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Il fenomeno periurbano si caratterizza oggi per essere una forma territoriale assai diffusa nelle nostre periferie europee, risultato confuso dello sprawl urbano dominante. Non ha più senso parlare di limite città-campagna, ma allo stesso tempo ci si chiede se il periurbano possa essere considerato come una destrutturazione degli assetti insediativi originari, oppure se possegga delle caratteristiche fisiche e morfologiche indipendenti.

E’ importante domandarsi quale sia una possibile definizione di periurbano, ma soprattutto che ruolo abbiano svolto gli strumenti di pianificazione del territorio nel determinare questa forma di organizzazione spaziale. Se il concetto di limite, inteso come linea divisoria, perde importanza, ha senso interrogarsi su come integrare queste aree di transizione, in cui avvengono importanti trasformazioni e si generano forti impatti ambientali sul territorio.

L’esperienza catalana in materia di pianificazione e gestione del territorio ci può servire per analizzare alcuni casi interessanti di trattamento del fenomeno periurbano. Dopo una breve rassegna sugli strumenti previsti dalla legislazione catalana in materia di pianificazione territoriale e urbanistica, analizzeremo gli spazi agricoli periurbani dell’ACTUR di Santa Maria de Gallecs e il Parc Agrari del Baix Llobregat, entrambi ubicati nell’Area Metropolitana di Barcellona. Abbiamo scelto queste due esperienze perché, nonostante facciano parte di una territorio particolarmente soggetto all’espansione urbana, sono sinonimo della volontà politica di controllare le dinamiche territoriali di area vasta e di stabilire un sistema di gestione degli spazi agricoli periurbani.

Pianificazione e governo del territorio

La Catalogna presenta un’interessante traiettoria nella ricerca e produzione di documenti di pianificazione territoriale che risale agli anni Trenta del Novecento. Nel periodo della cosiddetta Generalitat Republicana (1931-1939), si assiste ad una fase di intensa sperimentazione e dibattito sul modello territoriale e sulla relazione tra spazi agricoli e zone urbane. E’ in questi anni che vengono formulate le prime proposte di ordinamento degli spazi agricoli metropolitani: si pensi al Pla de distribució en zones del territori català del 1931 (cosiddetto Regional Planning) che, benché non sia mai stato approvato, aveva tra i propri obiettivi quello di evitare l’industrializzazione integrale secondo il modello inglese e proponeva di mantenere gli spazi agricoli metropolitani. Purtroppo però, dopo il colpo di stato del 1936, le iniziative repubblicane di pianificazione territoriale non hanno séguito e, durante la dittatura franchista, anche la produzione di documenti di pianificazione urbanistica è scarsa, nonostante la crescita urbana sia pronunciata: nel 1981, il 55% dei Comuni catalani non disponeva di quello che per noi è oggi il Piano di Governo del Territorio.

Il Pla General Metropolità (PGM) del 1976 è l’unico strumento di pianificazione territoriale dell’Area Metropolitana di Barcellona (AMB) che viene approvato in quegli anni e che è tutt’ora vigente, benché le sue prescrizioni riguardino solamente ventisette Comuni dell’area.

Nel 1979, con l’Estatut d’Autonomia della Catalogna, le competenze in materia di ordinamento del territorio passano alla Generalitat de Catalunya che, nel 1983, promulga la prima Llei de Política Territorial.

La struttura normativa della legge prevede la formulazione di un Pla Territorial General de Catalunya (PTGC), che si articola attraverso una serie di piani, i cosiddetti Plans Territorials Parcials (PTP) e i Plans Territorials Sectorials (PTS). Il PTGC viene approvato definitivamente soltanto nel 1995 e, nel 2001, a quasi vent’anni dall’entrata in vigore della Llei de Política Territorial, esiste solo un PTP approvato, quello delle Terres de l’Ebre. Per tutto questo tempo, quindi, lo strumento base dell’ordinamento territoriale in Catalogna è risultato essere il Pla d’Ordenació Urbanística Municipal (POUM), che corrisponde al nostro Piano di Governo del Territorio. Il prevalere di una pianificazione a scala comunale conduce necessariamente ad un forte divario tra le dinamiche sovralocali - di crescita e di trasformazione del territorio - e le scelte delle singole amministrazioni. L’incapacità dei Comuni di recepire nelle scelte di piano le trasformazioni che avvengono a livello sovralocale e nazionale genera un’incongruenza di fondo che può soltanto essere superata con una coordinazione a scala maggiore.

E’ solo dalla fine del 2003, con il cambio di governo della Generalitat, che viene dato reale impulso alla politica territoriale e si approva il Programa de Planejament Territorial. L’obiettivo è coordinare le scelte di pianificazione urbanistica dei singoli Comuni e correggere la tendenza alla dispersione urbana e alla segregazione prodotta dall’urbanizzazione, promovendo un modello di territorio policentrico, coerente nelle sue diverse parti. E’ per questo che vengono redatti i Plans Territorials Parcials mancanti, strumenti di governo del territorio a livello di comarca, secondo quanto previsto dalla Legge di politica territoriale del 1983.

Plans Territorials Parcials e Plans Director Urbanístics

I PTP sono strumenti di pianificazione fisica del territorio e non piani strategici, sono vincolanti per la pianificazione urbanistica comunale e di orientamento per la quella settoriale, soprattutto se legata alle infrastrutture di mobilità. Sono in scala 1:50.000 e strutturano il territorio di loro competenza in tre sub-sistemi: espais oberts, assentaments e infraestructures de mobilitat.

Il sistema degli spazi aperti comprende tutto il suolo non edificabile (SNU) classificato dalla pianificazione urbanistica e definisce il territorio che dev’essere preservato dall’urbanizzazione. Per il sistema dell’edificato vengono stabilite delle strategie, ossia delle direttrici per l’ordinamento comunale che devono essere obbligatoriamente recepite nella revisione dei POUM, mentre il sistema delle infrastrutture di mobilità è in diretta relazione con la pianificazione settoriale corrispondente.

Tra il 2006 e il 2010 sono sette i Plans Territorials Parcials approvati in Catalogna: Alt Pirineu i Aran, Ponent, Comarques Centrals, Camp de Tarragona, Metropolitano de Barcelona, Terres de l’Ebre (revisione) e Comarques Gironines.

Parallelamente all’elaborazione dei PTP, viene redatta una serie di Plans Directors Urbanístics (PDU), strumenti di grande importanza per garantire l’applicazione delle linee di pianificazione territoriale, che hanno la funzione di coordinare la pianificazione urbanistica comunale. In totale, tra il 2003 e il 2010, sono trentasette i PDU approvati o in fase di redazione, e si dividono in sei grandi gruppi: protezione del litorale, zone di montagna, tutela e ordinamento del patrimonio e del paesaggio, aree urbane, infrastrutture, aree residenziali strategiche (ARES).

Esempio particolarmente interessante di PDU è il Pla Director Urbanístic del Sistema Costaner (PDUSC) approvato nel 2005, che esclude definitivamente dall’urbanizzazione i suoli siti in prima linea della costa catalana, classificati come SNU dai diversi POUM, e buona parte dei terreni classificati come edificabili ma ancora senza previsione di attuazione urbanistica. Le decisioni del PDUSC devono necessariamente essere recepite nelle scelte di piano di tutti Comuni della costa, cosa che li obbliga a declassare moltissimi terreni ancora considerati edificabili, frenando la pressione urbanistica generata dalle dinamiche metropolitane e legate al turismo. Dal 2003 in poi, sono molteplici le iniziative adottate dal governo catalano al fine di guidare e razionalizzare la crescita urbana e lo sviluppo territoriale: come abbiamo visto, si tratta di una serie di strumenti che si influenzano reciprocamente e che rispondono ad una precisa volontà politica di controllare le dinamiche urbane a livello sovralocale. Secondo Oriol Nel.lo, con l’impulso della pianificazione territoriale dal 2006, anno in cui è entrato in vigore il primo piano territoriale, fino al 2010, è stato possibile orientare la pianificazione urbanistica locale di più di un terzo dei Comuni catalani.

Pla Territorial Metropolità de Barcelona

Il Pla Territorial Metropolità de Barcelona approvato ad aprile del 2010 (PTMB) è uno dei sette PTP previsti dalla legislazione catalana in materia di politica territoriale e si riferisce ad una superficie di 3.236 km2, pari al 10% della Catalogna, dove vive il 70% della popolazione catalana. A differenza del PGM del 1976, che includeva soltanto 27 Comuni dell’AMB, il PTMB è lo strumento di governo del territorio metropolitano per 164 Comuni, distribuiti in 7 comarques. Della sua redazione è stata incaricata la Comisió d’Ordenació Territorial Metropolità (COTMB), formata dai rappresentanti dei diversi dipartimenti della Generalitat de Catalunya, dagli enti locali e da una rappresentanza statale. La COTMB ha sottoposto il Piano ad un doppio procedimento di consultazione pubblica, in modo da generare un più ampio dibattito in merito ai contenuti del Piano e per raggiungere un consenso più vasto da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Il PTMB ha come obiettivo l’ordinamento del territorio dell’AMB e si caratterizza per la sua volontà di limitare la dispersione dei centri abitati, potenziare la complessità funzionale e favorire la coesione sociale. L’orizzonte temporale fissato dal Piano è il 2026. A differenza della pianificazione tradizionale, il Piano non intende raggiungere un’immagine-obiettivo finale, bensì intende stabilire il contesto normativo al quale dovranno attenersi gli attori pubblici e privati che partecipano alla costruzione del modello territoriale previsto. Come per i restanti PTP, i tre grandi sub-sistemi territoriali sono: espais oberts, assentaments e infraestructures de mobilitat. Per quanto riguarda i suoli esclusi dall’urbanizzazione, il merito del PTMB è quello di aver incluso nella stessa categoria di SNU tutte le tipologie di Sòl No Urbanitzable, e non soltanto quello di speciale protezione ambientale. Gli spazi aperti vengono divisi in espais de protecció especial, espais de protecció de la vinya e espais de protecció preventiva. I primi due godono di un regime di protezione particolare, mentre gli ultimi rappresentano il SNU ordinario, ma sono comunque terreni che non potranno assolutamente essere trasformati in edificabili dai singoli POUM municipali, senza che lo preveda la strategia territoriale del Piano a scala metropolitana. Pertanto, con l’approvazione del PTMB il 74,8% del territorio dell’AMB risulta essere incluso nella categoria di spazi aperti ed un 70,4% di questo appartiene alle categorie di maggior tutela del SNU.

Regime urbanistico dei suoli. Il Suelo No Urbanizable (SNU) periurbano.

Per entrare nel dettaglio di ciò che viene definito periurbano, è necessario fare riferimento al regime urbanistico dei suoli esistente in Catalogna e, in particolare, ai suoli non edificabili (SNU).

La Legge urbanistica catalana (LU) nel suo art. 24 definisce il regime urbanistico dei suoli come quello determinato dalla classificazione, qualificazione in zone o sistemi, e l’inclusione in settori di pianificazione urbanistica derivata o in poligoni di attuazione urbanistica. Lo strumento designato dalla LU per determinare la classificació, qualificació e ús di un terreno è il POUM, e le possibili classi risultano essere: Sòl Urbà, Sòl Urbanitzable e Sòl No Urbanitzable (SNU). Per poter classificare un terreno come SNU - non edificabile - esistono tre modalità differenti, stabilite nell’art. 32 della LU:

- la prima in base alla normativa di settore, oppure sulla base di strumenti di ordine superiore, quali i Plans Territorials o i Plans Directors. Bisogna ricordare che la normativa catalana sulla protezione degli spazi naturali ha spesso proposto un sistema di protezione per zone isolate (illes), pertanto con scarsa inclusione delle zone periurbane.

- la seconda è una modalità di tipo discrezionale, ossia in base alla volontà del POUM di classificare o meno un terreno come SNU: ciò avviene in base a ragioni di congruenza con la Ley de Suelo statale (LS), oppure per garantire i principi di sviluppo urbanistico sostenibile riassunti all’art. 3 della LU.

- la terza ed ultima modalità per classificare un terreno come SNU include i cosiddetti sistemi urbanistici generali non inclusi nelle categorie di Sòl Urbà né Sòl Urbanitzable, ossia le vie di comunicazione, i servizi comunitari e gli spazi aperti.

Da ciò deriva la difficoltà di considerare i suoli periurbani come non edificabili e, molto frequentemente, sono le prime aree ad essere considerate di espansione, vista la loro prossimità alla città consolidata. Per far sì che un suolo periurbano sia considerato non edificabile (SNU), bisogna quindi attenersi alla discrezionalità del POUM, oppure disporre di un Pla Director Urbanístic.

E’ qui importante, però, fare un inciso e distinguere tra strumenti di pianificazione e di gestione: i primi sono necessari per determinare il modello territoriale, il regime dei suoli e le linee di intervento, ma sono i secondi quelli che permettono di giungere ad un controllo specifico degli usi e delle attività, e rendono attuative le scelte di piano. Il capitolo 1° del Titolo III della LU stabilisce quali sono gli strumenti di pianificazione urbanistica, da quelli generali (PDU, POUM, Normes de planejament) a quelli di attuazione (PE, PMU, PP). Entrambi i livelli di pianificazione influiscono sulla gestione del SNU: i PDU possono stabilire le direttrici per coordinare l’ordinamento di un territorio di ambito supermunicipale e le misure di protezione del SNU, ma sono i PE gli strumenti necessari per una sua gestione specifica.

Il fenomeno periurbano, come l’hanno definito Javier Abadia e Francesc Magrinyà, è costituito da tutte quelle attività, né propriamente urbane né propriamente rurali, che occupano gli spazi liberi e, con particolare intensità, i dintorni delle grandi città. Una localizzazione di tipo isolato rispetto alla città compatta costituisce la sua identità locale e la dispersione urbana dell’insieme ne rappresenta l’identità territoriale. Progressivamente, siamo passati da una centralità dei valori intrinseci del territorio (geomorfologia) a valori estrinseci generati dalle infrastrutture che lo attraversano (localizzazione, accessibilità, prezzo). Spesso mancano veri e propri criteri di localizzazione e, nei processi espropriatori, prevalgono valutazioni esclusivamente legate al prezzo del suolo. Nel giustificare le espropriazioni, infatti, si riscontra un abuso del termine “interesse collettivo”, quando dovrebbe prevalere ben altro interesse collettivo, cioè l’uso razionale del suolo.

Nell’AMB, ed in particolare nell’area costiera del Maresme, quando il suolo periurbano viene classificato come SNU, cioè non edificabile, ci troviamo spesso di fronte ad aree considerate agricole periurbane in cui però le serre ed i capannoni rendono il paesaggio molto più simile ad una zona industriale che non ad un campo coltivato. E’ per questo che Abadia e Megrinyà sostengono che non sia possibile definire il fenomeno periurbano soltanto in base ai parametri tradizionali di ambito geografico, classe di suolo e tipo di attività. E’ necessario considerare i fattori estrinseci, che sono quelli che generano dispersione e determinano una maggiore complessità territoriale. Spesso, inoltre, la maggior parte delle attività periurbane risponde ad un’ottica puramente municipale e sfugge ad una visione di ordinamento territoriale d’insieme.

I due esempi che seguono, legati a due aree agricole periurbane dell’Area Metropolitana di Barcellona, servono per illustrare le differenti scelte urbanistiche adottate, i piani redatti e gli strumenti di gestione utilizzati, sulla base di due modelli territoriali differenti.

ACTUR Santa Maria de Gallecs: la soluzione urbanistica ad un conflitto territoriale durato 35 anni

Lo spazio agricolo di Gallecs si trova nell’area metropolitana di Barcellona, nel cosiddetto Vallès Oriental, ad una ventina di chilometri dal centro di Barcellona. Si tratta di un’area fortemente urbanizzata, con un’elevata concentrazione di attività industriali, dove gli spazi agrari residuali vengono destinati all’agricoltura non irrigata, prevalentemente cerealicola.

Gallecs occupa una superficie di 733 ettari e attualmente la principale attività che si svolge (e che corrisponde al 75% dell’area) è quella agricola, con una progressiva sostituzione delle colture tradizionali con coltivazioni di tipo biologico. Dal punto di vista amministrativo, Gallecs appartiene a differenti Comuni del Vallès Oriental e la sua definizione di spazio agricolo è il risultato di un conflitto territoriale durato 35 anni.

L’instabilità urbanistica di Gallecs inizia negli anni ’70 quando - il 27 giugno del 1970 - Franco firma il Decreto Ley 7/1970, sobre Actuaciones Urbanísticas Urgentes en Madrid y Barcelona (ACTUR) e con il successivo Decreto 3543/1970 si delimita l’ACTUR di Santa Maria de Gallecs: un’area di 1.471 ettari sulla quale è prevista la realizzazione di una nuova città per 132.000 abitanti. L’area comprende sette comuni, tra i quali Mollet del Vallès, dove si trova più del 40% dei terreni interessati dagli espropri. Nel 1973, per ragioni politiche e in seguito alla crisi petrolifera, il Ministerio de la Vivienda blocca il progetto di espropriazione dei terreni dell’ACTUR e, nel 1980, la proprietà dell’area passa alla Generalitat de Catalunya, che li assegna all’INCASSO.

Quest’ultimo, nel 1982, rinuncia definitivamente all’idea di macro-città ed inizia una fase di accordi bilaterali con i Comuni interessati. 
Il primo passo verso la tutela dello spazio agricolo periurbano di Gallecs avviene proprio nel 1982, quando si approva il POUM di Mollet del Vallès, giungendo ad un accordo con l’INCASOL per potervi includere i terreni siti a sud dell’autostrada AP-7. Per la zona a nord, invece, permane la classificazione di suolo urbanizzabile, secondo le prescrizioni dell’ACTUR del 1970.
Nel 1998 il Comune di Mollet del Vallès inizia una fase di revisione del POUM e decide di declassare i terreni di Gallecs da suoli edificabili a non edificabili di speciale protezione. Il DPTOP non autorizza la modifica e il Comune di Mollet del Vallès inizia un ricorso amministrativo, che si concluderà solamente il 20 ottobre del 2004, con un accordo tra la Generalitat de Catalunya e i Comuni interessati alla tutela definitiva dello spazio agricolo periurbano di Gallecs.

La soluzione urbanistica adottata consiste nella sovrapposizione di tre strumenti di pianificazione, il Pla Director Urbanístic (PDU), il Pla d’Ordenació Urbanística Municipal (POUM) e il Pla d’Espais d’Interes Natural (PEIN):

- al PDU spetta il compito di coordinare la pianificazione urbanistica dei sette comuni inclusi nell’ACTUR e il suo compito principale è quello di garantire la tutela dello spazio agricolo centrale di Gallecs (753 ettari, pari al 51% dell’ACTUR). Il PDU stabilisce che lo spazio centrale di Gallecs deve essere qualificato come Sistema d’espais lliures públic e prevede la formazione di un Consorzio, nuovo proprietario dei terreni ed ente responsabile della gestione.

- contemporaneamente, lo spazio agricolo di Gallecs viene inserito nel Pla d’Espais Naturals (PEIN): si tratta di uno strumento di pianificazione territoriale, incluso nella categoria dei Plas Territorials Sectorials che, in quanto tale, ha come ambito d’azione l’intero territorio della Catalogna e regola un solo settore di pianificazione (in questo caso gli spazi naturali).

