanto il processo politico quanto quello giudiziario. Alcuni esempi: nell' imminenza di ogni scadenza di copyright appartenente alla Walt Disney Corporation, che comporterebbe il rientro fra i beni comuni di Topolino, Pippo o il mago di Oz, viene fatta passare al Congresso statunitense una legge di proroga della proprietà intellettuale. L'ultima, ribattezzata significativamente Micky Mouse Extension Act, fa oggi durare l'esclusiva proprietaria creata dal diritto d'autore per settantacinque anni dopo la morte dell' inventore. Nel 2004 la Corte Suprema Federale ha approvato questa estensione sebbene la Costituzione Statunitense giustifichi il diritto d'autore come premio per stimolare la creatività.

Controllando i poteri dello Stato, il «latifondo» della corporation travolge perfino la piccola proprietà che vi si contrappone. Il requisito della «pubblica utilità» necessaria per espropriare la proprietà privata viene così travolto dalla necessità delle corporations di accaparrarsi inputs produttivi da sfruttare al fine di profitto. Progressivamente, dietro la spinta delle teorie economiche dominanti, proprio negli Stati Uniti, si insinua l'idea per cui la proprietà può essere forzatamente trasferita da un soggetto privato ad un altro soggetto privato sulla base di un'analisi costi-benefici capace di dimostrare che il nuovo uso (privato) è «più efficiente» di quello precedente.

Le case del viagra

Nel 2005, la Corte Suprema Federale statunitense scardina il postulato dell'uso pubblico come giustificazione dell'espropriazione. Beneficiaria di questa clamorosa svolta è quella Pfizer Corporation famosa in tutto il mondo per il Viagra. Viene infatti considerata legittima l'espropriazione di alcune abitazioni private per consentirle di costruire un laboratorio. Si sostiene che lo «sviluppo» del territorio sia da considerarsi nell'interesse pubblico anche se portato avanti da un privato a scopo di profitto. Si inaugura così una stagione globale in cui le proprietà piccole non godono più di fronte alla legge della stessa tutela delle proprietà grandi: recentemente, simili espropriazioni, accompagnate da inaudita violenza, hanno infatti colpito contadini indiani e cinesi. In Italia la sola rete capillare di telecomunicazione, realizzata negli anni attraverso investimenti di capitale pubblico, è oggi in proprietà di una corporation privata, la Telecom Italia. Anche qui siamo di fronte ad una notevole sovversione di principi fondamentali in materia di appropriabilità privata di beni aventi caratteristiche pubbliche. Così, anche da noi lo strapotere finanziario riesce a «comprare» il processo politico e con esso i beni pubblici.

«Che queste vendite si moltiplichino - scriveva Proudhon nel lontano 1840, di fronte alla vendita di terre coltivabili in Francia -. Fra non molto il popolo che non ha potuto né voluto vendere, che non ha riscosso il prezzo della vendita, non avrà più dove riposare, dove rifugiarsi, dove fare il raccolto: andrà a morire di fame alla porta del proprietario, ai bordi di quella proprietà che fu la sua eredità; e il proprietario vedendolo spirare dirà: Così muoiono i fannulloni e i deboli».

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