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Grattacielo a Torino. Due posizioni vicine e diseguali
18 Febbraio 2008
Torino
Enrico Bettini, animatore dell’associazione torinese Cittàbella, e Vezio De Lucia, vicedirettore di eddyburg, discutono sul grattacielo di Renzo Piano

Enrico Bettini

Torino e la ‘corsa verso il cielo’

(contributo alla chiarezza)

Lo ‘skyline’

Lo skyline di Torino è mutato molte volte dall’epoca della sua fondazione. Per secoli è stato quello determinato dal castrum romano in cui a ‘svettare’ erano le torri a 16 lati alle estremità del cardo e del decumano. Poi, soprattutto a partire dal 15° sec. d.C, la città si espanse con palazzi, chiese e cappelle ( si pensi a quella della S.Sindone) che ne elevarono il profilo ad una quota ben maggiore di quella delle antiche porte di accesso alla città .

All’inizio del ‘900, dopo ulteriori e maggiori espansioni soprattutto in epoca industriale, avvenne l’ultimazione della Mole di Antonelli destinata a diventare il simbolo di Torino. Per competere con il diffondersi dei grattacieli di Chicago (sulla volontà di competere –a qualunque costo- da parte di Antonelli nessuno storico nutre dubbi) e per rispondere a quel suo rovello che era “..lo stupore che egli voleva suscitare, non solo presso le persone competenti, ma anche presso gli osservatori comuni. E poi ancora il senso della competizione: quella in altezza rimaneva in lui, fra tutte, la più ostinatamente perseguita…. quasi fosse travolto dall’ansia di passare ai posteri per qualcosa di moderno..” (R. Gabetti), progettò e realizzò una costruzione che andò oltre ogni limite allora immaginabile.

Dunque, solo una sfida nell’abilità di costruire in altezza, di realizzare in muratura ciò che in altra parte del mondo si rifiutava preferendo l’acciaio; una sfida anche culturale per affermare che la nuova via tracciata dalle certezze di calcolo acquisite dall’ingegneria e dall’evoluzione tecnologica dovesse per forza orientarsi a modi e a modelli alternativi nelle costruzioni, anche le più ardite. Un modo per dichiarare che- intravista al possibilità di legare il suo nome ad un primato di portata storica- non si è curato dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile).

Alla Mole seguirono esempi di verticalismo –seppure non altrettanto spinto- con la torre littoria di Piazza Castello, con quella di Piazza Statuto e poi con la sede in acciaio e vetro di Porta Susa, con il ‘Palazzo Nuovo’ dell’Università, con le torri di fronte all’autostrada per Milano, con il palazzo della Telecom che sarà sede della Provincia, ecc.

Si può concludere che lo ‘skyline’ di Torino,in epoca moderna, è stato -anche in senso verticale, non solo orizzontale- in continua variazione ed evoluzione. Certo, le ‘case alte’che sono seguite alla Mole non sono state altrettanto dirompenti nel loro rapporto con l’intera città e nel modo di essere accolte dalla cittadinanza ma –a giudicare dalle reazioni fatte registrare dal grattacielo di Piano a distanza di un secolo e mezzo dall’irruzione della Mole nel panorama di Torino- quasi certamente lo sarebbero state se la Mole già non esistesse.

Il simbolo

Questa abitudine dei torinesi alla sua presenza, questa sua continuità ad esistere vincendo i dubbi e il precario destino iniziali hanno fatto sì che il monumento si riscattasse e si tramutasse in valore, in tradizione fino a diventare simbolo della città intera. C’è da chiedersi, semmai, perché ciò è successo per la Mole e non per le architetture di Juvarra o di Guarini o di Alfieri ..che sono ben più degne nel rappresentare la nostra città. Ciò vale non solo per Torino. Altro caso emblematico in proposito è quello di Parigi dove, quasi coeva alla Mole, per l’expo universale del 1889 sorgeva la Tour Eiffel, criticata e contestata da tutti –cittadini e intellettuali- (“..un’impalcatura sbagliata intorno al nulla ..’ , “ un brutto lampadario che prima o poi andrà smontato..”, ecc) progettata ed eseguita (18 mila travi di ferro assemblate con 2.5 milioni di bulloni) per essere smontata al termine dell’esposizione proprio a dimostrazione dei vantaggi di quella tecnica per cui Eiffel era già famoso nel mondo. Ma, come la Mole di Antonelli che la comunità israelitica si era convinta di non innalzare più, anche la Tour diventò inamovibile ed anch’essa diventò il simbolo della sua città a scapito, anche qui, di altre architetture ( Louvre, Notre Dame, ecc.) senz’altro di ben più alto significato storico e valore.