- il POUM di Mollet del Vallès è il terzo strumento che conferma la classificazione di SNU di Gallecs. Nel rispetto dell’allora vigente Legge Urbanistica, deve indicare le misure necessarie per la tutela “del medi ambient, conservació de la natura i defensa del paisatge i dels elements naturals” e, pertanto, viene dimostrata la legalità del cambio di classificazione del suolo per poter adeguare la normativa urbanistica comunale di Mollet con la condizione fisica di Gallecs. Inoltre, l’allora in vigore Legge del Suolo stabilisce “la necessitat de classificar com a sòl no urbanitzable tots aquells terrenys que el planejament general consideri necessari protegir pel seus valors agrícoles, forestals, ramaders o per les seves riqueses naturals”.

Con l’approvazione definitiva del POUM di Mollet del Vallès (sulla base dei vincoli stabiliti dal PDU e in rispetto del PEIN), viene sancita la volontà politica di investire su un modello di città compatta, metà urbana e metà rurale, dove lo spazio agricolo di Gallecs rappresenta il grande “sistema di spazi liberi pubblici”, con valenza di spazio agricolo di speciale protezione.

E’ importante sottolineare come la conservazione degli spazi naturali sia l’elemento rettore di Gallecs in tutti e tre gli strumenti di pianificazione. Lo spazio agricolo periurbano si trasforma, dunque, in un’area protetta, destinata all’agricoltura biologica di prossimità, importante polmone verde per tutta l’Area Metropolitana di Barcellona. Diventa un punto di riferimento per tutte quelle attività legate all’educazione ambientale e centro sperimentale di formazione, ma dove la produttività agricola passa in secondo piano e diventa un fattore complementare. La scelta di proteggerlo come spazio di protezione ambientale implica notevoli difficoltà per gli agricoltori, perché le condizioni di tutela imposte dal PEIN sono particolarmente restrittive e condizionano l’attività agricola.

Parc Agrari del Baix Llobregat: produzione agricola di prossimità nell’AMB

A differenza di Gallecs, il Parc Agrari del Baix Llobregat costituisce un modello di gestione del periurbano basato sulla produzione agricola e la competitività di un settore che spesso e volentieri viene espulso dalle grandi aree metropolitane. Basti pensare che tra il 1955 e il 2004, la superficie agricola dell’AMB si è ridotta del 61% e, prima del 2000, il Baix Llobregat aveva già perso il 60% delle sue terre coltivabili e la comarca del Barcelonès il 90%.

Il Parc Agrari del Baix Llobregat corrisponde ad una zona orticola pianeggiante, fatta di ritagli e di frammenti agricoli siti in prossimità dell’aeroporto de El Prat. Si tratta di un’area soggetta da sempre ad una fortissima pressione urbana e zona di riserva per le infrastrutture metropolitane, dove, malgrado ciò, la produttività agricola è alta e corrisponde addirittura al 3% del PIL della Catalogna.

Fin dagli anni ’70, con l’approvazione del Pla General Metropolità di Barcellona nel 1976, l’organizzazione dei contadini inizia una forte campagna di sensibilizzazione per proteggere le aree agricole della piana del Baix Llobregat dall’espansione urbana, terre considerate tra le più fertili e produttive della Catalogna. E’ però negli anni ’90 che viene sancita la tutela dell’area che oggi corrisponde al parco agrario, con il progetto Anella Verda della Diputació de Barcelona. Il progetto intende creare una corona di spazi di speciale protezione ambientale nell’AMB e costituisce la Xarxa de Parcs Naturals. Nel 1996 il progetto Life dell’Unione Europea finanzia una ricerca sugli spazi agricoli periurbani nell’AMB e la presentazione al concorso è funzionale alla creazione del Consorci del Parc Agrari del Baix Llobregat, che si costituisce formalmente nel 1998. Fanno parte del Consorzio la Diputació de Barcelona, il Consell Comarcal, i quattordici Comuni coinvolti e la Unió de Pagessos, cioè i rappresentanti del settore agrario locale.

Nel 2002 viene redatto il Pla de Gestió i Desenvolupament del Parc (PGD) e, nel 2004, si approva il Pla Especial de protecció i millora del Parc Agrari del Baix Llobregat (PE). Il Consorci è l’ente gestore del Parco che, dotato di iniziativa, di risorse - umane ed economiche - e di competenze, promuove lo sviluppo economico delle aziende agrarie e il mantenimento e il miglioramento della qualità ambientale del Parco, partendo da una gestione integrale dello spazio agrario, divisa in quattro ambiti: produzione, commercializzazione, risorse e ambiente. Il Pla Especial, come figura urbanistica, delimita l’ambito territoriale del Parco Agrario, ne regola l’utilizzo e ne definisce le infrastrutture generali, mentre il Pla de Gestió i Desenvolupament stabilisce le linee strategiche, gli obiettivi specifici e le misure di intervento per i diversi ambiti di gestione dell’ente, basandosi sull’obiettivo generale del parco e sull’accordo tra i membri dell’ente. Il PE e il PGD hanno lo stesso scenario – il Parco Agrario – nonostante presentino alcune caratteristiche diverse in base alle loro finalità e al loro ambito di competenza. Il primo ha finalità urbanistiche e territoriali e le sue proposte sono “normative” per legge, mentre il secondo ha finalità di gestione, le sue proposte sono “indicative” e diventano “normative” esclusivamente entro i limiti stabiliti dalla volontà dei membri.

L’obiettivo generale del Pla Especial è il mantenimento dello spazio agricolo della bassa valle e del delta del Llobregat come elemento di equilibrio del territorio metropolitano. Alla base del PE vi è il mantenimento della maggior estensione possibile di suolo agricolo, attribuendogli un proprio modello strutturale. Tra gli obiettivi specifici, troviamo il raggiungimento di una produzione agraria competitiva e di qualità, la tutela degli spazi naturali e del patrimonio culturale e paesaggistico. Il PE introduce i cosiddetti Plans Rectors de Desenvolupament (PRD) che costituiscono i progetti tematici di ordinamento e determinano le misure di tipo urbanistico, produttivo, ambientale e paesaggistico. I PRD vengono redatti ed approvati dal Consorci.

La figura del Parc Agrari e gli strumenti di gestione ad esso collegati (Pla de Gestió e Pla Especial de Protecció) sono stati fondamentali per poter tutelare i suoli agricoli del Parco contenendo l’espansione urbana e per far sì che l’agricoltura sia la protagonista indiscussa della zona. E’ importante ricordare che, a differenza della soluzione adottata per lo spazio agricolo di Gallecs (in cui l’obiettivo chiave è la tutela ambientale), nel caso del Parc Agrari del Baix Llobregat l’adozione del PE è funzionale ad una logica prevalentemente produttiva, orientata al mantenimento e miglioramento della produzione agricola locale.

In definitiva, lo scopo del Parco Agrario del Baix Llobregat è consolidare la presenza degli agricoltori sul territorio e rendere possibile il mantenimento di spazi agrari periurbani attivi. E’ necessario inoltre conoscere, condividere le esperienze e partecipare a tutte quelle azioni a livello europeo il cui obiettivo comune sia la difesa, regolamentazione, gestione e sviluppo degli spazi agrari periurbani. Il futuro del Parco Agrario, situato in un territorio soggetto ad una costante pressione urbanistica, dipende dalle azioni volte alla sua preservazione che si sviluppano al suo interno; ma anche dalla loro diffusione esterna, perché possa formar parte di un movimento europeo dell’agricoltura periurbana, senza rimanere un semplice caso isolato.

Conclusioni

La gestione del fenomeno periurbano è un tema appassionante ed estremamente attuale. Le aree periurbane, prive di caratteristiche fisiche specifiche, si definiscono a partire da una serie di fattori condizionanti (accessibilità, prezzo del suolo, etc.) che le espongono costantemente alla pressione urbanistica e le rendono appetibili per l’instaurarsi di tutte quelle attività che la città consolidata rifiuta. Il mancato coordinamento tra pianificazione urbanistica e territoriale ha determinato una nuova forma di organizzazione spaziale, estremamente vulnerabile e precaria. La sovrapposizione degli interessi territoriali dei singoli comuni, senza uno schema direttivo di ambito superiore, si materializza in un’innumerevole quantità di aree, favorendo lo sprawl urbano.

La “linea rossa” che separa città e campagna non è più assimilabile ad un limite definito, bensì ad una frangia di contatto tra due ecosistemi differenti, un’area con caratteristiche ibride che funziona da elemento regolatore. Si tratta di spazi di mediazione e di transizione, sui quali si genera un forte impatto ambientale e che accolgono funzioni strategiche per la città (approvvigionamento idrico, alimentare, trattamento dei rifiuti, etc.). E’ importante essere consapevoli di questo nel momento in cui si realizzano le scelte di piano. Come dimostra l'esempio di Gallecs, per sottrarre queste aree alla progressiva espansione della città e all'espulsione di funzioni urbane, non è sufficiente considerarle come zone di protezione ambientale, bensì è vitale dar loro una funzione produttiva, in questo caso agricola.

Gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica devono essere accompagnati da un’attenta fase di gestione, che includa progetti, attività e finanziamenti, soprattutto nelle aree ad economia più debole (come nel caso dell’agricoltura biologica). La storia de Baix di Llobregat indica una possibile strada da percorrere: smetterla di pensare al concetto di gestione associandolo necessariamente a quello di gestione urbanistica e provare a coordinare le politiche agrarie con la pianificazione urbanistica, pensando all’interesse collettivo dominante, cioè l’uso razionale del suolo.

Qui di seguito è scaricabile il testo impaginato con le note bibliografiche

Il modello di crescita milanese sta progressivamente scardinando il sistema verde di corona che verrà sostituito da un anello stradale, più funzionale al rilancio della “grande economia lombarda”

Le politiche infrastrutturali in atto nella regione urbana milanese stanno progressivamente portando il limite della città dall’anello verde, la greenbelt metropolitana istituita a questo scopo negli anni ’70 e ’80, verso un nuovo confine, che sarà rappresentato dal nuovo sistema di tangenziali, una nuova cintura nera appunto. Nelle sedi decisionali lombarde i temi infrastrutturali prevalgono così su una più complessiva gestione del territorio ed emerge una drammatica assenza dell’urbanistica nei dibattiti che hanno affrontato questi temi. Le scelte infrastrutturali sembrano essere le uniche in grado di rilanciare lo sviluppo e l’economia nascondendo però, come effetto tutt’altro che secondario, anzi forse cercato, quello di favorire interessi privatistici e spinte speculative. Attualmente la regione urbana milanese conta circa 3.500.000 abitanti, per un’estensione territoriale di circa 1.800 kmq che ospita, giornalmente, un transito di oltre 900.000 veicoli.

Milano ha un assetto urbano radiocentrico, con tre anelli di circonvallazioni e una serie di assi radiali sui quali vengono convogliati i flussi di traffico in entrata e in uscita dalla città. Questa struttura, nel corso del tempo, ha contribuito al radicarsi di alcune criticità quali l’accentramento di funzioni di qualità all’interno dei confini municipali e il traffico crescente dato dagli spostamenti periferia-centro che, oltre a creare congestione, hanno pesanti ripercussioni in termini di inquinamento atmosferico ed acustico. Alcune di queste questioni erano già state affrontate durante la prima esperienza di pianificazione intercomunale del milanese, che risale alla fine degli anni ’60. Gli studi elaborati in merito dal PIM prevedevano la formazione di una corona di verde metropolitano, una greenbelt, che aveva lo scopo di aumentare la dotazione ambientale della regione e di limitare la dispersione insediativa, fenomeno iniziato nell’hinterland con il processo di industrializzazione e le conseguenti migrazioni del Dopoguerra, che avevano fatto crescere le periferie. La cintura verde di scala metropolitana ha preso progressivamente forma nei successivi piani territoriali comprensoriali degli anni ’80 e nelle due leggi regionali con le quali sono stati istituiti i parchi regionali e di cintura, che sono soggetti a una disciplina improntata alla tutela e alla valorizzazione.

A distanza di qualche decennio però le politiche territoriali e amministrative perseguite non hanno saputo rispondere in modo adeguato alle nuove questioni emerse in campo economico e sociale, contribuendo a generare nuove criticità:

- Degrado del sistema ambientale. Ampie aree non edificate, in ambito urbano e periurbano, sono abbandonate e trascurate, hanno una scarsa qualità ambientale e appaiono come delle “no-man’s land”, delle terre di nessuno che, senza previsione di valorizzazione e/o riutilizzo, sembrano solo attendere l’ennesima operazione immobiliare;

- Sfaldamento del tessuto produttivo. I processi di dismissione e delocalizzazione industriale, che hanno interessato Milano e il suo hinterland a partire dagli anni ’70, hanno lasciato in eredità ampi recinti industriali che, in assenza di politiche di recupero e riqualificazione, appaiono in stato di degrado e abbandono;

- I diversi livelli di governance locale hanno molte difficoltà a elaborare piani coerenti e politiche unitarie, rivelando una difficoltà di comunicazione che si tramuta in un continuo tentativo di scaricare ad altri competenze e responsabilità;

- Il modello insediativo per isole monofunzionali è diventato l’elemento base del processo di dispersione e crescita suburbana dell’hinterland,con quanto ne consegue in termini di segregazione spaziale e sociale, ma anche di sperpero di risorse quali il territorio;

- Assenza di una visione strategica capace di guidare un processo con un obiettivo di sviluppo e non unicamente di crescita. Percorso non certamente favorito dall’impianto normativo vigente in Lombardia, sempre più imperniato sull’urbanistica contrattata e negoziata;

- Dipendenza dall’automobile. Il sistema attuale dei trasporti pubblici milanese appare all’incirca lo stesso di quello degli anni ’70, non sono stati realizzati nuovi progetti per aumentare le linee delle metropolitane o i tram, solo il progetto Passante, a oltre 40 anni dalla sua elaborazione, è stato attivato lo scorso anno, peraltro con molte contraddizioni. Questo spinge molti pendolari a ricorrere all’auto privata per accedere e per spostarsi in città.

L’attuale assetto stradale risente ancora oggi dell’impianto urbano radiocentrico, orientato verso il centro, che penalizza le potenziali connessioni trasversali tra i poli di maggiore importanza. Questo anello di tangenziali (Est, Ovest e Nord) delimita, sempre più a stento, il sistema insediativo dell’area milanese che appare sempre più congestionata ed ingolfata dal transito dei 900.000 veicoli giornalieri.Mettendo in relazione l’attuale assetto infrastrutturale con i dati sulla densità insediativa si può rilevare come l’espansione dell’area metropolitana abbia raggiunto l’anello delle tangenziali grazie a un processo espansivo della metropoli che ha generato una “crescita senza qualità”, la cui forma fisica forse più rappresentativa è la successione interminabile di capannoni sull’autostrada A4, Milano-Bergamo. Di fronte a questi processi incontrollati di espansione urbana, che hanno progressivamente aumentato la congestione della regione metropolitana, non sono stati elaborati modelli di sviluppo territoriale; piuttosto si è optato per delle scelte infrastrutturali che, seppure compaiono unitariamente in qualche studio commissionato dalla Regione Lombardia più di 20 anni fa, sono oggetto di annunci frammentati, nei quali si cerca di persuadere l’opinione pubblica che la realizzazione di una tangenziale esterna risolverà il problema del traffico e rilancerà la “grande economia lombarda”.

Il primo progetto, in ordine cronologico, è quello per la realizzazione della Pedemontana, seguita dall’autostrada Bre.Be.Mi., dalla nuova tangenziale Est Esterna e infine dalla nuova Tangenziale Ovest Esterna. Questa che abbiamo chiamato la “cintura nera” di Milano si chiude sulla Statale 336, già realizzata e in uso da qualche anno quale opera di collegamento all’aeroporto di Malpensa.

Il progetto della Pedemontana prende forma, dopo discussioni durate 50 anni, all’inizio degli anni 2000. Per la sua realizzazione la Regione Lombardia ha dovuto richiedere una deroga al blocco statale per l’apertura di nuove autostrade, ottenuta a metà degli anni ’80. Da qui prende forma la nuova società Autostrada Pedemontana Lombarda S.p.A. con il compito di gestire l’opera che, nel 2003, viene inserita nelle procedure della Legge Obiettivo. Il lavoro di progettazione si conclude nel 2009 con l’approvazione del CIPE e all’inizio del 2010 aprono i primi cantieri in provincia di Varese.L’obiettivo della Pedemontana è quello di decongestionare il traffico stradale a nord di Milano tramite la realizzazione di 90 Km di autostrada e 70 Km di nuova viabilità provinciale e comunale connessa: oltre 160 km di strade che collegheranno Bergamo, Monza e Brianza, Milano, Como e Varese entro il 2015.

Il Progetto Brebemi alla fine degli anni '90 per collegare in modo più efficiente e veloce (tanto che è chiamata la Direttissima) le città di Milano, Bergamo e Brescia, in quanto si ritiene l’esistente autostrada A4 non più sufficiente. Nella fase di progettazione vengono coinvolti diversi attori: le Camere di Commercio, le Province e le Associazioni Industriali di Brescia, Bergamo, Cremona e Milano, insieme a Banca Intesa, che costituiscono la società Brebemi S.p.A., a cui hanno poi aderito i maggiori concessionari lombardi ed enti locali interessati. La nuova Società ha promosso l'attuazione dell'opera redigendo e presentando all'ANAS il progetto dell'autostrada in totale autofinanziamento, secondo la formula del project financing. In un annuncio per la stampa si legge che: “La realizzazione della Brebemi è innovativa anche sotto il profilo finanziario. Si tratta della prima infrastruttura stradale ed autostradale italiana realizzata in completo autofinanziamento senza oneri per i contribuenti e lo Stato. Tutte le risorse necessarie per la realizzazione del progetto saranno ottenute attraverso il ricorso al finanziamento bancario ed ai mezzi finanziari messi a disposizione dai Soci. L'investimento pertanto verrà ripagato esclusivamente attraverso i ricavi dei pedaggi.” (operazioni finanziarie successive evidenziano una diversa realtà, come il coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti). Il progetto definitivo, approvato dal CIPE nel giugno 2009, consente di avviare i lavori nei mesi successivi in quanto la sua entrata in esercizio è prevista per il 2013.

Il progetto per una nuova arteria autostradale che raccordi i flussi veicolari provenienti dall’autostrada A4 (Milano-Venezia) e dalla nuova Direttissima Bre.Be.Mi. con l’autostrada A1 (Milano-Bologna) risale all’anno 2003 e fu presentato dalla giunta provinciale presieduta da Ombretta Colli, che già aveva fortissimamente voluto Bre.Be.Mi. In questo caso però, a partire dal processo di progettazione, c’è da rilevare un’importante variante: la nascita dell’Associazione dei Comuni per la mobilità, composta dai Sindaci di quei comuni interessati dal tracciato, che ha obbligato la nuova Giunta Provinciale di Penati, appena insediata, a ragionare insieme sulle sorti della nuova infrastruttura. Incontri e mediazioni che hanno consentito di raggiungere un’intesa, apportando alcune integrazioni al progetto presentato. Le richieste dei Comuni avevano l’obiettivo di promuovere un modello di sviluppo territoriale condiviso, basato su un sistema di mobilità pubblico/privata integrato e sostenibile e sulla gestione di un modello insediativo non più esclusivamente legato alla crescita e alla diffusione urbana. Il lavoro delle amministrazioni del territorio ha portato alla sottoscrizione dell’Accordo di programma (2007), dal titolo: “la realizzazione della tangenziale est esterna e il potenziamento del sistema di mobilità dell’est milanese e del nord lodigiano” che comprende, (o meglio, comprendeva), oltre al progetto della nuova tangenziale, importanti opere di riqualificazione e di integrazione delle strade esistenti oltre al potenziamento delle reti di trasporto pubblico su gomma e su ferro.

Nel frattempo è stata fondata la società Tangenziale Esterna spa, creata ad hoc per questa infrastruttura, che ricorrerà allo strumento del project financing per l’esecuzione del progetto, cioè si accollerà il costo della tangenziale e delle opere di riqualificazione sulle strade esistenti a fronte della concessione autostradale per i prossimi 50 anni, mentre i costi per il trasporto pubblico sono in capo alle amministrazioni pubbliche. La sgradita sorpresa è giunta con la presentazione del progetto definitivo, nello scorso mese di febbraio, che abbandona molte delle condizioni presenti nell’Accordo di Programma sottoscritto nel 2007. Nell’evoluzione del progetto, infatti, i costi dell’opera sono aumentati di circa 300 milioni di euro, cifra che impone alla società di effettuare dei tagli per rientrare nel proprio piano finanziario e, ovviamente, le opere a rischio sono proprio quelle per l’integrazione del sistema di mobilità, senza le quali un nuovo ramo di tangenziale genererà la saturazione delle strade esistenti. Ad aggravare questo scenario si aggiungono i tagli di quei fondi statali che avrebbero dovuto finanziare i prolungamenti di alcune linee della metropolitana.

Le principali criticità del mancato rispetto dell’Accordo di Programma della TEEM servono per comprendere alcune ricadute negative indotte da tutte le precedenti scelte infrastrutturali, che si possono sintetizzare in:

- mancata elaborazione di un sistema di mobilità coerente ed integrato, di primaria importanza per rispondere alle differenti e rilevanti esigenze infrastrutturali dell’intero comparto territoriale;

- le scelte localizzative de tracciati sono in forte contrasto con la vocazione agricola dei territori attraversati, che verrà fortemente compromessa. In un territorio dotato di un tessuto agricolo ancora attivo, l’inserimento del tracciato della nuova autostrada determinerà una forte frammentazione dei fondi coltivati, con conseguenti problemi di discontinuità delle aziende agricole, che quindi subiranno ingenti danni. E ancora, la localizzazione di molte delle cave estrattive, che saranno al servizio dei nuovi cantieri, sembra non considerare adeguatamente il precario e delicato equilibrio di questo territorio, nel quale la presenza di numerosi fontanili e di un livello di falda piuttosto superficiale possono causare seri problemi al suo assetto idrogeologico;

- in assenza di strumenti e di organi sovra locali con specifiche competenze di pianificazione sarà impossibile prevedere uno sviluppo territoriale complessivo da attuare attraverso il coordinamento e la programmazione delle scelte urbanistiche dei singoli enti locali. Strumenti di concertazione e negoziazione sperimentale, come ad esempio i sistemi di compensazione e perequazione territoriale, che potrebbero promuovere un modello di sviluppo sostenibile ispirato ad un sistema insediativo capace di andare oltre la logica della crescita, non possono essere demandati esclusivamente al livello di governo locale. Nuove politiche localizzative dettate da maggiori livelli di accessibilità, garantiti dal nuovo assetto infrastrutturale, dovrebbero essere compensate con altrettante azioni di salvaguardia ambientale e di tutela del territorio, al fine di minimizzare il consumo di suolo diffuso e generalizzato, dettato da interessi esclusivamente finanziari, che non trovano giustificazione nelle valutazioni relative ai fabbisogni abitativi.

L’Associazione dei Comuni nata con il progetto TEEM è nel frattempo naufragata, a causa dei numerosi cambi di Amministrazioni in molti dei Comuni coinvolti, che hanno agevolato la scelta della società concessionaria di trattare con le singole Amministrazioni Comunali anziché interfacciarsi con l’Associazione firmataria dell’Accordo di Programma. Molte Amministrazioni Locali, seppur per motivazioni diverse, chi per ragioni di appartenenza politica e chi per dare un po’ di sollievo ai propri bilanci comunali, hanno accettato le offerte economiche proposte dalla società a titolo di risarcimento per la mancata realizzazione delle opere di compensazione in precedenza concordate. In questo modo gli interessi di una classe di amministratori miopi e orientati a politiche fortemente localistiche stanno soffocando quella che si era dimostrata una valida e propositiva iniziativa di coordinamento istituzionale volontario.

Ed infine, per completare la cintura metropolitana, nella proposta di adeguamento del PTCP della Provincia di Milano, presentata nei primi mesi del 2011, mentre ancora si discuteva dei tagli per la realizzazione della TEEM, ecco l’annuncio per la nuova Tangenziale Ovest Esterna: l’ennesimo progetto stradale calato dall’alto, realizzato senza il coinvolgimento delle comunità locali né dei suoi rappresentanti, che attraverserà un territorio pregiato di forte valenza agricola. La nuova infrastruttura stradale attraverserà il Parco Agricolo Sud Milano e collegherà Melegnano a Magenta, completando così la “cintura nera” metropolitana. Qui, ancora di più che negli altri ambiti della regione, è evidente il forte impatto che la nuova tangenziale avrà sul sistema ambientale e paesaggistico esistente.

Pedemontana + Bre.Be.Mi e Tangenziale Est esterna + Tangenziale Ovest Esterna + l’esistente SS 336 tracciano il nuovo "anello" esterno di tangenziali, con un diametro medio di 45/50 chilometri circa (una cosa tipo l'anello autostradale che circonda Londra).

Questo nuovo anello stradale, che abbiamo chiamato “cintura nera”, sconfigge nettamente l’dea di greenbelt metropolitana elaborata negli anni e delimiterà i nuovi confini metropolitani di Milano. E’ facile prevedere, in assenza di politiche territoriali di scala vasta, uno “scenario tendenziale” per questo territorio composto da due differenti fenomeni: un processo di densificazione privo però di indirizzi e di funzioni qualificanti per il margine interno della cintura stradale e un processo di sprawl diffuso e massacrante (peraltro già in atto) nel margine esterno, che vede una diffusione soprattutto di capannoni e strutture per la logistica.

Sono molte le esperienze nazionali e internazionali che testimoniano come l’anello stradale sia un presupposto, quasi una pre-condizione, del processo di crescita e dispersione urbana difficilmente governabile e controllabile. Questo appare ancora più evidente per un territorio, come quello dell’hinterland milanese, dove il governo del territorio si traduce quasi unicamente in valorizzazione fondiaria del suolo, dimenticando che la pianificazione urbanistica non è data dalla somma algebrica di operazioni immobiliari e i problemi della città non si risolvono aumentando le capacità edificatorie dei piani e neppure realizzando nuove superstrade che innescano perversi meccanismi speculativi dettati da un aumento della rendita di terreni a vocazione agricola che progressivamente vengono resi edificabili. Se esistesse un livello di governance sovra-locale si potrebbe pensare a un’accorta strategia di “perequazione territoriale” che guiderebbe un processo di densificazione supportato però da logiche localizzative per alcune funzioni di qualità da “strappare” a Milano città e dalla valorizzazione delle funzioni agricole e delle risorse ambientali che si stanno perdendo.

L’unico livello istituzionale esistente in grado di poter affrontare e supportare un tale indirizzo strategico è quello provinciale ma, nel caso di Milano, la Provincia, guidata da Podestà, non sembra per nulla interessata ad assumersi tale ruolo. Anzi, nei documenti elaborati in preparazione dell’adeguamento del PTCP vigente, viene rimarcata la necessità di potenziare il sistema infrastrutturale che, così com’è, è un limite allo sviluppo dell’economia milanese, per il rilancio della quale si propone il tracciato TOEM, l’ultimo arco che mancava per chiudere il cerchio. Nonostante, sempre nei documenti si legga: “Il PTCP non esprime una propria visione infrastrutturale ma si limita ad un ruolo di registrazione delle previsioni.” Nel PTCP, a fronte del nuovo assetto infrastrutturale, non viene citata alcuna strategia volta a decongestionare l’area urbana di Milano e indirizzare uno sviluppo qualificante dell’hinterland.

Ed ecco che la gestione del territorio rimane in capo alle Amministrazioni Comunali e ai loro Piani di Governo del Territorio che, per quanto virtuosi, sono inadeguati per affrontare processi sovralocali di ordine economico oltre che sociale, che travalicano i tradizionali confini amministrativi. Questo approccio, strettamente localistico e miope, non solo porta alla frammentarietà territoriale ma risulta anche non idoneo per formulare una visione del futuro all’altezza delle sfide a cui questa città è chiamata a rispondere.Del resto non si può che prendere atto dei forti limiti che hanno condizionato negativamente l’esito delle esperienze di pianificazione intercomunale avvenute nella regione milanese, che, seppure per motivi diversi, sono fallite. È sempre più urgente ragionare in termini di “territori”, (ad es. le Unioni dei Comuni) a cui corrispondano dei livelli di governo istituzionale riconosciuti, con compiti di governo del territorio che vadano dalla pianificazione territoriale alla gestione dei servizi pubblici.

Solo in questo modo si può istaurare un dialogo potenzialmente virtuoso tra politiche territoriali e scelte infrastrutturali che, insieme, possono portare all’elaborazione di scenari di sviluppo per il futuro.

Un esperienza che presenta un maggiore livello di conoscenza e approfondimento proprio sul tema del limite dell’area urbana, che per noi può essere considerata una good practice, è quelladella regione di Portland, in Oregon, dove lo spostamento del margine dell’urbanizzato è un’occasione per attivare un processo di partecipazione e di discussione sul futuro della regione metropolitana. In Oregon la normativa vigente prevede che il Consiglio metropolitano verifichi, ogni 5 anni, l’espansione della regione urbanizzata, in relazione alle previsioni di popolazione e attività produttive previste nell’arco temporale dei 20 anni. L’ultimo report, che risale al dicembre 2009, evidenzia come gli attuali confini siano sufficienti per contenere le previsioni fino al 2011, dopodiché occorrerà ampliarsi, urbanizzando le “aree di riserva urbana”.Da qui ha inizio un dibattito, che coinvolge istituzioni e cittadini, nel quale il “dove e come” spostare la linea di confine si tramuta in una riflessione sullo sviluppo territoriale e sociale dell’intera regione.

Nel 2010 l’ente che rappresenta l’area metropolitana di Portland elabora un rapporto, che, già dal titolo, “costruire una sostenibile, prospera ed equa regione”, propone un innovativo approccio integrato alle questioni di governo del territorio: investimento di risorse pubbliche, politiche per il lavoro e per l’accesso alla casa, indirizzi di tutela per le risorse agricole e valorizzazioni di quelle forestali sono solo alcuni dei temi affrontati. Il rapporto contiene, inoltre, differenti proposte su quali aree di riserva urbanizzare analizzando, per ogni alternativa, le relative conseguenze e ricadute. Anche le diverse amministrazioni hanno elaborato osservazioni e proposte al riguardo, che contribuiscono a definire i contenuti dei provvedimenti conclusivi. Tra il 2010 e il 2011 il Consiglio metropolitano approva due provvedimenti che si orientano verso politiche di riuso dell’esistente e verso potenziamento dei poli già consolidati, all’interno quindi del limite urbano esistente,almeno per quanto possibile.

Nell’agosto del 2011 è infine approvato dall’Agenzia per lo sviluppo e la tutela del territorio dell’Oregon il provvedimento con il quale il Consiglio Metropolitano aumenta la dotazione di aree di riserva urbana e rurali: sono previsti 13.500 acri per le future espansioni urbane in prossimità al tessuto esistente e oltre 151.000 acri di riserva rurale attorno a tutta la regione. Come è possibile vedere dalla mappa, le aree per i nuovi insediamenti non snaturano la forma compatta dell’urbanizzato, incentivando così politiche di riqualificazione e investimento per aumentare la qualità degli ambiti urbani esistenti.

Appare evidente che le differenze tra i contesti di Portland e di Milano sono molto forti, ma altrettanto evidente appare il diverso approccio ai temi della pianificazione, e in particolare alla capacità di saper progettare il proprio futuro.Nell’area milanese l’esistente cintura verde è interpretata come un “terreno di conquista” da sacrificare per accontentare qualche interesse forte, di tipo strettamente speculativo. Il nuovo anello di autostrade non solo comprometterà la dotazione ambientale esistente ma innescherà processi di crescita immobiliare slegati dai reali fabbisogni abitativi e produttivi, che saranno difficilmente governabili ma che contribuiranno a consolidare pratiche di sfruttamento e sperpero delle risorse territoriale ed ambientali, che genereranno degrado nel contesto milanese. A Portland invece si riconosce il ruolo fondamentale della corona verde metropolitana per migliorare la qualità della vita dell’intera comunità insediata. Il tema dell’ampliamento della città è un’occasione di partecipazione e di collaborazione interistituzionale, un esercizio di progettazione per la “città del futuro” che coinvolge differenti settori e smuove risorse plurali. In Italia, e a Milano in particolare, dove le questioni territoriali sono affrontate in modo settario e frammentato e dove molto spesso l’urbanistica è utilizzata solo in chiave infrastrutturale ed ambientale, è quanto mai urgente ricomporre un fronte istituzionale in grado di elaborare uno scenario di sviluppo di scala metropolitana, all’interno del quale selezionare i necessari supporti infrastrutturali e le idonee compensazioni ambientali per la sua attuazione.

In calce una nota e il link al testo scaricabile, con la formattazione completa

1. Premessa. Il potere delle parole



Come nelle precedenti edizioni, apriamo i lavori della scuola con una riflessione su parole che toccano da vicino la città nel tentativo di comprendere la loro ambiguità e il loro uso da parte dell’ideologia dominante, ma anche la loro potenzialità ai fini della rinascita di un pensiero critico e della loro utilizzazione come strumento di resistenza e di costruzione di pratiche contro-egemoniche.

L’interesse per le parole, la necessità di chiarirne significati, interpretazioni, slittamenti e la strumentalità che spesso ne caratterizza l’impiego, hanno caratterizzato la scuola di eddyburg fin dal suo inizio. La convinzione della centralità del loro ruolo e della necessità di rivelarne i significati e svelarne le ambiguità si è consolidata nel tempo. Man mano, ci siamo accorti come gran parte delle malefatte che avvenivano nel territorio e nella società derivavano da un pensiero comune finalizzato alla diffusione di un’ideologia perversa che orientava gli avvenimenti e foggiava gli strumenti necessari per la trasformazione della realtà.

Questa prima giornata ha un duplice obiettivo.

Primo. A partire dall’analisi delle parole e dei discorsi, vogliamo fornire alcuni strumenti critici per comprendere meglio gli avvenimenti e i fenomeni urbani e territoriali di questi ultimi decenni che saranno illustrati nella II e III giornata della scuola. Dopo parole come benessere, vivibilità, povertà, competizione , spazio pubblico , potere , che abbiamo affrontato nelle passate edizioni della scuola, eccoci ad affrontare la parola che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre sessant’anni il concetto di “sviluppo” come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) non solo ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo, ma ha colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di crescere, di essere approfondite e discusse. Attraverso l’analisi critica alla parola “sviluppo” sosterremo la tesi che questo concetto è inadeguato sia a comprendere i fenomeni che a dare risposta ai bisogni e alle questioni che il genere umano esprime in questa fase della sua storia.

Secondo obiettivo. Vogliamo alimentare la discussione intorno a paradigmi alternativi che esprimono un’idea di società diverso e profondamente in antitesi a quella implicita nell’ideologia dello ”sviluppo”. Proponiamo il concetto di “beni comuni” come alternativa, concettuale e politica, per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace.

In entrambi i casi il fulcro di questa giornata è sulle parole, sui concetti e i discorsi ad esse legate, spiegati nel contesto socio-economico, politico e culturale in cui essi si formano. Perché, è importante sottolineare che il linguaggio è una pratica sociale. Ciò significa che esiste una relazione dialettica, reciproca, tra linguaggio e società. Quando parliamo, scriviamo, ascoltiamo, leggiamo lo facciamo in un modo che dipende dalla società, dall’insieme delle relazioni e delle contingenze socio-economiche, politiche e culturali in cui la nostra società si trova.

Nello stesso tempo le parole hanno degli effetti, delle ricadute sulla società, non ultimo il potere di modificare la realtà materiale. Con le parole produciamo concetti, categorie, teorie attraverso cui rappresentiamo, comprendiamo e progettiamo il mondo, diamo un significato al mondo che ci circonda e con il quale ci rapportiamo, dalle relazioni sociali agli oggetti fisici.

Il discorso comprende il testo (scritto, parlato, visivo) e tutti i processi che consentono di interpretarlo, produrlo e riprodurlo. Nell’affrontare questi processi noi attingiamo ad una serie di risorse nella nostra mente: quelle linguistiche, la grammatica, la sintassi ma anche quelle legate ai valori, alle credenze che si formano via via nel corso della vita, attraverso le relazioni con le altre persone, il lavoro, la scuola ecc. e dipendono da una serie di convenzioni che la società impianta attraverso le istituzioni, i comportamenti, le pratiche.

Questo insieme di convenzioni è determinato dalle relazioni di potere. I discorsi, scritti e parlati, sono un ottimo veicolo per il potere perché attraverso essi si può affermare una certa idea del mondo, e attraverso questa idea si possono quindi affermare certe pratiche, certi modi di fare piuttosto che altri. Il potere che si esercita attraverso il discorso, attraverso la parola non è un potere coercitivo, ma un potere che si acquisisce attraverso il consenso, sia attraverso la comunicazione con la quale si convince, sia attraverso l’inculcazione, cioè una sorta di persuasione che avviene in maniera recondita, non consapevole. Parliamo quindi del potere in termini di egemonia.

Due sono i concetti principali che analizzeremo oggi. Da una parte il concetto di “sviluppo” una parola che ha conquistato un potere immenso, è diventata egemonica; lo dimostra il fatto che essa ha acquisito uno stato di “senso comune”, ovvero di verità indiscussa. Come sosterrò più avanti, riprendendo la metafora di Gilbert Rist, lo sviluppo è una vera e propria credenza egemonica. Dall’altra parte abbiamo il concetto di “beni comuni” che si pone come paradigma alternativo e profondamente in contestazione a quello esistente e presuppone un cambiamento radicale del sistema socio-economico esistente; siamo quindi in presenza di un concetto contro-egemonico.

Il rapporto tra queste due parole e i diversi mondi che esse prefigurano è quello che Gramsci chiama “lotta per l’egemonia”, poichè essa è combattuta innanzitutto a livello dei discorsi e delle idee. E’ una lotta per ottenere il consenso, in cui le parole diventano armi potenti per affermare un’ideologia e un progetto di società in contrapposizione.