La spiegazione dell’affermarsi di tali simboli nonostante la loro “..sublime inutilità..” (C. Mollino) è da ricercarsi non solo nel loro gigantismo ma proprio nel loro elevarsi imperioso dalla massa urbana di tutti gli altri edifici. Decisiva, pertanto, è proprio l’altezza, il contrasto netto della loro eccezionale verticalità su quella ‘normale’ del resto della città di allora. Non solo questo.

La modernità (‘modernismo’ lo interpreto in modo dispregiativo)

Il procedere in altezza prima con cupole e guglie, poi con scheletri d’acciaio dalla possibilità di moltiplicazione all’infinito anche dell’altezza è il risultato della scienza e della tecnica senz’altro moderne. Il passaggio dalle case alte, alle torri, ai grattacieli è il percorso di un tipo ed un modello resi possibili dallo sviluppo di modelli matematici di calcolo e simulazione che fanno parte della storia recente e che sono in grado di spingere le costruzioni ben al di sopra dei 167 metri di Antonelli ed anche dei 324 (il doppio) di Eiffel.

Dunque il simbolo si arricchisce senz’altro di quest’aura di modernità, vuole significare anche il lasciarsi alle spalle i limiti imposti da una tradizione secolare nel costruire case e chiese. I 146 metri della piramide di Cheope sono raddoppiati, triplicati, ecc. senza dover ricorrere a centinaia di metri della base d’appoggio, alla sua colossale massa ma, al contrario, possono ergersi con sempre maggior leggerezza a quote sempre più alte nel cielo.

Negare che quando si progetta un grattacielo non lo si faccia con questo intrinseco significato è un po’ negare la storia della società moderna dall’Illuminismo in poi.

L’identità torinese nel grattacieli

E’ stato chiesto all’architetto Piano che cos’ha il suo grattacielo di Torino. L’architetto, molto disponibile e accondiscendente verso ogni argomento si è un po’ arrampicato sugli specchi ( “..l’atmosfericità e trasparenza del volume, l’articolazione della pianta, la proiezione contro l’arco alpino,..”). Ci siamo mai chiesti in che cosa la Mole Antonelliana rivela la sua identità torinese? (analogamente i parigini dovrebbero chiedersi che cos’ha la Tour Eiffel della loro città). Ce lo siamo chiesti per le torri che recentemente sono sorte su aree delle Spine? Che cos’hanno di torinese quelle torri?

Possiamo dire che Antonelli si sia posto il problema? Proprio da un carattere orgoglioso ed autarchico come il suo, geniale nell’intuizione strutturale, ma insofferente ad ogni associazione del suo lavoro a modelli e stili precedenti e ad ogni condizionamento (da quello funzionale –la sinagoga è sempre stata per lui un pretesto- a quello finanziario, a quello delle scadenze temporali, ecc.) è difficile crederlo. Se davvero avesse sentito come vincolante l’impegno a qualificare la propria opera con precisi legami all’architettura torinese forse non avrebbe scelto di costruire cento metri sopra la Torino che lui conosceva; se il suo progetto fin dall’inizio si fosse curato di interpretare l’identità del luogo non avrebbe scardinato più e più volte il progetto stesso solo per realizzare un’altezza sempre più spettacolare. E’ più credibile che egli abbia voluto piegare sia quello che oggi chiamiamo skyline sia l’identità della città alla sua identità, al suo carattere forte e determinato.

Come può un grattacielo di 200 metri (o 150) farsi riconoscere nella sua appartenenza a Torino? Perché ad ogni piano ci sarà lo stemma dei Savoia? Perché sarà verniciato di giallo e di blu? O perché avrà la forma della Mole, un po’ stirata in alto di 50 metri? Quante volte siamo abituati ad osservare –giustamente- che quando si cambiano le proporzioni oltre certi limiti, la cosa cambia di senso. Ed è così anche in architettura. Se Versaille o la Reggia di Venaria fossero grandi come i nostri giardini Cavour, non sarebbero solo più piccole ma tutt’altra cosa. Una costruzione alta centinaia di metri appartiene ad un’altro modello di città, comunque. Per cui è inutile e fuorviante tentare imparentamenti e ricercare o pretendere riscontri con quella sostanzialmente orizzontale precedente. Più volte, correttamente, è stato fatto l’esempio della Défense di Parigi.