L’egemonia è appunto il potere essenzialmente (ma non esclusivamente) esercitato attraverso il discorso e basato sul consenso anziché per via coercitiva (in maniera esplicitamente violenta, o anche più subdola), cioè attraverso l’acquisizione di un’acquiescenza più o meno generalizzata. Analizzare criticamente le parole significa individuare le relazioni di potere nella loro connessione ai processi di formazione del sapere e di formulazione delle politiche, significa comprendere chi ha conferito autorità ed efficacia performativa alle parole, e quindi comprendere chi tira i fili e quali interessi vengono difesi e quali no.

Il potere del linguaggio può esercitarsi attraverso tre principali pratiche :

• l’adozione di pratiche e discorsi universalmente accettati e seguiti perché nessuna alternativa possibile sembra concepibile, immaginabile;

• l’imposizione di pratiche attraverso un esercizio del potere ‘nascosto’, non esplicito ( l’inculcare);

• l’adozione di pratiche che vengono adottate attraverso un processo di comunicazione razionale e di dibattito (il comunicare).

Questi tre meccanismi sono tutti presenti nella società contemporanea, ma l’inculcare e il comunicare sono i più diffusi.

Generalmente l’inculcare viene adottato per ricreare, artificiosamente, l’universalità del primo meccanismo, ed è usato da chi detiene il potere (e vuole mantenerlo) poiché dipende strettamente dall’autorità. Questo è il modo in cui l’ideologia dello “sviluppo” si è affermata ed è diventata egemonica. Nel caso dello “sviluppo”, come vedremo più avanti, il linguaggio è diventato strumento di potere e di legittimazione di politiche, decisioni, provvedimenti, leggi, decreti, conquiste e guerre per affermare, diffondere, rafforzare e difendere lo status quo, il sistema capitalistico.

La comunicazione razionale e il dibattito costituiscono invece soprattutto meccanismi di emancipazione, generalmente usati nella lotta contro il potere dominante. É insomma quello che faremo questa settimana qui alla scuola di eddyburg. Infatti il linguaggio può essere anche uno strumento di potere a favore del cambiamento, per trasformare la società verso un percorso diverso, che esca dal progetto di sviluppo e crescita illimitata. Per fare ciò occorre innanzitutto superare l’acquisizione acritica di supposizioni, “credenze”, che altri elaborano e inculcano come verità assolute (“senso comune”, secondo Gramsci) e connettere la vita concreta ad una profonda e critica comprensione di ciò che avviene intorno a noi, vicino e lontano, attivando invece il “buon senso”. Il buon senso non è altro che una consapevolezza critica, che ci consente di reagire ai discorsi attivamente e non passivamente, crearndo un legame con la vita reale e le difficoltà che viviamo ogni giorno. Senza questa consapevolezza non può esserci un’effettiva cittadinanza democratica, ed non è possibile promuovere un qualsiasi progetto di cambiamento sociale alternativo.

2. Le origini: il sermone di Truman (1949). Dallo sviluppo come concezione, all’affermarsi dello sviluppo come credenza

Il progresso è un ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il “progresso” dipende da una determinata mentalità, a costruire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il “divenire” è un concetto filosofico, da cui può essere assente il “progresso”. Nell’idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa: più è meglio. Si suppone quindi una misura fissa o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili…” [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere]

Il termine sviluppare deriva da “viluppare” “togliere dal viluppo” o “sciogliere un viluppo” ovvero sciogliere un groviglio, dipanare una matassa, liberare da qualcosa che avvolge. Per analogia svolgere, distendere del tutto. In quest’ultima accezione è già presente l’altro significato essenziale del verbo, che diverrà predominate: svolgere nelle varie parti, rilasciare quelle potenzialità dell’oggetto o organismo in questione sino a che questo raggiunge la sua naturale forma finale.

Etimologicamente è importante fare riferimento al significato inglese della parola, perché è proprio in ambito anglosassone che avverrà il più importante slittamento del termine. Nel primo inglese moderno, la parola sviluppo, nell’accezione di svolgimento, derivava dal développer francese. Nel periodo delle rivoluzioni francese e inglese, la parola sviluppo entrò nella sfera dell'economia per indicare i cambiamenti economici e l'idea di progresso. Nel XVIII secolo è stato esteso metaforicamente alla facoltà della mente umana. La connotazione di evoluzione, che ha permesso l'uso metaforico del termine per spiegare il processo attraverso il quale l'organismo raggiunge la sua forma più appropriata e completa, si è compiuta alla metà del XVIII secolo con Darwin.

Il cambiamento più significativo è venuto dopo il 1945, quando è entrato in uso il concetto sottosviluppo, e lo sviluppo è stato associato all'idea che le economie e le società avrebbero dovuto passare attraverso prevedibili “fasi di sviluppo”. Espressioni come “retrogradi”, o “sottosviluppati”, divenne il modo per definire in modo permanente i paesi dell'Africa, dell'America Latina e Asia. Di conseguenza, lo sviluppo è diventato un progetto di dominazione in quanto mina la fiducia delle altre culture in esprimersi e portare avanti altri modi di pensare, di scegliere altri percorsi e progetti, riducendo i loro destini ad un modo essenzialmente occidentale di concepire, percepire e plasmare il mondo. Il discorso sullo sviluppo, che descrive lo sviluppo come un necessario, desiderabile, auspicabile, diventa quindi un potente strumento di potere dell'Occidente per plasmare l'immaginazione della gente, le loro speranze e progetti, nonché di gestire, controllare e persino inventare economicamente, politicamente, sociologicamente e culturalmente il “Terzo Mondo” .

Nel tempo vi è stata una riduzione del termine di sviluppo allo “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e variegati che il termine sviluppo può esprimere. Sviluppo in se è un termine neutrale. Esso assume un significato compiuto se è qualificato, riferito ad un’altra parola, ed è a seconda della qualificazione che può avere un senso positivo o negativo. Così lo sviluppo di una malattia è certamente negativo; lo sviluppo della capacità di comprender o lo sviluppo di un’idea ha un significato positivo. La riduzione del termine di sviluppo al solo sviluppo economico è una prima mistificazione che è stata compiuta.

Ritorniamo alla storia. Vorrei soffermarmi su questo passaggio perché ci permette di comprendere l’arbitrario operato nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso e di attribuirle così positività a priori, e vorrei mettere in evidenza come lo sviluppo sia stato un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Il discorso di Truman del 1949 è un evento fondamentale che ha segnato la storia di questo concetto e ha dato inizio all’era dello sviluppo.

Vediamo di sintetizzare il contesto storico. Dalla fine della seconda guerra mondiale grandi eventi avevano cambiato la scena politica globale e trasformato profondamente i rapporti tra paesi ricchi e quelli poveri. I paesi asiatici e africani avevano contestato il sistema di sfruttamento e controllo del colonialismo mentre un forte nazionalismo stava crescendo nei paesi dell'America Latina. Gli Stati Uniti emersero come la prima potenza economica e militare nel sistema capitalistico mondiale, anche se la loro posizione era contestata dai regimi socialisti.

La guerra fredda veniva a modellare le relazioni internazionali e il “Terzo Mondo” diventava uno dei più importanti nuovi teatri di battaglia. La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti volgeva crescente attenzione ai paesi del “Terzo Mondo”. Demograficamente rappresentavano la più grande maggioranza del genere umano ed erano in crescita. Economicamente contenevano la maggior parte della crescente forza lavoro, erano fonti di grande quantità e varietà di materie prime e rappresentavano il più grande mercato del futuro per i prodotti industriali. Politicamente, con l’indipendenza stavano programmando il loro destino e quindi potevano diventare o nemici o alleati di sostegno nella lotta contro il comunismo.

In questo scenario di opportunità e minacce, con la dottrina Truman - introdotta nel 1949 dall'allora presidente degli Stati Uniti Harry Truman - si afferma il progetto di sviluppo e un efficace apparato, ha iniziato a prendere forma. Questo progetto di sviluppo era (ed è tuttora) destinato a replicare nel “Terzo Mondo” le caratteristiche della società occidentali capitalistiche avanzate: la democrazia, un alto livello di industrializzazione e urbanizzazione, la meccanizzazione dell'agricoltura, la rapida crescita della produzione materiale e dello standard di vita, così come l'adozione diffusa di valori tipici della cultura americana e anti-comunista.

Prima di tutto Truman ha inventato nel suo discorso un’identità nuova: i “sottosviluppati”, raggruppando in una sola categoria tutta la diversità inestimabile delle persone che vivono in Africa, Asia e l'America Latina. Quella stessa parola ha anche indicato la posizione dello “sviluppato” a cui tutte le persone e paesi del mondo dovevano aspirare. Una nuova era nella rappresentazione e controllo del “Terzo Mondo” cominciò e avrà conseguenze importanti anche sull’Occidente. Si afferma e diventa egemonico quello che Boaventura de Sousa Santos definisce come il pensiero abissale:

«una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanza e all'inesistenza.» [B. de Sousa Santos, Beyond abyssal thinking. From global lines to ecologies of knowledges]

Prosperità e pace sono state le due giustificazioni principali addotte da Truman per diffondere lo sviluppo, e intraprendere crociate, mentre il cambiamento necessario doveva essere indotto dalla combinazione appropriata di tre ingredienti fondamentali: la produzione capitalistica - più cibo, più vestiti, più materiali per l'edilizia etc. - la scienza e la tecnologia. Tutto ciò che di importante nella vita sociale ed economica dei paesi poveri (la loro popolazione, le loro economie, risorse naturali, agricoltura e commercio, amministrazione, valori culturali, ecc) divenne così l'oggetto di calcolo da parte di esperti formati nella nuova scienza dello sviluppato.

Un altro elemento fondamentale di questa crociata è “l’aiuto allo sviluppo” o quello che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” o “cooperazione internazionale”. In forma di assistenza scientifica e tecnica, conferiti per alleggerire il fardello dei poveri, l’aiuto è diventato la maschera dell'interesse e tornaconto degli Stati Uniti e dei paesi occidentali in generale .

Due procedure sono stati fondamentali per l’affermarsi di questo credenza e di tutte le pratiche necessaria alla sua implementazione: la professionalizzazione e l’ istituzionalizzazione dello sviluppo .

La “professionalizzazione” dello sviluppo consente ad alcune forme di conoscenza - generati e convalidati da un insieme di tecniche, strategie e pratiche disciplinari - e non altre di raggiungere e mantenere lo status di verità. Nel caso dello sviluppo questo è stato ottenuto con l'applicazione di discipline già esistenti, dalla demografia alla pianificazione, ai problemi di “Terzo Mondo” e con la creazione dell’economia dello sviluppo, che ha permesso l'inserimento progressivo di problemi, dalla povertà alla urbanizzazione, nel discorso dello sviluppo in modo congruente con il sistema eurocentrico e nord centrico di conoscenza e potere. L'intero processo di rappresentazione dei problemi e di costruzione delle sue soluzioni passa attraverso un sistema di misurazione, teorizzazione e normalizzazione basato e funzionale al progetto di sviluppo. In questo processo l’economista e il tecnico pianificatore/progettista svolgono un ruolo particolare nella nuova era dello sviluppo. L'economista è diventato l’esperto per eccellenza chiamato a decretare le verità più elementari. Il tecnico pianificatore/progettista è stato quello che ha applicato le conoscenze teoriche attraverso la pianificazione, lo strumento attraverso il quale l'economia è diventata utile ed è stata legata alla politica e allo Stato.

L’ istituzionalizzazione dello sviluppo si riferisce a quel complesso sistema di rapporti, programmi, conferenze, pratiche locali e così via attraverso le quale vengono prodotti e diffusi i discorsi, le tecniche e le procedure.

Il discorso dello sviluppo è cambiato molto nel corso dei decenni. L’evoluzione delle teorie sul capitale (umano, sociale, istituzionale, conoscitivo, ambientale) hanno arricchito di nuove dimensioni l’interpretazione dei processi di crescita e fornito nuove indicazioni strategiche. Queste si sono tradotte da una parte in nuove pratiche dall’altra in nuovi discorsi, che hanno visto emergere nuove parole, o vecchie parole con nuovi significati: come empowerment, capacity building e istitution building (cioè le competenze, i saperi e le capacità progettuali), accountability (capacità manageriale e l’efficienza) sustainability, governance e tutte le sue declinazioni, urban, local good, etc., che acquisiscono una notevole rilevanza anche nei confronti delle politiche urbane. Di conseguenza, nuove strategie, in nome dello sviluppo sono state invocate e nuove pratiche hanno avuto luogo.

Tuttavia, si è continuato a produrre lo stesso tipo di relazioni tra i donatori (l’occidente) e i beneficiari (“Terzo Mondo”), confermando lo stesso meccanismo di produzione di conoscenza e di esercizio del potere.

“… una linea abissale divide i «selvaggi», gli indigeni dal resto. Nelle colonie dunque non è mai valsa la tensione tra regolamentazione ed emancipazione sociale, che caratterizza invece il nord globale, ma soltanto quella tra appropriazione e violenza. E questa divisione continua ad operare ancora oggi: il colonialismo infatti non è cessato con la fine del colonialismo politico, ma prosegue, insieme al razzismo, che si definisce proprio per la capacità di disegnare linee abissali dichiarando irrilevante chi si trova «al di là» della linea. D'altra parte, la dicotomia appropriazione-violenza sta contaminando anche l'altro paradigma socio-politico. Negli ultimi anni l'emancipazione, che ha sempre rappresentato il polo opposto della regolamentazione, è diventata l'«altro» della regolamentazione, il suo doppio. La «democrazia sociale», come la intendiamo in Europa, lo testimonia: originariamente intesa come orizzonte di emancipazione, è divenuta una forma di regolamentazione sociale per il capitalismo, e dopo il 1989 ha perso anche il suo volto umanitario, dimenticando le politiche sociali.”

3. I pilastri della credenza



Nel dibattito sullo sviluppo la scienza e la tecnologia hanno avuto un ruolo fondamentale nei valori impliciti nello sviluppo di progresso e modernizzazione. Il riconoscere l'importanza del “Terzo Mondo” per l'economia e la politica internazionale ha incoraggiato la raccolta di sempre più accurate conoscenze scientifiche sui paesi in via di sviluppo, mentre la crescita economica - elemento chiave per il passaggio da una fase di sottosviluppo a uno di sviluppo - richiedeva capacità tecnologica per assicurare il progresso. Le idee degli scienziati divennero poi operative attraverso la ricerca applicata. Un rapporto dal titolo "La scienza, la frontiera senza fine" aveva affermato che le conoscenze essenziali non potevano essere ottenute se non attraverso la ricerca scientifica di base, assumendo questo come metodo infallibile di raccolta delle informazioni. L'apparente neutralità di queste informazioni sembrava una caratteristica positiva per quasi tutti gli studiosi di diverse religioni, cultura e nazionalità. Da qui proviene la potente influenza della scienza nella fantasia e il pensiero degli esseri umani nei secoli. Solo le opere di sociologia della conoscenza e della storia e filosofia della scienza hanno esposto il pregiudizio ideologico e culturale della scienza. Santos (2007) ci ricorda che l'epistemologia è essa stessa contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende corpo e a particolari agenti, e dietro una certa concezione epistemologica molto spesso ci sono idee promosse con la forza. Questa sovrastruttura è stata ereditata dallo sviluppo e, al tempo stesso lo sviluppo è diventato l'ultimo alleato delle scienze moderne nell'esercizio della sua egemonia politica.

Con lo sviluppo una nuova disciplina è entra nel regno della scienza. L’economia dello sviluppo è diventata lo strumento per analizzare lo sviluppo economico e sociale e studiare l’arretratezza' dei paesi del “Terzo Mondo”, e dei percorsi che questi paesi avrebbero dovuto prendere per raggiungere la crescita economica. Il progresso diventa un valore imprescindibil e la modernizzazione il nuovo paradigma, profondamente radicato nella concreta esperienza della storia economica occidentale, endogeno nel suo modo di concepire e caratterizzato da evoluzionismo. La teoria tradizionale della crescita economica in voga in quei primi anni dell’era sviluppista invocava: intensità di capitale e cambiamento tecnologico. W.A. Lewis scrisse nel 1946 che era "chiaro come il sole" che l'industrializzazione era stata la chiave dello sviluppo.

Per Escobar il discorso economico ha ricevuto grande attenzione ed è stato altamente performativo, a confronto con altre forme di conoscenza, perché oltre a fare affidamento su un corpus teorico (sviluppo economico) è stato sostenuto da una serie di pratiche e da organizzazioni internazionali e nazionali che hanno conferito autorità alla scienza economica e gli scienziati. A loro volta queste organizzazioni – siccome erano esse stesse parte dei cambiamenti economici, politici e istituzionali - formavano le coscienze e le percezione degli economisti. Per Milberg il potere persuasivo della metafora dello sviluppo poggia su tre aspetti: metodologico, ideologico e sociologico.

ll punto di forza da un punto di vista metodologico è l’individualismo dell’economia, la precisione assiomatica, il rigore deduttivo, e un approccio che si approssima ai metodi della fisica. La seconda fonte di energia è ideologica, in quanto fornisce il supporto scientifico al capitalismo del libero mercato nella sua forma più pura. La spiegazione sociologica è che gli economisti sono in posizioni di potere, con un ruolo consultivo presso l'ufficio esecutivo della maggior parte dei paesi e un ruolo dominante nella politica di sviluppo economico attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Inoltre il pensiero economico dell'immediato periodo secondo dopoguerra ha funzionato a livello psicologico, fornendo un senso di ordine sistemico e benevolenza in un mondo che appare spesso casuale, volatili e ingiusto. Il fatto che una certa visione e la pratica dell'economia è divenuta dominante nella storia europea è un passo fondamentale nella storia della modernità, in quanto è il fatto che gli ingredienti principali di questa economia - mercato, produzione, lavoro - sono stati raramente in discussione.

L'industrializzazione non solo poteva aprire la strada per la crescita e la modernizzazione delle economie arretrate, ma serviva anche per diffondere fra le popolazioni locali la razionalità appropriata, colmare la mancanza dei risparmi e portare le tecnologie necessarie. Alcuni economisti ritenevano che un grande sforzo iniziale era necessario per spezzare il circolo vizioso della povertà, bassa produttività, mancanza di capitale. Tuttavia, tutti erano d'accordo che il compito era gestibile. La maggior parte degli studiosi degli anni ‘50 e ‘60 credevano fermamente in uno scenario di sviluppo del “Terzo Mondo” paragonabile a quello del ‘Primo Mondo’ a patto di trasferire soluzioni ed esperienze dal mondo occidentale ai paesi arretrati. Le industrie erano associate con le città, quindi era prevista una redistribuzione fisica della popolazione dalle campagne ai centri urbani che ha legato indissolubilmente insieme urbanizzazione, l'industrializzazione e sviluppo. In questo modello, la città ha assunto un ruolo importante per l'integrazione e stimolo socio-economico delle trasformazioni necessarie per lo sviluppo.