Le torri del PRG

Il Piano Regolatore di Torino in vigore dal 1995 prevede alcune torri da erigere in aree libere e/o dismesse di cui 2 di 100 metri all’interno della ‘Spina 2’ cioè in una zona fuori dal centro storico ma interna a quella napoleonica detta ‘dei grandi viali’. Dunque il PRG, in vuoti urbani, già prevedeva l’inserimento di grattacieli. Si tratta di stabilire la correttezza di tale impostazione iniziale dalla quale deriva la legittimità della proposta del grattacielo di Renzo Piano. Dal punto di vista del disegno urbano la ritengo una impostazione corretta perché si tratta di alcuni inserimenti limitati(3), circoscritti ad aree molto caratterizzate, in particolare quelle gemelle nei pressi di Porta Susa. I rilievi e le riserve devono essere, come dirò più avanti, di altro genere per altri problemi.

La collocazione delle tre torri previste, sempre dal punto di vista del disegno urbano, della forma della città, del progetto del suo rinnovamento così come nelle previsioni –appunto- del PRG, ha un senso se relazionata all’asse della Spina Centrale, al suo sviluppo dalla Spina1 alla Spina2, prefigurando in quella zona una sorta di centro direzionale cittadino avente i suoi capisaldi nelle suddette torri. Soprattutto le due a cavallo di Corso Inghilterra, individuano il ‘focus’ della mobilità torinese nella stazione di Porta Susa che sarà quella centrale di Torino. Non si tratta pertanto di una cittadella di grattacieli da spargere in tutta quella zona ma dei tre previsti. Quello che personalmente osteggerei –considerata l’opportunità dell’abbandono del suo uso da parte della Regione- è quello destinato, appunto, a sede degli uffici regionali da convertire senz’altro a zona verde con apice nella fontana di Mertz.

Dire che la città verrebbe deturpata anche da un solo grattacielo perchè totalmente incompatibile con la fisionomia sobria ed elegante di Torino è una reazione istintuale, di timore primordiale, che si colloca fuori dalla storia evolutiva che anche la nostra città ha avuto e che si ferma a Piazza Castello ed ai suoi dintorni.

Ma il disegno urbano ,conseguente e allegato al PRG, era relativo a torri di 100 metri e non 150 e tantomeno di 200. Oltre ai problemi di cui accennerò in seguito, ritorna immancabilmente quello del senso e utilità di un PRG sempre superato e più spesso smentito da una costante procedura di variante. Un PRG che ha subito una gestazione di 10 anni, non uno di meno. Il senso così si capovolge ed è quello non solo della deroga al PRG ma del suo annullamento di fatto, dell’annullamento del rispetto delle regole che lo sostanziano. Il senso vero è quello che ci si vuole lasciare alle spalle lo strumento di pianificazione preventiva per sostituirla con una sorta di pianificazione libera (libertaria) fatta di interventi caso per caso. Gli esempi che avvalorano questa che non è più una tendenza ma una prassi, non mancano.

Ciò per dire che la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta -e le regole non glielo consentono- ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo -che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette.

La concentrazione delle funzioni

Un altro dei veri problemi che si pone è quello dell’opportunità di collocare le torri (di 100, 150 0 200 metri) ai bordi della città storica. Un’allocazione più centrale alla città rende certamente maggior prestigio soprattutto ad attività che vivono molto della loro immagine. Stabilire, in ambito terziario, la propria sede di maggior rappresentanza nella zona aulica della città o, comunque, non lontana da essa, è comprensibile e ambìto da tutti ma in prevedibile contraddizione con gli standard funzionali e relazionali del tessuto urbano esistente circostante. Questo è un giusto approfondimento che può risultare decisivo.

Il problema principale, a mio avviso, è la congestione delle funzioni in quella zona. Nella Spina2 si sovrapporranno Il raddoppio del Politecnico, il nuovo collegio studentesco all’inizio di Via Boggio, la nuova biblioteca di Bellini, il futuro museo delle carceri Nuove e le OGR ristrutturate sulla stessa via; la cittadella giudiziaria già in funzione, la nuova sede della Provincia di prossima apertura ed il grattacielo più o meno gemello delle FFSS e quello di IntesaSanpaolo. Tutte queste funzioni devono essere supportate da una rete infrastrutturale e dei servizi di un tale livello da far sorgere più di un dubbio sull’opportunità di aumentare la concentrazione di attività e residenze con due grattacieli di centinaia di metri di altezza.