La pianificazione, intesa come la formulazione di un piano o programma, specialmente di carattere economico, è stata fondamentale per lo sviluppo fin dalla sua nascita, perché era l'applicazione di conoscenze scientifiche e tecniche al pubblico dominio. Il concetto di pianificazione incarna la convinzione che il cambiamento sociale può essere progettato, prodotto e diretto secondo volontà. Tra il 1800 e il 1950, ci fu una regolazione progressiva della società, dello spazio urbano e dell'economia, che ha portato alla creazione dello stato sociale, la professionalizzazione delle opere sociali e della pianificazione. La pianificazione “scientifica” era iniziata in relazione con la prima guerra mondiale e divenne molto popolare in anni 1920 e 1930 in diversi contesti: dalla pianificazione economica nel sistema sovietico, alla pianificazione urbanistica comunale degli Stati Uniti. Il percorso di questa idea non è rettilineo. Ci sono diversi significati del termine che vanno da concezioni radicali a quelle conservatrici. Come verrà spiegato nell’ultima giornata, dedicata alla pianificazione urbanistica, è fondamentale qualificare la pianificazione. Perché la pianificazione può essere progressista così come conservatrice e reazionaria.

La rete delle organizzazioni per lo sviluppo responsabili della produzione e la circolazione dei discorsi dello sviluppo si estende dalle organizzazioni internazionali, bilaterali a quelle non governative, e ai diversi livelli nazionale, regionale ed enti locali. Il discorso circola attraverso programmi, progetti, conferenze, riunioni di esperti, consulenze, pubblicazioni, think tanks, e così via. Istituzioni internazionali come le Nazioni Unite sono riconosciute avere l'autorità di produrre politiche e strategie; agenzie di prestito, come la Banca Mondiale, portato il simbolo del capitale e del potere, gli esperti hanno conoscenza e competenze, mentre i governi hanno l'autorità legale di intervenire sul popolo delle loro nazioni. La creazione della Nazioni Unite Per il Soccorso e l'Amministrazione della Riabilitazione (che ha preceduto la costituzione delle Nazioni Unite) operante tra il 1943 e il 1946, ha segnato un passaggio chiave dalla vecchia concezione degli aiuti, intesa come occasionale all’aiuto come strumento dello sviluppo. Il Piano Marshall è il diretto precedente della cooperazione allo sviluppo in termini moderni, in quanto ha soddisfatto sia l'obiettivo di promuovere la ricostruzione economica che l'obiettivo politico di prevenire la diffusione del sistema comunista in Europa. Tuttavia, è stato Truman che ha completato il processo di ri-concettualizzazione dell’aiuto e dello sviluppo.

4. Le metamorfosi del concetto:

alla ricerca della sostenibilità delle credenza



Il discorso dello sviluppo è cambiato molto nei decenni. L’evoluzione delle teorie sul capitale (umano, sociale, istituzionale, conoscitivo, ambientale) ha arricchito di nuove dimensioni l’interpretazione dei processi di crescita e fornito nuove indicazioni strategiche. Queste si sono tradotte da una parte in nuovi discorsi e dall’altra in nuove pratiche che hanno visto emergere nuove parole, o vecchie parole con nuovi significati per legittimare il vecchio paradigma dello sviluppo, di decennio in decennio sempre più contestato, e per difendere lo status quo.

Parole come empowerment, capacity building e istitution building (cioè le competenze, i saperi e le capacità progettuali), accountability (capacità manageriale e l’efficienza) sustainability, governance in tutte le sue declinazioni, urban, local good, etc. Vediamo di ripercorrere brevemente alcuni passaggi che segnano l’emergere di questi nuovi alleati discorsivi. Una caratteristica comune è che ciascun concetto viene depoliticizzato e interpretato in maniera tale da eludere la sua valenza politica e le implicazioni riguardanti il dominio e il potere. Essi vengono invocati come elementi tecnici miranti per lo più a aumentare il senso di auto-stima, sfruttare le reti di solidarietà ed auto-aiuto al fine di aumentare il capitale sociale oppure come soluzioni tecniche e/o scientifiche.

All’indomani del discorso di Truman era convinzione condivisa che in un ragionevole lasso di tempo la crescita economica avrebbe sensibilmente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni in generale. Come le goccioline d’acqua che zampillano dalla fontana, il benessere avrebbe bagnato un po´ tutti, dominati e dominatori. La formula “trickle-down”, che descrive le politiche economiche che vanno a beneficio dei ricchi, con l'obiettivo di incoraggiare gli individui più ricchi a investire nell'economia, fornendo in tal modo i vantaggi per le classi inferiori, era la teoria in cui si poggiava lo sviluppo come credenza nel primo decennio della sua storia. La crescita era considerata un mandatario affidabile per lo sviluppo.

Tuttavia, questo scenario non si è verificato nei fatti. Nei paesi del Sud del mondo l’industrializzazione non ha accompagnato l’urbanizzazione. Il previsto passaggio dall'agricoltura all'industria non sembra più fattibile, mentre la crescita della popolazione e la subordinazione dell'agricoltura alla monocultura per esigenze del mercato mondiale ha portato ad una massiccia migrazione dalle aree rurali, senza un’ adeguata espansione delle opportunità di lavoro nelle città. Il ruolo della città come un generatore di cambiamento e come fonte feconda di idee e di innovazione non si è concretizzato. Infatti, essi tendevano a un ruolo opposto: le principali città servite principalmente per drenare le risorse della campagna.

«Poco più di cinquant’anni fa, per i nuovi «dannati della terra», i popoli del Terzo mondo, è nata un’altra speranza paragonabile a ciò che era stato il socialismo per il proletariato dei paesi occidentali. Una speranza forse più sospetta nelle sue origini e nei suoi fondamenti, in quanto erano stati i bianchi a portarne i semi, che avevano piantato prima di lasciare i paesi che avevano duramente colonizzato. Questa speranza era lo sviluppo. Comunque sia, i responsabili, i dirigenti e le élite dei paesi di nuova indipendenza presentavano ai loro popoli lo sviluppo come la soluzione di tutti i problemi. I nuovi Stati indipendenti hanno tentato l’avventura dello sviluppo. Forse l’hanno fatto in modo maldestro, e spesso con una violenza e un’energia disperate, ma non si può dire che non l’abbiano tentata. Il progetto sviluppista costituiva anzi la sola legittimità delle élite al potere. Sicuramente si potrebbe discettare all’infinito per stabilire se esistevano o meno le condizioni oggettive per il successo dell’avventura modernista. […] I responsabili dei giovani Stati si trovavano di fronte a contraddizioni insolubili. Non potevano né rifiutare di introdurre né riuscire a radicare nelle loro realtà i diversi elementi che costituiscono la modernizzazione: l’educazione, la medicina, la giustizia, l’amministrazione, la tecnica occidentali. […] Lo sviluppo, per quanto teoricamente riproducibile, non è universalizzabile»

Di fronte al “mancato sviluppo” negli anni ’60 nuove definizioni emersero. Hans Singer nel 1965 dichiarò che “lo sviluppo è la crescita più cambiamento” e il cambiamento non è solo economico ma anche sociale e culturale. Il punto principale era che la crescita non aveva risolto il problema della povertà dei paesi in “via di sviluppo”. Ma ciò che veniva messo in dubbio non era la validità dello sviluppo in sé come paradigma, ma piuttosto le teorie che ne predicevano l’affermarsi e le ricette che stabilivano gli ingredienti per il suo raggiungimento. La fede nello sviluppo era ancora molto forte.

La politica degli aiuti allo sviluppo degli anni sessanta era influenzata sia dalla contrapposizione dei due blocchi Est-Ovest nella guerra fredda, che rendevano i paesi in via di sviluppo pedine strategiche nella scacchiera internazionale, sia da forti interessi commerciali dei paesi donatori, che spingevano verso i cosiddetti “aiuti legati”.

Voci fuori dal coro cominciarono a emergere e un importante cambiamento intellettuale ebbe luogo. La visione eurocentrica sullo sviluppo e il paradigma della modernizzazione venivano fortemente contestati da un gruppo di studiosi di scienze sociali dell'America Latina e la teoria della dipendenza si affermava in contrapposizione all'idea convenzionale che lo sviluppo è una mera ripetizione della storia economica dei paesi industrializzati.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1970, che apriva il decennio, auspicava un approccio che integrasse le componenti economiche e quelle sociali. Il paradigma neoclassico dello sviluppo veniva messo in discussione dalle ricerche sulla popolazione, l’occupazione, la distribuzione dei redditi, il settore informale e le migrazioni dalla campagna alla città della Banca Mondiale e dell’ILO (International Labour Organization), che mostrarono come ad una crescita economica dei PVS, che pure c’era stata non era corrisposta un effettiva diminuzione della povertà. L’anticipato “trickle down effect” non si era materializzato e il divario tra Nord e Sud stava crescendo ancora.. Nuove teorie hanno assunto rilievo.

Il dibattito sullo sviluppo a fine anni ’60 e inizi anni ‘70 è stato caratterizzato nei paesi occidentali da una forte enfasi sull’equità e la giustizia sociale. Sono gli anni delle prime lotte urbane in atto in quasi tutti i paesi europei e animate da movimenti sociali, sindacati, studenti, volte alla conquista del diritto alla casa (accesso ad un’abitazione dignitosa ad un prezzo commisurato alla capacità di spesa) e ad una serie di servizi pubblici indispensabili per la vita sia individuale che collettiva. In quegli anni i discorsi attorno a questi temi erano centrali sia nell’opinione pubblica che nel dibattito politico e scientifico, ed erano accompagnati dagli scioperi contro gli affitti troppo alti, le campagne per l’ottenimento di trasporti pubblici accessibili a tutti, marce per il riscatto di aree e strade delle città e occupazioni. Anche in Italia alla fine degli anni Sessanta espressioni come “diritto alla città” (Convegno PCI 1969), “casa come servizio sociale” (Ceccarelli 1972), “consumi collettivi” (Salzano, 1969), animavano il dibattito e hanno costitutio la base di tante rivendicazioni popolari, contrattazioni sindacali.

Queste lotte si sono tradotte negli anni successivi nell’affermarsi del welfare state (un importante compromesso tra capitale e lavoro) e nel raggiungimento di una serie di conquiste fondamentali da parte dei cittadini. Si assiste in quegli anni alla creazione di strutture fisiche e sociali in grado di sostenere la riproduzione sia del capitale che della forza lavoro, e di servire come contesti efficienti in cui organizzare la produzione, il consumo e lo scambio. L’antagonismo di classe si accentua, ma in qualche modo è gestito e assorbito nel governo delle città, attraverso l’assunzione di responsabilità sotto vari aspetti della riproduzione della forza lavoro (sanità, educazione…), nonché attraverso controlli sociali di vario genere: polizia, controllo ideologico tramite le chiese e gli organi di comunicazione di massa, manipolazione dello spazio come forma di potere sociale. Occorre qui ricordare che la città industriale è un’unità instabile: da una parte è un ordinamento razionale capace di coordinare la produzione del capitale e di costituire gli spazi sociali adatti alla riproduzione dei lavoratori, dall’altra è assillata dalla crisi dell’accumulazione, dal cambiamento tecnologico, dalla disoccupazione, dalla dequalificazione del lavoro, dall’immigrazione, dagli antagonismi tra classi.

Nei paesi in via di sviluppo l’influenza progressista si è meramente tradotta nella formulazione di strategie incentrate sull'occupazione, sull’approccio dei bisogni fondamentali - basato sul raggiungimento di un livello minimo di vita per gli strati più poveri della popolazione, che si ponevano come ‘stampelle’ al paradigma dello sviluppo. Negli anni Settanta l’obiettivo della lotta alla povertà divenne il nuovo discorso egemonico legittimante gli interventi di “aiuto allo sviluppo”. Sembrava, sotto l’influenza delle riforme progressiste e discorsi sulla giustizia sociale che avvenivano nel Primo mondo, che ci fosse un’inversione delle priorità: dalla formula “sviluppo e ridistribuzione” a “ridistribuzione con sviluppo”. Tuttavia, l'obiettivo principale rimaneva lo sviluppo e l’allargamento del sistema capitalistico ai paesi del Sud del mondo, con il miglioramento del reddito assoluto di questi paesi, piuttosto che ridurre le disuguaglianze nella distribuzione del benessere.

Negli anni Settanta si avvertono però già i germi del cambiamento del sistema socio-economico. Nei paesi occidentali l'età di prosperità stava per finire, l'industrializzazione si spostava verso nuove regioni, e il welfare keynesiano nazionale cominciava sul finire del decennio a dover affrontare problemi consistenti per il suo mantenimento.

Nei paesi in via di sviluppo al contrario, la crescita e l'industrializzazione hanno continuato a procedere, e il reddito ha continuato ad aumentare in termini assoluti, anche se il benessere della popolazione migliorava assai lentamente, quando migliorava. La guerra fredda continuava a influenzare le sfide poste dal processo di decolonizzazione e lo sviluppo economico dei paesi emergenti. Negli anni ’60 questi paesi erano riusciti ad ottenere un certo controllo sugli affari internazionali attraverso per esempio l'adozione del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NIEO) dalla Sessione speciale dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Ma le tensioni tra i paesi del Nord e del Sud si erano di conseguenza aggravate nel decennio successivo perché i paesi del Nord temevano che i paesi esportatori di materie prime avrebbero replicato l’embargo petrologico del 1973 e che si affermasse un cartello petrolifero attorno a un blocco unitario del Sud.

Negli anni Ottanta, furono la crisi economica dei paesi ad alto reddito, la crescita vertiginosa del petrolio e l’emergere della prassi neoliberista che influirono maggiormente sulle politiche di aiuto allo sviluppo. E la crisi del debito dei paesi del Sud del mondo si tramutò da possibile crisi finanziaria internazionale nell’occasione di imporre un’unica politica economica favorevole al Primo mondo e agli USA in particolare alla grande maggioranza dei paesi attraverso i programmi di aggiustamento strutturale. Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale erano i maggiori sostenitori e artefici. Avviarono programmi di aggiustamento, che si traducevano nell’attuazione di riforme istituzionali quali: tagli alle spese pubbliche, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, in cambio di una re-negoziazione del debito . Questo finì con lo schiacciare la forza politica di visioni antagoniste e alternative dello sviluppo economico e delle politiche per promuoverlo.

In quegli anni l’evoluzione della teoria sul capitale umano, che considerava l’investimento nella qualità delle risorse umane una fonte importante per accelerare il cambiamento tecnologico, essenziale per accrescere la produttività totale dei fattori, aveva ripercussioni importanti nelle politiche di aiuto allo sviluppo. Nel 1987 il Comitato per la pianificazione dello sviluppo delle Nazioni Unite ha ritenuto che le risorse umane erano state trascurate in molti paesi ed era il momento di indagare sulla situazione. Amartya Sen (1990) ha fornito il quadro teorico per la nozione di 'capacità umane', che divenne il riferimento concettuale per l'approccio dello sviluppo umano.

Certo, l'approccio dello sviluppo umano avuto alcuni meriti e ha introdotto alcuni cambiamenti importanti. In generale, ha contribuito a riguadagnare l'attenzione sulle idee associate ai bisogni fondamentale e scappare dalla tirannia del PIL per costruire un indice del benessere molto più complesso che comprende non solo indicatori economici, ma anche sociali. Inoltre ha permesso di valutare l'allocazione delle risorse disponibili e verificare se queste hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi prioritari. Invece di definire i "bisogni" e quindi tentare di quantificare i mezzi per soddisfarli il nuovo approccio definiva alcune priorità sociali (come l'istruzione primaria, assistenza sanitaria di base, ecc) e il loro peso nella spesa nazionale. È stato fissato che il totale del "costo per lo sviluppo umano" dovrebbe essere tra il 5 e il 10% della spesa totale, nel caso in cui la cifra è inferiore una revisione della spesa totale è necessaria e tagli alle spese applicata ad esempio per spese militari, infrastrutture o di ordine pubblico.

Vorrei sottolineare che il paradigma comparve nel dibattito pubblico e nei rapporti delle agenzie internazioni in un momento di crisi dello sviluppo così come era stato definito nei decenni precedenti e in momento di crisi della crociata dello sviluppo. Ma lo sviluppo umano non è in contrapposizione al paradigma dello sviluppo o al progetto egemonico di sviluppo, ma introduce elementi di innovazione per attutire le ricadute negative dello sviluppo sulle popolazioni povere indotte soprattutto dai programmi di aggiustamento strutturale. E’ un termine assai accattivante e dà l'impressione che è un nuovo tipo di sviluppo, conferendo un aspetto ‘umano’ all'approccio neoliberale.

Alla fine degli anni Ottanta si andava affermando una nuova dottrina, con l’obiettivo di promuovere un modello di governo dello sviluppo, che legasse assieme la lotta alla povertà e l’efficacia della gestione urbana; ciò perché la riflessione sugli effetti sociali dei programmi di aggiustamento aveva messo in luce che era necessario includere alcune misure compensative per aiutare i poveri nell’attesa che questi raggiungessero lo sviluppo previsto. Veniva così inserita la gestione sociale urbana nei programmi di aggiustamento, sollevando gli Stati dall’ affrontare politiche di lotta alla povertà originali e adatte alle singole specificità .

La promozione dello sviluppo municipale e delle riforme istituzionali nella gestione urbana costituivano un’ingerenza nella sfera politica degli stati ma ciò non era ammissibile dagli statuti internazionali. Gli organismi internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario, e le stesse agenzie di sviluppo dei singoli stati del Primo mondo avevano bisogno di escogitare uno stratagemma per aggirare evitare l’accusa di ingerenza negli affari dei paesi beneficiari. Occorreva perciò un discorso strategico capace di de-politicizzare il campo “politicamente” sensibile della gestione urbana e di trasferire le questioni sociali e politiche verso il solo campo della tecnica, cioè trasformare quelle che erano scelte meramente politiche in scelte apparentemente tecniche da affidare agli esperti e specialisti.

L’introduzione della “governance” nel discorso sullo sviluppo serviva proprio a sbarazzarsi del rischio di venir accusati di ingerenza; dovevano influenzare gli assetti istituzionali dei paesi poveri e indirizzarli verso programmi di aggiustamento strutturale che implicavano riforme neoliberiste, ma senza nominare esplicitamente le riforme.

Le implicazione della “good governance” nel discorso per la costruzione, giustificazione e diffusione del concetto di sviluppo sono importantissime, perché è l’espressione usata per fare riferimento al funzionamento delle istituzioni. Ad essa corrisponde: la capacità ed efficienza della gestione pubblica; la responsabilità d’azione di chi opera nel settore pubblico; un quadro normativo chiaro e stabile; l’accesso alle informazioni. Nel lavoro di disseminazione che ha seguito il momento fondativo del lancio del “concetto”, ci sono due importanti passaggi: entrare innanzitutto nel campo della politica, e quindi del potere, utilizzando una parola come governance; e poi definendola good governance, associando a questa i requisiti diremmo ‘oggettivi’, articolati con il linguaggio della teoria economica, quindi legittimati dalla razionalità scientifica Il tutto avente come obiettivo la lotta alla povertà.

Negli anni Novanta lo sviluppo è teso a rafforzare le economie di mercato in tutti i paesi del mondo, promovendo l’espansione delle imprese private e la privatizzare delle imprese pubbliche. Nei paesi del Sud del mondo queste divennero un importante mezzo attraverso il quale i paesi poveri acquisivano capitale straniero attraverso la vendita diretta, fusioni e acquisizioni con aziende multinazionali straniere. Tant’è che agli inizi del decennio gli investimenti privati di capitali divennero la primaria fonte di trasferimento finanziario dai paesi ricchi a più poveri, superando quelli dell’assistenza ufficiale. Le politiche urbane erano tese a migliorare, ancor prima delle capacità produttive della città (infrastrutture, edilizia, servizi) le capacità gestionali delle autorità locali per una migliore mobilitazione delle risorse e controllo dei meccanismi che presiedevano alle complesse dinamiche economiche, come la fiscalità, la regolamentazione del lavoro, delle finanze e degli scambi commerciali.

Sul finire degli anni Novanta si sviluppa anche il tema relativo alla creazione di una piattaforma di politiche globali, che riflette l’interesse per le interconnessioni a livello mondiale, soprattutto in termini economici. I piani d’azione che ne escono da una parte allargano lo scopo dell’aiuto per comprendere settori come l’assistenza per lo sviluppo democratico, la partecipazione nelle operazioni di peace-keeping, e sempre più ampi aiuti umanitari; e dall’altra miravano a raggiungere un consenso globale sulle priorità da affrontare. Con i Millenium Development Goals sembra infatti emergere una convergenza delle varie agenzie sui “valori fondamentali” da perseguire definendo un quadro di riferimento condiviso sulle priorità da adottare. I Goals, ambiziosi da una parte, e riduttivi dall’altra, riflettono una tendenza alla semplificazione della complessità delle problematiche coinvolte e una preoccupazione eccessiva al raggiungimento di risultati misurabili quantitativamente.

L’introduzione del concetto di sviluppo sostenibile, utilizzato per ridare forza e credibilità a una fede che stava scemando, rappresenta una delle metamorfosi più emblematiche del concetto sviluppo e meno compresa.

5. Sviluppo sostenibile:

una parola d’ordine per aprire molte porte



'Sviluppo sostenibile' è l'espressione che forse più di ogni altra ha ri-conferito allo sviluppo un prestigio mondiale, e lo ha fatto dandogli una ‘tonalità ambientalista’. Il termine è stato portato all’attenzione mondiale con la relazione della commissione per l'ambiente e lo sviluppo del 1987(Commissione Bruntland) e reso popolare con la Conferenza di Rio delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo nel 1992.

Il Rapporto Brundtland affermava che lo sviluppo sostenibile è quello che "soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Questa espressione che ha acquistato un larghissimo consenso è in realtà uno strumento discorsivo efficace per affrontare, almeno retoricamente, i problemi ambientali, ma senza minacciare lo sviluppo economico e la crescita illimitata. Secondo W.M. Adams la concezione di sostenibile ha ereditato le tensioni tra tecnocentrismo ed ecocentrismo, e tra riformismo e radicalismo, contenute nel ambientalismo, proponendo un espressione che si pone come compromesso politico tra la lobby della non-crescita, che sosteneva che il pianeta era a corto di risorse e minacciato dal crescente inquinamento, e la lobby pro-crescita degli economisti.

Quando la parola si è affermata essa è stata più uno slogan che una nuova teoria dello sviluppo. La letteratura in merito non aveva compiuto grandi sforzi per analizzare criticamente i significati impliciti e confrontare il termine “sostenibile” con altre espressioni che richiamavano ad una coscienza ambientale, come “ecodevelopment” , o per esplorare le diverse tradizioni di pensiero che si erano già affermate da qualche anno. Infatti, una coscienza ambientale era già emersa negli anni 1970 insieme a una preoccupazione per la scarsità di risorse e lo sfruttamento sfrenato della natura. Questa preoccupazione ha introdotto l’importante concetto di “limite alla crescita” nel dibattito sullo sviluppo. Al contrario il discorso ambientalista associato alla nozione di sostenibilità ha matrici diverse; è avvolto da una “modernizzazione ecologica”, cioè l'innovazione tecnologica riveste un ruolo centrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimento radicale degli anni 1970, si crede fermamente che l'attuale politica, sociale e le istituzioni economiche possano interiorizzare la cura per l'ambiente.

Bisogna riconoscere che il termine è emerso al momento giusto, per dare allo sviluppo, che conosceva in quegli anni un calo di fiducia, uno scopo relativamente nuovo e soprattutto una rinnovata legittimazione.

Con i preparativi per il Vertice della Terra di Rio de Janeiro (UNCED)nel 1992, il concetto si è evoluto. La Conferenza di Rio, che forniva i principi fondamentali per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile, ha promosso l'integrazione di altre questioni interdipendenti nel concetto di sostenibilità. Lo sradicamento della povertà, il cambiamento dei modelli insostenibili di produzione e consumo e protezione e gestione delle risorse naturali alla base dello sviluppo economico e sociale sono diventati gli obiettivi di portata globale e i requisiti essenziali per lo sviluppo sostenibile. L’ Agenda 21 dichiarava che la povertà dei paesi in via di sviluppo può essere ridotta dando alle persone l'accesso alle risorse di cui hanno bisogno per sostenersi, mentre i paesi sviluppati avrebbero dovuto ridurre l'inquinamento, le emissioni, l'uso di preziose risorse naturali e aiutare gli altri paesi a svilupparsi in modo tale da minimizzare l'impatto ambientale. L'agenda UNCED aveva sottolineato le questioni relative alle risorse naturali e l'ambiente naturale ponendo particolare attenzione alla cosiddetta seconda generazione di problemi ambientali, quali le piogge acide, i cambiamenti climatici, la deforestazione, la desertificazione e la distruzione della biodiversità.

Negli anni successivi i governi hanno iniziato a compiere sforzi per integrare gli obiettivi ambientali, economici e sociali, sia elaborando nuove politiche e strategie dirette allo sviluppo sostenibile, che adattando politiche esistenti. Tuttavia, l'approccio integrato auspicato dal vertice di Rio non ha trovato un grande riscontro nella realtà. Il conflitto tra la salvaguardia degli ecosistemi ai cambiamenti rapidi da una parte e la soddisfazione dei bisogni fondamentali e la lotta alla povertà dall’altra sono stati rafforzati con la diffusa tendenza ad affrontare queste due questioni in modo indipendente utilizzando gli strumenti della politica settoriale.

Il successo, in termine di consenso sullo sviluppo sostenibile è dovuto al fatto che è compatibile con il capitalismo tecnocratico manageriale e l'ideologia modernista. Dall'inizio degli anni 1990 sono state avanzate numerose interpretazioni dello sviluppo sostenibile - sono state identificate oltre 200 definizioni - ma la maggior parte di esse si basano su considerazioni del Rapporto Brundtland e di Agenda 21, che hanno in comune la preoccupazione per la qualità dei l'ambiente, il miglioramento delle condizioni di vita all'interno della 'capacità di carico' degli ecosistemi, e la necessità di ridurre l'impatto dei problemi ambientali, sia delle generazioni presenti che di quelle future. Un altro motivo del successo è che la parola sostenibile si presta a tante interpretazioni e questa duttilità è una caratteristica piuttosto conveniente perché permette ad ogni attore, agenzia, governo o gruppo di interessi di selezionare la propria, ma nello stesso tempo di lasciarla implicita e accodarsi alla grande massa dei sostenitori dello sviluppo sostenibile - la prima coalizione globale nella politica ambientale.

l rapporto Bruntland raggiunse un ampio consenso e riuscì a portare a bordo istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Tutti questi attori possono interpretare diversamente il senso dello sviluppo sostenibile dando priorità ai loro interessi specifici ed elaborando narrazioni tra loro anche contraddittore, una serie di questioni rimangono irrisolte o emarginate, mentre altre acquisiscono posizioni di privilegio. E’ per questa ragione che autori come Wolfgang Sachs e Serge Latouche hanno definito l’invenzione della sostenibilità un 'escamotage retorico', che nasconde una strategia per sostenere e rafforzare il discorso e le pratiche di sviluppo piuttosto che affrontare le cause della crisi ecologica .

L’ipotesi principale dello sviluppo sostenibile è che crescita economica e soluzione del problema ecologico possono, in linea di principio, essere conciliati, mentre il principale ostacolo è visto nella azione, incapace di metter in atto tutte le misure necessarie. Infatti, le Nazioni Unite esortano a riconoscere, valorizzare e sfruttare le conoscenze e le competenze e sostengono che occorrono azioni di cooperazione e complementarità tra le parti interessate. Ma il concetto stesso di sviluppo, sostenibile o no, non è minimamente messo in discussione. Lo sviluppo sostenibile incorpora il credere che il cambiamento sociale può essere progettato e diretto a volontà per "esorcizzare magicamente gli effetti negativi dello sviluppismo" . La narrazione della pianificazione e gestione insita nei discorsi sullo sviluppo sostenibile ha lo scopo di presentare come "razionale" e "oggettivi" l’introduzione di progetti ambientalisti, regolare i processi decisionali, introdurre nuove pratiche e, soprattutto, fornire un senso di sforzo collettivo e di partecipazione verso obiettivi comuni, al fine di acquisire la collaborazione di tutti.

L’adozione del concetto di sostenibilità nell’ambito delle politiche che ha portato ad una maggiore consapevolezza circa i limiti delle risorse e degli ecosistemi che li riproducono al riconoscimento, a riconoscere che i costi ambientali dell’ urbanizzazione non possono essere trasferiti alle generazioni future, e che esiste una limitata capacità di smaltire i rifiuti prodotti, vede la città come un “metabolismo urbano”, un ecosistema fatto di movimenti interattive di circolazione, scambio e trasformazione delle risorse in transito. In questo contesto sono stati definiti una serie di principi e strumenti che comprendono l'uso efficiente delle risorse, il supporto a progetti, tecnologie, materiali e mezzi che permettono il risparmio energetico, riduzione dei rifiuti e l'eliminazione delle uscite pericolosi, il riciclaggio dei rifiuti e così via. Da qui nasce la preoccupazione per l’eco-efficienza energetica e l’equilibrio metabolico della struttura materiale della città - che pone l'accento sulla gestione dei flussi di energia e materie connesse con la crescita urbana.

Ma la negazione di qualsiasi conflitto tra obiettivi economici, lo sviluppo e l'obiettivo di una migliore qualità ambientale e il riconoscimento dei limiti di risorse riduce la ricerca della sostenibilità urbana alla ricerca di innovazioni di matrice tecnica, all'introduzione di tecnologie per il risparmio delle risorse urbane, e alla redistribuzione spaziale della popolazione e delle attività.

L'articolazione del discorso sullo sviluppo sostenibile ha influenzato anche il dibattito sulla vivibilità e la qualità urbana, dove queste sono motivate anche da ragioni specificamente economiche. La qualità urbana viene definita come “una precondizione per lo sviluppo economico”, e una necessità. Di conseguenza emergono sistemi di valutazione della qualità urbana finalizzati a misurare e monitorare non solo la vivibilità in relazione al benessere del cittadino, ma soprattutto la capacità di una città a sostenere i processi di sviluppo, consentire l’inserimento nella rete mondiale degli interessi economici, salire nella graduatoria della rilevanza economica.

Una caratteristica sorprendente del discorso sullo sviluppo urbano sostenibile è l'assenza di un serio impegno con la problematica ambientale, che porta ad affrontare la questione ambientale come un problema tecnico-manageriale, che lo riduce a un elenco di qualità fisiche. Tra l'ambiente e l'urbanizzazione vi è un rapporto dialettico e le trasformazioni ecologiche sono prodotti di relazioni di potere. La città (nella sua dimensione sociale, fisica e politica) è il risultato di un processo storico-geografico di urbanizzazione della natura e delle relazioni sociali inscritte in queste trasformazioni; perciò città, cultura e natura sono indissolubilmente legati tra loro. Ma questa dialettica nei discorsi dello sviluppo urbano sostenibile è ignorata, innanzitutto per non mettere in discussione né lo sviluppo né l’urbanizzazione visti dal pensiero dominante come in dissolutamente uniti.

6. Concludendo



La problematica dello sviluppo è parte dell’immaginario occidentale. La caratteristica peculiare di questo immaginario è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito. Questa anticipazione di un futuro migliore grazie all’aumento costante dei beni prodotti è diffusa ovunque. Ma come dice Rist l’egemonia dello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un illusione semantica, attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario” che ha trasformato una credenza in senso comune e verità assoluta facendo credere nella possibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza dell’occidente. Questa illusione di prosperità materiale infinita si è rafforzata ulteriormente quando i paesi sottosviluppati sono diventati “in via di sviluppo” così che una anticipazione si è trasformata in promessa!

Ho parlato di credenza, seguendo il ragionamento e spiegazione di Rist proprio perché ci comportiamo nei confronti dello sviluppo come nei confronti di una qualsiasi altra credenza. Magari nel privato qualcuno di noi ha avuto qualche dubbio su questo mito, ma questo “non impedisce di pregare all’unisono” – dai capi di stato, ai tecnocrati dell’economia, ai cittadini, alle organizzazioni internazionali, e persino gli intellettuali, di destra e di sinistra, atei e religiosi, bianchi e neri. “da questa credenza condivisa nasce il vincolo sociale, che si esprime sotto forma di pratiche obbligatorie che rafforzano le adesioni”. Come tutte le credenze è il presupposto che fonda il credo iniziale e plasma la risposta al problema posto. E’ un circolo chiuso che non prevede una verifica esterna, o una prova della sua veridicità. Le credenze sono tali – proprio perché è sulla fede, sulla fede sola – sulla quale si basa l’adesione, condivisione di questa.

Non si spiegherebbe altrimenti quello che è accaduto e accade. I libri sono pieni di racconti, testimonianze, statistiche analisi qualitative e quantitative della sovrabbondanza di merci da una parte e della povertà, diseguaglianza, esclusione dall’altra. Il divario tra nord e sud, così come tra classi sociali, aumenta. Per una civiltà che si proclama avanzata, accettare che ancora ogni anno muoiano di fame almeno 26,000 mila bambini e continuare a perseguire lo sviluppo , non può che essere la conseguenza di una credenza almeno pari a quella delle grandi religioni del mondo.

Eppure, i teorici, gli studiosi, i pensatori, gli esperti non ammetterebbero che lo sviluppo è una credenza, anzi parte della grande credibilità di questo mito è proprio averlo spacciato per sapere scientifico, oggettivo.

Nota

Inseriremo i testi di Ricoveri, Bevilacqua, Dall'Olio, Mattei appena disponibili. Salzano, che è intervenuto al posto di Loris Campetti, ha esposto i contenuti dell'Eddytoriale n. 144, cui si rinvia.

Per i riferimenti bibliografici si rinvia al documento Letture introduttive.

Lungo la “linea rossa”. L'attenzione delle due giornate centrali si rivolge all’ideale “linea rossa” che segna il margine urbano, il luogo dove si manifestano in modo più evidente le contraddizioni e i conflitti sui diversi modi di uso del territorio. Abbiamo selezionato due casi italiani - Milano e Firenze – perché li riteniamo rappresentativi dei problemi da affrontare, del grado di autorevolezza dei poteri pubblici, del ventaglio di politiche territoriali messe in campo, del contenuto e dell’efficacia di piani urbanistici e territoriali, del ruolo svolto da abitanti, terzo settore, soggetti economici. Due città governate in modo continuativo per oltre vent’anni ciascuna dalla stessa maggioranza politica, tra loro antitetiche. Possiamo, oggi, leggere criticamente quanto è successo non solo e non tanto a partire da astratti modelli di piano e di urbanistica contrapposti tra loro, quanto piuttosto dai caratteri - fisici, funzionali, sociali - delle parti di città investite dalle trasformazioni e dalle diverse opzioni, economiche e sociali, sottese alle decisioni.

Attorno a Milano. Milano è un esempio paradigmatico di "cattura del regolatore" da parte dei percettori di rendite e del "nuovo parastato". I primi, come noto, costituiscono il blocco dominante, in grado di condizionare le decisioni pubbliche sull'uso del territorio, piegandole alle proprie convenienze. Ma non va sottovalutato il peso dell'universo di società che si muove a cavallo tra il mondo pubblico e quello privato (concessionari e gestori delle reti, agenzie di servizi, ecc.), prendendo - ci si perdoni la semplificazione - il peggio di entrambi. Le distorsioni sull'uso e sull'assetto del territorio determinate da questo secondo blocco di soggetti sono altrettanto rilevanti, con l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che - formalmente - essi agiscono in nome e per conto delle amministrazioni pubbliche.

Entrambe queste categorie hanno dato impulso ad una congerie di progetti, promossi da attori singoli secondo logiche parziali e difficilmente riconducibili a una qualsivoglia strategia territoriale complessiva (se non nelle vuote retoriche dello sviluppo), pesantemente condizionati da aspettative di valorizzazione immobiliare e da una ragnatela di interessi consociativi, non di rado illeciti. Un grumo di interessi che ha trovato la sua legittimazione formale tanto nei piani urbanistici, quanto nelle cosiddette opere infrastrutturali strategiche.

Affidiamo a Giuseppe Boatti il compito di spiegare perché il PGT di Milano, adottato dalla giunta Moratti, è un micidale strumento per la moltiplicazione parossistica delle possibilità di valorizzazione immobiliare, e a Serena Righini il compito di descrivere perché anche la bulimia infrastrutturale milanese è funzionale allo stesso scopo.

Attorno a Firenze. La Toscana è una regione opulenta, socialmente pacificata, soddisfatta di sé, stretta ai propri miti e di consolidata tradizione politica. Ed è, soprattutto, una regione nella quale si è sperimentata con successo la possibile convivenza tra economia di mercato e protezioni dello stato sociale . Rappresenta quindi un luogo ideale per ragionare attorno all’efficacia e ai limiti delle politiche pubbliche e, in particolare, per riflettere sull’eredità delle scelte compiute nel passato (relative all’industria, alla residenza e alle infrastrutture) e per comprendere ragioni e conseguenze delle scelte promosse dagli amministratori attuali, soggetti protagonisti sulla scena regionale.

Dalla Toscana provengono anche alcuni contributi significativi per la costruzione di un immaginario alternativo, riguardante il modello di insediamento, il contenuto dei piani, i comportamenti delle amministrazioni locali, le forme di coinvolgimento della cittadinanza attiva.

In questa differente prospettiva, i caratteri del territorio e le relazioni fra quest’ultimo e i suoi abitanti rivestono un ruolo cruciale. Al contrario, nell’idea di sviluppo economico che ancora domina le politiche pubbliche regionali e locali, questo aspetto non è compreso o è giudicato secondario. Il terreno dove si confrontano e si scontrano con maggior forza le visioni alternative è la piana fiorentina, un’area investita da una trasformazione tanto intensa quanto problematica. Che si tratti delle decisioni riguardanti il destino delle aree urbane (come ci spiegherà Roberto Vezzosi) o quello dei brandelli di territorio rurale scampati, per ora, all’urbanizzazione (come ci spiegherà Lorenzo Venturini), le prospettive complessivamente delineate dai piani e dalle politiche pubbliche appaiono oggi ricche di contrasti. Conviene dunque esaminarle per capire compiere una salutare verifica dei limiti e delle contraddizioni possibili in seno all’azione pubblica.