Non basta, io credo, la vicinanza della stazione intermodale di Porta Susa a garantire i bisogni di mobilità derivanti da un simile impianto urbano. Non basta certo l’attuale linea di metropolitana e non bastano i servizi sociali oggi presenti nella zona e che sono destinati a veder decuplicata la loro domanda. Non saranno sufficienti –credo- nemmeno le aree verdi presenti (il giardino pensile del Palagiustizia e quello di risulta nell’area del grattacielo di Piano)se si sommano ai residenti e dipendenti attuali (Palagiustizia, Telecom, ecc.) gli almeno 6.000 nuovi dipendenti della banca, della Provincia, delle FFSS ecc. oltre alla massa preventivabile di visitatori che vorranno andare sulle terrazze dei grattacieli aperte al pubblico e tanto declamate come cosa pubblica.

Ciò che preoccupa è il ripetersi di una pessima abitudine: quella di anteporre gli insediamenti alla realizzazione delle infrastrutture e dei servizi necessari a quell’insediamento. E’ esattamente quel che è successo ancora recentemente con gli insediamenti nelle ‘Spine’ (vedi il convegno di ‘Cittàbella’ sulla Spina3). Ciò che va richiesta è proprio la previsione sull’intensità e organizzazione dei flussi della mobilità, della loro connessione e soddisfazione con passante, metro e tranvie (ad es. eventuali, ulteriori arterie sotterranee); sull’organizzazione della sosta e dell’accoglienza in zona (il riequilibrio con vuoti urbani che non vuol dire parcheggi); sull’organizzazione della pedonalizzazione e delle ciclopiste (indispensabile a tali livelli di concentrazione) il più possibile in alternativa con i parcheggi per le auto private; sull’organizzazione dei sistemi per la sicurezza (non solo quella interna) ; sulla probabile redistribuzione della rete del commercio, degli asili, delle scuole di primo grado, dei presidi sanitari, ecc. ecc.

Sono state fatte queste previsioni? Se sì ,occorre renderle pubbliche. Se no, occorre porvi mano immediatamente perché assolutamente condizionanti l’inserimento o meno di torri con tali carichi antropologici e delle relative attività.

La sostenibilità

Tutti coloro che operano nel settore dell’edilizia sanno che proprio per la scala dei problemi che le grandi torri devono affrontare esse sono all’avanguardia nella ricerca non solo nel campo della stabilità strutturale (il vento), in quello della mobilità interna (ascensori ad alta velocità), ma anche in quello della sicurezza interna (evacuazioni antincendio), in quello dei materiali in cui (la protezione dell’acciaio e l’evoluzione della tecnologia dei prodotti vetrari sono il risultato della sollecitazione proveniente dalle condizioni estreme proprie dei grattacieli).

Anche nel campo del consumo energetico da tempo proprio Foster e Piano hanno dato contributi che –testati su costruzioni colossali- sono applicabili e generalizzabili all’architettura meno ‘verticale’ ed estrema della loro. Le soluzioni per la ventilazione naturale sia notturna che diurna con appositi corridoi ad effetto camino; l’introduzione ed il ruolo assegnato alla vegetazione dei giardini interni; le facciate cosiddette ‘a doppia pelle’ con il proposito dichiarato di risparmiare il 25% di energia; l’attenzione posta al ruolo anche dei solai in funzione sia di limitazione dell’irraggiamento solare estivo sia di incanalamento delle correnti d’aria per il loro raffrescamento interno; il ricorso a grandi superfici di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica. Insomma, non siamo più alle ‘case dello specchio’ cioè ai grattacieli che a New York che non si curavano per nulla della dispersione e quindi dell’enorme dispendio di energia. Sono soprattutto gli architetti europei che hanno sensibilizzato tutti gli architetti alla sostenibilità energetica e proprio anche per questa sensibilità e serietà professionale Piano è apprezzato in tutto il mondo.