Lontano dall’Italia. L'illustrazione dei casi italiani è affiancata da due comunicazioni rigurdanti alcune esperienze europee, potenzialmente virtuose. Vogliamo proseguire e idealmente concludere la trattazione di casi europei che negli anni passati ha riguardato il contenimento dello sprawl, la promozione dell’intercomunalità, la riqualificazione urbana e gli spazi pubblici, la realizzazione di insediamenti ad elevata vivibilità. Vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza che rivestono oltre confine le politiche pubbliche per le città, non solo nel caso di governi particolarmente attenti alle questioni ambientali e sociali, ma persino nel caso di governi più sensibili alle sirene liberiste (seppure con una connotazione market-oriented). I casi illustrati dimostrano la possibilità di concepire strategie di lungo respiro, non ripiegate sulla composizione di interessi contingenti, di formalizzarle attraverso strumenti di piano prescrittivi, di indirizzo e di valutazione, e di promuoverne l’attuazione attraverso iniziative mirate, sui luoghi e con le persone.

Maria Cristina GIbelli partirà dal caso milanese (riprendendo le considerazioni sviluppate da Giuseppe Boatti, in particolare sull'utilizzo della perequazione urbanistica) per poi approfondire modelli di pianificazione all'opera (sia prescrittivi, sia condizionali) alternativi a quello lombardo, facendo cenno ad alcune esperienze significative: il programma VINEX, in Olanda, e lo SDAU della regione Ile de France. Francesca Blanc, dopo un inquadramento relativo alle leggi catalane e ai piani vigenti nell’area metropolitana di Barcellona, illustrerà nel dettaglio due esempi di gestione dello spazio periurbano: i parchi agrari del Baix Llobregat e de Gallecs, Mollet del Vallès.

Per chi volesse documentarsi, su eddyburg sono raccolti numerosi articoli sulle vicende milanesi e toscane. Qui di seguito una selezione di quelli più recenti.

Sul dibattito che ha preceduto l’elezione del sindaco Pisapia

- Maria Cristina Gibelli, Fabrizio Bottini, Milano: rilanciare la metropoli è possibile

- Sergio Brenna, Ciò per cui vorremmo che Pisapia lottasse

Sul PGT

- Giuseppe Boatti, Milano PGT: I privati gestiscono tutto

Sull’Expo

- Gallione e altri, Expo 2015: innovazione o solo trasformazioni urbane?

Sui programmi integrati di intervento

- Bottini, Gibelli, Programmi di Dequalificazione Urbana

Sulle critiche alle politiche urbanistiche toscane

- Paolo Baldeschi, L’itinerario regressivo dell’urbanistica fiorentina.

- Paolo Baldeschi, Fiato corto della politica in Toscana

- Paolo Baldeschi, Analisi critica del PIT

- Marco Massa, Progetto di città e analisi critica della legge urbanistica

Sulle riflessioni nell’ambito della “scuola territorialista”

- Alberto Magnaghi, Una ricerca sul processo storico di formazione del territorio della piana di Firenze

- Alberto Magnaghi, L’arte degli scenari nella costruzione del progetto locale

Beni comuni e bene comune

Beni comuni è una espressione inflazionata, riemersa dalla notte dei tempi agli inizi del Terzo Millennio nella crisi del neoliberismo, come uno strumento utile a contrastare la privatizzazione e l’appropriazione del mondo da parte del capitale nelle sue due espressioni storiche – Stato e Mercato: come uno strumento capace di evitare che beni, servizi e rapporti sociali cessino di essere valori d’uso e siano mercificati, e cioè trasformati in valori di scambio per il profitto da realizzare sul mercato capitalistico degli equivalenti. Ovviamente i beni comuni esistevano anche quando non se ne parlava, nei due-tre secoli dopo la loro cancellazione con la Rivoluzione industriale che li ha considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile – come è accaduto all’agricoltura contadina nel secolo scorso. La loro riemersione è segno di una vitalità nuova di opposizione diffusa alla distruttività del capitalismo, ma soffre di un vuoto di conoscenza e di memoria storica, e questo favorisce il fiorire di interpretazioni diverse e talvolta opposte, che possono creare confusione e ritardare l’affermarsi dell’alternativa. Una di queste confusioni è quella tra “il bene comune”, che non è il singolare di beni comuni ed esprime invece l’interesse generale o il benessere; ma non una struttura materiale, come una risorsa naturale o uno spazio fisico, come sono i beni comuni.

Il neoliberismo e la privatizzazione dei beni comuni

Storicamente, la ripresa di interesse per i beni comuni risale alla crisi del neoliberismo, che ha fatto fare un ulteriore e significativo salto di scala alla distruttività del sistema capitalistico, dopo i precedenti salti di scala come quello del consumismo o consumo di massa del secondo dopoguerra che ha promesso la società dell’abbondanza nascondendone il lato oscuro – dall’aumento incontrollato dei rifiuti o scarti, al depauperamento delle risorse naturali usate oltre la loro “capacità di carico”, alla separazione sempre più marcata tra produzione per il soddisfacimento dei bisogni e produzione per l’aumento del profitto, allo spreco di risorse incluso quelle essenziali alla vita sul pianeta, alla rottura dei rapporti sociali, alla de-responsabilizzazione sociale dell’impresa (che ha delocalizzato nel mondo il ciclo di produzione di merci e servizi, rendendo possibile licenziare per email i lavoratori delle aziende del ciclo catena quando il loro profitto scende al di sotto del target prefissato dall’azienda madre).

Il capitalismo finanziario

Nella fase di attuale crisi del capitalismo finanziario, la proposta dei beni comuni come ordine sociale e istituzionale alternativo a quello del capitalismo non è più solo l’auspicio di studiosi e attivisti ma una necessità storica per arginare il saccheggio della natura e l’imbarbarimento sociale: il cambiamento climatico, la fame e la morte per fame di oltre un miliardo di persone, l’insicurezza alimentare, le malattie causate dall’uso di sostanze nocive in agricoltura e nell’industria, le leucemie e malformazioni causate dall’energia nucleare civile e militare, l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e delle catene trofiche, le nuove povertà, la disoccupazione specie dei giovani, l’esclusione e la marginalità sociale. Il finanzcapitalismo, come il sociologo Luciano Gallino ha definito questa fase della crisi, è una megamacchina (nel senso definito a suo tempo da Lewis Munford) sviluppata per “massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani sia dagli ecosistemi”. In questo, essa supera tutte le precedenti megamacchine perché “si estende sull’intero pianeta e penetra in modo capillare in tutti gli strati della società, della natura e della persona”. La deriva finanziaria del capitalismo appare ancora più gravida di conseguenze negative quando si osserva che i paesi emergenti del Sud del mondo – India, Cina, Brasile e Sudafrica – seguono lo stesso percorso di sviluppo del Nord, incuranti sia del suo fallimento sia del prezzo che così addossano sulle popolazioni locali, in lotta contro la loro spoliazione.

Cause e soluzioni della crisi finanziaria globale

Nella discussione pubblica, le cause della crisi finanziaria sono attribuite all’eccesso di spesa pubblica, alla scarsa produttività del lavoro, e soprattutto alla “mancata crescita” capitalistica, così come le soluzioni proposte vanno dalla privatizzazione delle utilities e dei servizi locali, alle grandi infrastrutture, alla svendita del patrimonio culturale, agli eurobonds – tutto a sostegno della crescita senza precisare di che cosa: la crescita è infatti l’imperativo degli economisti keynesiani e liberisti, così come dei politici, anche (soi disant) di opposizione. Tutti sappiamo che la verità è un’altra: in Occidente gli Stati non riescono più a pagare gli interessi sui debiti contratti per la loro politica di potenza (le guerre, l’esportazione del modello occidentale di sviluppo, le politiche razziste e xenofobe di immigrazione dal Sud), per la rete di corruzione sempre più estesa del settore pubblico oltre che di quello privato, per le scelte sbagliate e per le mancate scelte di politica economica e di politica ambientale, che provocano entrambe disastri naturali, sociali ed economici, indennizzati a posteriori senza mai affrontarne le cause di fondo. I governi dell’Occidente hanno consegnato l’economia prima alle multinazionali prima e dopo alla finanza e ai mercati: grandi patrimoni, grandi banche, fondi di investimento, fondi pensione, assicurazioni – speculatori di professione, come li chiamava Keynes - 10 milioni di persone, secondo stime recenti delle Nazioni unite, che decidono le sorti di 7 miliardi di persone. Gli Stati di tutti i paesi occidentali, e soprattutto europei, tentano ora di scaricare il prezzo dei loro errori sui pensionati e sui lavoratori a reddito fisso, sugli studenti, sui malati e sui Comuni, che dovrebbero essere il presidio della democrazia: ma la democrazia è da tempo incompatibile con le richieste dei mercati e con il capitalismo.

Di che parliamo quando parliamo di beni comuni

I beni comuni sono innanzitutto quelli legati alle risorse naturali necessarie alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi sulla terra, umani e non, e cioè all’acqua, all’aria, alla terra e al fuoco-energia, i quattro elementi vitali di Empedocle, il filosofo vissuto nel quarto secolo a.C. Ciascuno di questi elementi è molte cose insieme, in particolare la terra è terra fertile da coltivare, biodiversità, pascoli e foreste, ma anche suolo su cui costruire, risorse del sottosuolo, etc.; l’acqua è indispensabile alla vita e in quanto tale è un diritto umano ma è anche necessaria a tutte le produzioni agricole e industriali, oltre ad essere la linfa vitale della terra. Vi sono poi anche altri beni comuni come quelli culturali che non sono legati direttamente alle risorse naturali e sono invece il frutto della interazione tra l’uomo e la natura come il paesaggio, i beni artistici e il patrimonio culturale. Altri beni comuni sono i servizi pubblici e quelli di welfare – l’acqua potabile e i servizi igienici nelle abitazioni, i trasporti collettivi, la scuola e gli ospedali, costruiti nel corso del tempo con il risparmio e il lavoro dei cittadini. Esistono infine altri beni comuni detti della conoscenza, che includono i saperi, internet, i creative commons e wikipedia, il variegato mondo digitale e non della comunicazione.

La sussistenza

Nel mio libro recente, Beni vs Merci, che è alla base della mia riflessione anche in questa sede, mi occupo soprattutto dei beni comuni di sussistenza, quelli legati alla natura non perché penso che gli altri beni comuni sono meno importanti ma perché sono convinta che ogni categoria di beni comuni ha una sua specificità e deve essere analizzata a partire dal suo statuto, evitando semplificazioni che non aiutano né a capire né a favorire il cambiamento di paradigma da tutti auspicato a fronte della distruttività del capitalismo nella sua fase di sistema finanziario, che produce ricchezza di carta. Una seconda ragione di questa scelta sta nel fatto che i beni comuni naturali o di sussistenza riguardano tutti – ricchi e poveri, nei paesi del Nord e in quelli del Sud. Per vivere (e stare in buona salute) tutti abbiamo o avremmo bisogno di aria pura e di acqua non inquinata, di una porzione anche se piccola di terra su cui vivere e costruirsi una casa, di energia e di fuoco per cucinare e accedere agli altri beni comuni come i trasporti o internet. Ma acqua, aria, terra e fuoco non si producono in laboratorio perché sono la vita stessa, un dono gratuito della natura a tutti noi. Se l’attività degli uomini distrugge questo dono, cessa la vita sulla Terra come è già successo a molte comunità e civiltà in passato. La sussistenza cambia nel tempo e nello spazio perché è storicamente determinata: ma la base cu cui si fonda non è opera dell’uomo bensì della natura. Si può dunque affermare che “Nessuno può fare a meno della natura”.

Un po’ di storia

In passato in Europa, e ancora oggi in molte parti del Sud del mondo e in alcune parti dell’Europa - come racconta Elinor Ostrom, la studiosa americana premio Nobel per l’economia nel 2009 - i beni comuni di sussistenza sono risorse naturali come ad esempio un campo che una comunità coltiva in regime di autogestione senza averne la proprietà; la comunità ne è solo usufruttuaria, e proprio per questo usa il bene in modo sostenibile senza esaurirlo, contrariamente a quel che accade nel regno delle merci; i beni comuni di sussistenza possono essere anche diritti d’uso collettivi sui frutti derivanti da un bene naturale come gli usi civici in Italia. In entrambi i casi, i beni comuni di sussistenza esprimono una forma di organizzazione sociale e produttiva basata sulla comunità, diversa e alternativa a quella del mercato capitalistico perché nell’ambito della comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto, come dimostrano gli studi di caso condotti dalla Ostrom. Questa forma di organizzazione sociale e produttiva si fonda sulla partecipazione dal basso alla cosa pubblica mette in discussione la democrazia di mandato la dicotomia Stato-Mercato e il potere burocratico e parassitario di questi due soggetti. Questa forma di organizzazione è stata la norma in Europa per diversi secoli ed è ancora una realtà importante nei paesi in ritardo di sviluppo del Sud, dove 1/3 circa della popolazione mondiale vive e sopravvive grazie ad essa, secondo stime delle Nazioni Unite.

I beni comuni oggi: una proposta

Noi cittadini del Nord non ne siamo consapevoli, ma i beni comuni e le comunità esistono anche nelle città e nelle metropoli del Nord, non certo nella forma delle comunità di villaggio medievali ma come movimenti/comitati che si organizzano e lottano per la difesa del territorio e della salute, per la scuola pubblica e per una corretta gestione dei rifiuti, per l’acqua pubblica e per i servizi pubblici locali come si è visto nei recenti referendum su acqua, servizi pubblici locali, energia nucleare, che hanno mobilitato il paese per mesi, e hanno conquistato il consenso di quasi 28 milioni di elettori. La battaglia non è certo vinta una volta per tutte, e del resto nessuno si illude che la gestione “pubblica” dell’acqua trasformi l’acqua in bene comune, autogestito dagli utilizzatori. E’ una vittoria che rischia di essere svuotata di significato già il giorno dopo le votazioni, perché i cittadini non hanno più potere dopo il voto, quando la realizzazione dei risultati del voto passa nelle mani delle burocrazie di partito. Per evitare che ciò accada, occorre riconoscere ai cittadini, organizzati in comitati e movimenti, la sovranità di co-decidere – insieme alle altre istanze come i governi locali – sulla destinazione della risorsa in tutto il suo ciclo di vita, a monte e a valle. L’esempio del comitato della Val di Susa, che da vent’anni lotta contro la costruzione di una linea ferroviaria ad altra velocità, è un caso emblematico di questo problema: occorre cambiare le leggi in modo che i comitati come quello della Val di Susao possano sedersi al tavolo della trattativa avendo lo stesso potere delle autorità locali, nazionali ed europee. E’ questa la proposta che nel mio libro ho definito “il ritorno dei beni comuni”, che va ben oltre la loro riappropriazione, rivendicata in tutte le parti del Sud del mondo dalle popolazioni locali. Come dice Boaventura de Sousa Santos al punto quattro della “Lettera alle sinistre” allegata alla presente, “L’esperienza dimostra che nel mondo esistono numerosissime realtà non capitalistiche, che chiedono di essere riconosciute come il futuro dentro il presente”.

Lo “sviluppo” locale

Un aspetto particolarmente importante a favore del paradigma dei beni comuni riguarda la valorizzazione del locale, che il capitalismo svilisce e distrugge. Il relatore speciale per il diritto al cibo delle Nazioni Unite, Oliver De Schutter, ha sostenuto nel suo rapporto all’Assemblea generale del dicembre 2010 che l’agricoltura organica locale permetterebbe di raddoppiare la produzione agroalimentare dell’Africa in un periodo compreso tre 3 e 10 anni. L’agricoltura è un esempio emblematico di questa questione: rispetto all’agricoltura monoculturale delle multinazionali, l’agricoltura locale riduce la distanza tra produzione e consumo facendo, riduce sensibilmente la produzione di CO2, garantisce il valore nutritivo dei cibi, contribuisce alla difesa idrogeologica del territorio e al mantenimento della fertilità dei suoli, alla sicurezza e alla sovranità alimentare e alla conservazione della biodiversità, che è alla base della vita sul pianeta. La produzione locale valorizza inoltre l’intelligenza, l’energia e i saperi delle popolazioni locali che conoscono meglio di qualsiasi tecnico della Banca mondiale le potenzialità produttive del loro territorio e le attitudini delle comunità locali. La maggior parte dei fallimenti dei programmi di sviluppo e cooperazione verso i paesi del Sud dipende proprio dal dirigismo astratto e predatorio con cui i tecnici si rapportano alla popolazioni locali, come se esse fossero “ignoranti” e inferiori. Quei programmi esprimono solo gli interessi delle multinazionali e dei governi del Nord, non quello delle popolazioni locali: dicono di valorizzare i beni comuni locali, e invece li distruggono.

Paradigmi a confronto

Il primo paradigma – quello dei beni comuni - permette di riunificare produzione e consumo, che il mercato capitalistico ha drammaticamente separato;

- permette di produrre beni e servizi che non sono merci;

- non distrugge le risorse naturali ma le usa in modo sostenibile;

- è basato sulla cooperazione e non sulla competitività

- misura la produttività in base al soddisfacimento dei bisogni e non alla max del profitto;

- non produce scarsità, neanche quando le risorse sono finite e non riproducibili;

- nella comunità, le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto

- opera in regime di autogoverno, e permette quindi la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte politiche che li riguardano;

- rompe pertanto la dicotomia soffocante Stato-Mercato.

Nessuno è tuttavia tanto ingenuo da pensare che la gestione delle risorse naturali da parte delle popolazioni locali sia di per sé sufficiente a far funzionare un società complessa come quella oggi prevalente, rendendolo il paradigma dei beni comuni totalmente alternativo al paradigma del capitalismo: vi sono scelte politiche che richiedono un livello decisionale superiore a quello locale, e al momento non è chiaro come sarà risolto questo problema. Oggi non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che la forze, le idee e la determinazione per avviare la transizione non possono venire che dal movimento carsico che in tutto il mondo impegna milioni di persone alla ricerca di un mondo diverso. Se il processo avrà un seguito, è possibile che spezzoni delle attuali classi dirigenti siano disponibili a sostenerlo – ma non saranno loro ad innescare il processo (Guido Viale su il manifesto, 17 agosto 2011)

La riconversione ecologica della società e la riterritorializzazione dei mercati

Il cambiamento di paradigma si realizzerà in molti modi, primo tra tutti – specie nei paesi industrializzati dell’Occidente – attraverso la riconversione ecologica dei settori più sensibili come quelli in crisi perché producono beni obsoleti com’è l’automobile nel quadro attuale della mobilità; le energie rinnovabili non inquinanti e decentrate sul territorio; l’agricoltura organica e contadina; la cura e la manutenzione del territorio, oggi ridotto a merce edificatoria. Ma la riconversione non va intesa come un progetto deciso a monte dallo Stato (la pianificazione), ma come un processo dal basso, avviato fabbrica per fabbrica, territorio per territorio, campo per campo. La riterritorializzazionde dei mercati non è un obiettivo deciso da qualche autorità centrale o locale, ma una scelta consapevole dei cittadini che si difendono dalla distruttività del capitale e dei mercati. I beni comuni di sussistenza sono locali per definizione; la loro forza e capacità di resistere nel tempo, nonostante tutti i tentativi di eliminarli, sta proprio nella loro diversità e nella flessibilità con cui le comunità sono capaci di adattarsi al contesto in cui operano. I soggetti del cambiamento, da cui trarre le idee e la forza per innescare il cambiamento, vanno identificati paese per paese, vista la diversità esistente tra di essi. Nel caso dell’Italia, i soggetti che animano i movimenti sono gli operai delle fabbriche in crisi, gli studenti, i giovani disoccupati, le donne, i cittadini in lotta contro i rifiuti e l’alta velocità ferroviaria, quelli colpiti oggi dalla manovra economica decisa dal governo per “salvare” il paese.