A proposito di quartieri che auto- producono la corrente (Friburgo) viene da chiedersi perché le stesse preoccupazioni non sono state avanzate per la realizzazione dei nostri nuovi quartieri in questi anni. Perché il rigore nel rispetto della sostenibilità deve valere solo per i grattacieli e non per interi agglomerati urbani nuovi di zecca. Come ad esempio le Spine 3 e 4. Riconosciamo allora che abbiamo perso delle colossali, queste sì, occasioni. O bisogna risparmiare solo se si è ‘alti’?

Conclusioni

Oltre al rispetto –per tutti- delle regole, il vero nodo, a mio parere, è quello della compatibilità funzionale, infrastrutturale e dei servizi per decidere di intervenire all’interno di un tessuto urbano esistente . E quello della destinazione d’uso della torre, semmai (opportunità di una enorme sede bancaria, rapporto tra pubblico e privato, tra terziario e non, ecc.). Non quello della ‘sobrietà’ o meno che le torri a Torino devono avere (quanto ad eleganza non c’è miglior interprete di Renzo Piano). E per quanto riguarda l’impegno alla sostenibilità forse era il caso di leggere le relazioni del progettista allegate alla esposizione dei suoi plastici a Palazzo Madama. O attendere le sue spiegazioni in Consiglio Comunale.

C’è stata precipitazione e quindi non poca confusione nelle critiche alla presentazione della torre di Piano. Come dice N.Foster “… nessun’altra struttura ha tanta capacità di trasformarsi in icona”. Forse è proprio così. Ci si è fermati all’icona e si è tralasciato il suo contenuto.

Vezio De Lucia

Non concordo con le conclusioni

Caro Enrico, condivido e apprezzo molti degli argomenti oggetto della tua nota, argomenti che dovrebbero indurti a un giudizio non favorevole al grattacielo progettato da Renzo Piano. Mi pare che invece, alla fine, tu sia d’accordo. Provo a convincerti dell’errore. Comincio dal piano regolatore che, se non ho capito male, fissa per i tre previsti grattacieli un’altezza massima di 100 metri. Quello di cui si discute è alto il doppio, o quasi. Non è un’inezia e, come correttamente osservi, “la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta – e le regole non glielo consentono – ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo – che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette”. Già questo basterebbe per mettere in discussione la decisione comunale. Certamente ti ricordi che, nel convegno di Cittàbella del maggio scorso, avevamo apprezzato la situazione di Torino dove, al contrario di quanto succede a Milano, il piano regolatore è vigente e il potere pubblico lo fa rispettare. Scopriamo adesso che non è così e che Torino subisce il fascino del rito ambrosiano.

Ancora più importante è il problema che tu definisci della concentrazione di funzioni e, quindi, degli spazi pubblici mancanti che, secondo Diego Novelli, ammonterebbero almeno a otto ettari. Questo spazio non c’è, e allora? Torniamo alla questione del piano regolatore disatteso.

Ma, secondo me, l’argomento decisivo che impone di rifiutare il progetto di Renzo Piano, è quello che tu affronti sotto la voce skyline. Merito indiscusso della cultura italiana della seconda metà del secolo scorso (a partire dalla carta di Gubbio del 1960 a tutta le successive esperienze di recupero urbano) è l’acquisizione del carattere unitario dei centri storici, da proteggere perciò nella loro unitarietà, superando la precedente concezione che li individuava come luoghi di particolare concentrazione di monumenti (da tutelare) immersi in tessuto anodino (disponibile per ogni trasformazione, anche lo sventramento, purché accuratamente “ambientato”). Quell’acquisizione non può essere impunemente accantonata. Mi pare stantio e inutile il tentativo di attualizzare l’opera dell’ ingegner Antonelli al quale non si può attribuire la nostra sensibilità e non si capisce perchè avrebbe dovuto curarsi, come tu scrivi, “dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile)”.

Ha scritto lucidamente Antonio Cederna, nelle mirabile premessa a I vandali in casa, che le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della Storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Questo è il punto, questa è la ragione per la quale bisogna opporsi al grattacielo previsto a ridosso del centro storico. La Mole antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella nostra disponibilità di uomini moderni: altro che sostenitori delle pecore in piazza San Carlo, come ha dichiarato il vostro sindaco. I grattacieli, se si vogliono fare, li si faccia nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare.

Ho cercato molto in sintesi di riepilogare le ragioni che hanno guidato la stesura del nostro appello, che perciò non è stato precipitoso, come tu giudichi, ma ancorato a profondi convincimenti. Che spero anche tu finisca con il condividere.

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