Bibliografia minima

Zygmunt Barman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza 2001

Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Roma-Bari, Laterza 2011

Boaventura de Souza Santos, Lettera alle Sinistre, Carta Maior, 29 agosto 2011

Luciano Gallino, Finazcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi 2011

Elinor Ostrom, Governare I beni collettivi, Venezia, Marsilio 1990 e 2006

- Cooperating for the Public Good: Self-Governance, Polyentricity and the Commons, ciclostilato

Giovanna Ricoveri, Beni comuni vs Merci, Milano, Jaca Book 2010

- a cura di, Beni comuni tra tradizione e futuro, Bologna, Emi 2005

Guido Viale, Vari saggi sul suo blog (guidoviale.blogspot.com) e sul quotidiano il manifesto

PROGRAMMA DI MASSIMA



Premessa



Dopo aver ragionato, nell'edizione 2010 della scuola, sui problemi connessi alla rendita ci vogliamo occupare dei modi per rimediare alla "malattia della crescita".

Per un crescente numero di studiosi di tutto il mondo, esperti delle discipline umanistiche e scientifiche, non è sufficiente cercare meccanismi correttivi del modello economico-sociale dominante, bensì occorre ipotizzare un modello alternativo, in sostituzione dell’attuale fondato su un’illimitata crescita della produzione di merci. Che implicazioni comporta, per la pianificazione territoriale e urbanistica, abbandonare uno scenario di crescita/sviluppo per assumerne uno che sia basato sul limite, sulla conservazione o sulla decrescita? Come possiamo immaginare città e territori del dopo-“sviluppo”?

Prima giornata (mercoledì 14 settembre).

Dopo l’introduzione alla scuola (Mauro Baioni), nella quale ripercorreremo il percorso seguito nelle sette precedenti edizioni, partiamo, come di consueto, dalle parole. Quest’anno, della parola “sviluppo”.

L’intervento introduttivo (Ilaria Boniburini) esplorerà il concetto di sviluppo nelle sue varie interpretazioni e accezioni, attraverso un percorso critico che metterà in evidenza sia i limiti e le inadeguatezze del paradigma dello “sviluppo” nell’ analizzare, interpretare e guidare l’evoluzione delle società, sia gli effetti talora devastanti che esso ha provocato nel mondo. Si sosterrà la necessità di individuare (per leggere, interpretare la realtà e guidare i processi futuri delle nostre società) il “bene comune” come concetto di riferimento e fondamento delle proposte riguardanti i diversi aspetti della società di cui deve tener conto una pianificazione della città e del territorio adeguata ai bisogni dell’uomo, alle reali condizioni del nostro pianeta e al patrimonio conoscitivo finora acquisito.

I successivi interventi forniranno elementi di conoscenza e di riflessione su alcuni temi di fondo. L’economista Giovanna Ricoveri illustrerà in concetto di “bene comune” nella sua evoluzione e nelle sue diverse componenti e articolazioni, argomentando la tesi che la difesa e riconquista dei beni comuni è la risposta necessaria per neutralizzare la capacità distruttiva del sistema economico-sociale esistente e avviare la costruzione di un sistema nuovo. L’agronomo Nicola Dall’Olio illustrerà, in relazione ad alcune situazioni specifiche, le drammatiche conseguenze della mercificazione di un rilevante bene comune (il territorio agricolo) sulle condizioni di vita e sulle stesse risorse essenziali per la specie umana. Il giurista Ugo Mattei ragionerà sulle implicazioni del nuovo paradigma, fondato sul concetto di bene comune nel campo del diritto e dell’assetto proprietario, e sulla necessità di arricchire la gamma delle forme della proprietà reintroducendo (accanto alla privata e alla pubblica) quella delle proprietà comune. Il giornalista Loris Campetti introdurrà il tema, oggi centrale, del lavoro. La riduzione del lavoro, da strumento essenziale della società per la comprensione e il governo del mondo materiale e immateriale, dopo la sua riduzione a merce, è sottoposto oggi a un ulteriore processo di impoverimento ed emarginazione. Il passaggio dal paradigma dello “sviluppo” a quello del bene comune può essere l’occasione per restituirgli dignità e valore pienamente umano facendone lo strumento per affruntare alcune grandi esigenze sociali e territoriali. Infine lo storico Piero Bevilacqua fornirà elementi di discussione e riflessione sul ruolo della formazione, della conoscenza e dei saperi nella costruzione di un nuovo paradigma, sulle condizioni che l’applicazione che esso pone al sistema dei saperi, oggi caratterizzato dalla frammentazione e dalla subordinazione all’economia data.

Seconda e terza giornata (giovedì e venerdì, 15-16 settembre)

Nelle giornate centrali, coordinate da Mauro Baioni e Maria Cristina Gibelli con l’apporto di esperti dei casi trattati (Giuseppe Boatti, Roberto Vezzosi, Lorenzo Venturini, Serena Righini, Francesca Blanc), la nostra attenzione sarà concentrata “attorno alla linea rossa”, il limite tra città e campagna. Lungo questo limite le contraddizioni dello sviluppo si mostrano con particolare evidenza e i tentativi di coniugare l’arresto del consumo di territorio con la promozione di un nuovo modello di insediamento si scontrano con l’apparente ineluttabilità dell’espansione urbana. Ci proponiamo di esaminare i conflitti d’uso del territorio in corso, i soggetti e gli strumenti adoperati, le poste in gioco e le sfide per il futuro.

L’attenzione sarà mirata su due casi italiani - Milano e Firenze - selezionati perché rappresentativi dei problemi da affrontare, del grado di autorevolezza dei poteri pubblici, del ventaglio di politiche territoriali messe in campo, del contenuto e dell’efficacia di piani urbanistici e territoriali, del ruolo svolto da abitanti, terzo settore, soggetti economici. Per ciascun caso cercheremo di individuare quali sono le trasformazioni in atto e le strategie che le ispirano, quali le resistenze opposte dalla pianificazione e dalle tensioni antagoniste, quali gli insegnamenti che se ne possono trarre per delineare i nuovi obiettivi e gli strumenti adeguati a raggiungerli. La lettura critica delle vicende milanesi e toscane prenderà spunto non tanto da una comparazione tra concezioni alternative della pianificazione e dei suoi strumenti, quanto piuttosto dalla lettura critica dei caratteri - fisici, funzionali, sociali - delle parti di territorio investite dalle trasformazioni.

Ad un viaggio attorno alle città seguirà la descrizione dei principali piani e progetti (l'Expo e il piano di governo del territorio di Milano, il piano di indirizzo territoriale e i piani strutturali di Firenze e delle città limitrofe), per concludersi con una riflessione sui progetti riguardanti il parco Sud e il parco della Piana Fiorentina. Rifuggendo da ogni contrapposizione caricaturale (campagna vs città, piccolo vs grande, locale vs globale), crediamo sia possibile trovare in queste ultime esperienze (e in altre simili, relative al contesto internazionale, tra le quali Barcellona) indicazioni utili per tratteggiare alternative possibili ai modelli dominanti di uso del territorio permeati dalle ideologie di crescita e sviluppo.

Quarta giornata (sabato 17 settembre)



Infine, nella giornata conclusiva (introdotta da Edoardo Salzano), vogliamo tirare le fila delle riflessioni compiute nelle due edizioni della scuola dedicate al tema “urbanistica ed economia”, soffermandoci sulla nuova domanda di pianificazione che emerge dalle tensioni della società civile riguardanti l’ambiente e la salute, l’equità e la possibilità di accesso ai beni comuni, il riconoscimento del paesaggio come “eredità da preservare” e come “componente essenziale del contesto di vita”, la ricerca di nuovi stili di vita.

Proporremo innanzitutto una formulazione di “economia” e di “lavoro” riferite alla persona umana e non all’economia data. Torneremo sulla questione della rendita urbana, trattata nella sessione 2010 della scuola: non si può eliminarla, ma ci si può adoperare per ridurne la lievitazione e per trasferirla al suo produttore, la collettività. E soprattutto (è il mestiere degli urbanisti) si può combattere la “città della rendita” per costruire la “città dei cittadini”. Il trionfo della prima ha sconfitto la pianificazione urbanistica quale è stata costruita nel XIX e XX secolo, e ha segnato il prevalere di una razionalità (quindi di una pianificazione) finalizzata a obiettivi che si sono rivelati devastanti.

Ci proponiamo di concludere questo ciclo della scuola enunciando i principi che devono essere alla base della “città dei cittadini” e, a partire da questi, lavorare per ri-costruire una pianificazione coerente con il paradigma della città come bene comune, individuando i nuovi strumenti necessari per dare risposte adeguate alla nuova domanda, innanzitutto recuperando e rinnovando obiettivi, concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati.

Al termine dell’intervento si aprirà la discussione con un gruppo di amici e collaboratori di eddyburg (tra i quali Vezio De Lucia, Walter Tocci, Giovanni Caudo, Chiara Sebastiani) e con i docenti e studenti della scuola.

Preambolo



«Oltre la crescita, dopo lo “sviluppo”». Davvero impegnativo il tema della VII scuola di eddyburg, ma necessario. La sua necessità non era così evidente quando abbiamo programmato le due edizioni della scuola dedicate ai rapporti tra urbanistica ed economia, lo è diventato via via che si sono manifestati i reali connotati della crisi. Una crisi che non è solo congiunturale, “nel” sistema, ma - come la definiscono quelli di cui condividiamo le idee - “del” sistema. Inevitabile cominciare a ragionare su ciò che potrà essere oltre la crescita, dopo lo “sviluppo”, se vogliamo continuare a occuparci del territorio, dell’habitat dell’uomo, e della sua migliore utilizzazione: se vogliamo continuare a occuparci anche di pianificazione.

In questi anni eddyburg e la scuola si sono impegnati a dare conto delle caratteristiche del neoliberismo e a spiegare la formazione, lo sviluppo, la retorica, le strategie e gli effetti della città neoliberista. Di questo percorso critico danno testimonianza anche i libri scaturiti dalle diverse edizioni della scuola, ognuno dei quali ha contribuito a svelare un pezzo dell’immaginario urbano neoliberista oggi dominante.

Nelle letture che suggeriamo oggi (alcune sono stampate in forma cartacea e saranno distribuite alla scuola, la maggioranza sono scaricabili da eddyburg o da altri siti) indichiamo alcuni sentieri di ricerca e di riflessione che ci sembrano utili ad introdurre il percorso dei quattro giorni della scuola.

Nel primo gruppo degli scritti di cui suggeriamo la lettura proponiamo alcuni testi, per così dire, di fondamento rispetto ai temi affrontati nei gruppi successivi, per ribadire concetti importanti come quelli di economia e territorio, per introdurre la critica al concetto odierno di sviluppo e ricordarci cos’è la rendita e i danni che essa comporta quando diventa dominante su altri obiettivi.

Nel secondo gruppo abbiamo inserito testi che aiutano a ragionare sulle caratteristiche della crisi del modello dominante e sulla costruzione di immaginari potenzialmente alternativi: germi di una possibile contro-egemonia, per riferirci alla definizione gramsciana. Sono testi che non riguardano l’urbanistica né solo la città in senso “tecnico”. Eddyburg assume per la città una definizione ampia, e ricorda sempre i tre aspetti, le tre facce della città presenti nelle tre parole che la definiscono: urbs, civitas, polis, la città nella sua materialità, nella società che la vive, nel governo che la organizza. In questa fase, poi, siamo convinti che non può esservi riforma della città (un nuovo “progetto” di città), senza, e forse prima, un nuovo progetto di società e di politica. Quindi anche di economia, di filosofia, di etica…

Nel terzo gruppo abbiamo inserito alcuni testi che possono aiutare a comprendere come lavorare per tradurre gli immaginari alternativi in trasformazioni dell’assetto della città: più precisamente, dell’habitat dell’uomo, che è divenuto l’insieme del territorio. Abbiamo scelto le linee di ricerca e di sperimentazione nelle quali è più chiaro ed esplicito il nesso tra progetto di città e progetto di società e di governo, poiché questo ci sembra sia l’approccio più interessante e utile in un momento di riflessione comune che aiuti a fondare un uovo paradigma, realmente alternativo e potenzialmente egemonico.

Alcuni capisaldi:

economia, città, territorio, rendita e sviluppo



Nelle due edizioni VI e VII (2010 e 2011) ci siamo occupati di economia. Ci siamo riferiti all’economia data: quella, in particolare, della fase attuale dell’economia capitalistica. Ma se si vuole guardare un po’ di là dall’oggi (e la crisi che travaglia il mondo ci sollecita a farlo) dobbiamo pensare all’economia in senso più ampio: come dimensione necessaria della vita dell’uomo e della società. Lo scritto di Claudio Napoleoni ci aiuta a farlo, al di là della congiuntura e con un forte senso di innovazione delle categorie date: Economia, secondo Napoleoni

Il nostro interesse specifico è alla dimensione territoriale dei fenomeni. Ma la parola territorio è impiegata oggi con significati molto diversi. Rinviamo a tre scritti che ci sembrano particolarmente significativi: Salzano, Habitat bene comune esprime una visione di tradizione urbanistica, e quindi considera il territorio come il prodotto di un’estensione della città; Bevilacqua, Che cos’è il territorio, con fortissime analogia al precedente, esprime l’approccio di uno storico dell’ambiente e considera il territorio come habitat dell’uomo. Infine per precisare che cosa intendiamo per città rinviamo a Salzano, Crisi dello spazio urbano o fine (morte) delle città?

Nell’edizione 2010 della scuola abbiamo trattato la questione della rendita immobiliare, che è uno degli snodi più significativi del rapporto tra economia e territorio. Sull’argomento rinviamo a due scritti diversamente utili. Il primo Salzano, Parole per ragionare sulla rendita, cerca di spiegare che cos’è la rendita, e in particolare quella immobilare, partendo dalla sua definizione economica e in senso generale; il secondo. Walter Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana . illustra magistralmente il modo in cui la rendita immobiliare ha assunto un ruolo assolutamente ed egemone nell’economia (e quindi nel progetto urbanistico) del neoliberismo.

Per una critica al concetto di sviluppo consigliamo alcuni libri, quasi passaggi obbligati per ripercorrere l’evoluzione del concetto e comprendere l’arbitrarietà operata nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso e di attribuirle così positività a priori, e per mettere in evidenza come lo sviluppo sia stato un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Un testo breve e conciso è la voce “sviluppo” nel Dizionario dello sviluppo a cura di Wolfgang Sachs, in cui vengono passati in rassegna i concetti chiave che ruotano intorno alla ‘macchina dello sviluppo’ esaminandoli criticamente e mettendone in luce le contraddizioni. Per approfondimenti si può partire da Ivan Illich, che per primo ha messo in discussione il benessere derivato dallo sviluppo, leggendo Per una storia del bisogni. Altre due opere pioneristiche e ancora attualissime sono: Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale di Gilbert Rist e L’occidentalizzazione del mondo di Serge Latouche, entrambi per approfondire il concetto di sviluppo inteso come ‘dispositivo’ di potere per dominare il Terzo Mondo.

Dalla crisi del modello dominante

alla costruzione di immaginari contro-egemonici

I limiti sociali ed ecologici dello sviluppo, il degrado indotto dalla mercificazione dei beni primari, la crescente conflittualità internazionale attorno alle risorse naturali, l’aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, delle risorse, dei poteri decisionali e di rappresentazione (che rafforzano gli esistenti spazi di esclusione e ne creano di nuovi, sia a livello globale che locale), le mutate drammatiche condizioni del mondo del lavoro, la riduzione delle garanzie sociali sono il risultato delle trasformazioni strutturali del sistema socio-economico, svelato dalla crisi in atto. Al neoliberalismo è dedicata una cartella su eddyburg: Capitalismo oggi. Molti sono su eddyburg gli articoli che descrivono e criticano la città neoliberista. Segnaliamo due lavori di Salzano: la parte II del testo La città come bene comune. Costruire il futuro partendo dalla storia e La città dei proprietari. Sui temi dell’esclusione e segregazione suggeriamo Paola Somma La città dell’ingiustizia. Politiche urbanistiche e segregazione.

Sui temi della disuguaglianza, povertà, desocializzazione del lavoro, dalla Disoccupazione al supersfruttamento ed esclusione sociale in relazione dell’era dell’informazione si legga, in Lettera internazionale n 70, Manuel Castell,I due volti della globalizzazione dei mercati .

Se la sopravvivenza del neoliberalismo ha bisogno di ri-organizzazione e cambiamenti continui, allo stesso tempo i conflitti e le contraddizioni generano, inevitabilmente, una resistenza. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le contestazioni agli effetti nefasti delle politiche neoliberiste, ma anche al progetto neoliberista preso nella suo complesso (e quindi alle istituzioni, all’ideologia e alle pratiche ad esso riferite). Si manifestano proteste di massa, dalla scala locale a quella nazionale, che sfidano spesso le pratiche e le politiche dello stato, mentre alla scala transnazionale di solito contestano l’operato e le visioni di organizzazioni e coalizioni internazionali come la Banca Mondiale o il G8. Oppure si esprimono come azioni di lobby relative ai salari, al lavoro, al problema della casa, a determinati servizi pubblici, alla salute ambientale e altro ancora. O ancora si manifestano in pratiche che generalmente ri-organizzano le esistenti relazioni enfatizzando una migliore interazione tra esseri umani e natura, tra ambiente naturale e ambiente antropico. E infine si traducono anche in proposte alternative complesse che includono diversi modi di vedere e comprendere il mondo, di sentire, nominare, agire, e potrebbero portare alla costruzione di una società completamente diversa.

Le migliaia d’iniziative di contrasto al saccheggio dei beni comuni, frammentate e disperse sul territorio, hanno trovato in questi ultimi anni più occasioni d’incontro. Il grande successo della raccolta di firme e la vittoria del referendum sull’acqua pubblica e quella per le energie alternative, il riemergere dell’Onda per la difesa della scuola pubblica, il movimento Stop al consumo di territorio e altri eventi come l’incontro di Teano “per un nuovo patto tra gli italiani” testimoniano che trent’anni di “finanzacapitalismo” sfrenato e consumismo diffuso non hanno, di fatto, innalzato il benessere generale della popolazione, e che il sistema dato non è in grado di soddisfare i bisogni e di dare risposta ai problemi della società.

In questo quadro, riacquistano forza alcuni vecchi concetti, come quello di giustizia sociale e diritto alla città e ne emergono di nuovi, come la decrescita, che si pongono decisamente controcorrente rispetto al modello di vita consolidatosi in questa fase del capitalismo. Questi concetti non sono una mera resistenza al neoliberalismo. Sono una vera e propria contro-egemonia e rimandono a pratiche e immaginari capaci di affermare visioni, ideali, norme, organizzazioni socio-economiche e politiche profondamente alternativi al sistema capitalistico.

Per gli studiosi questi concetti rappresentano un terreno di indagine sia per analizzare da punti di vista differenti i fenomeni correnti che per esplorare nuovi orizzonti, teorizzando nuove forme di organizzazione socio-spaziale. Per i movimenti che aspirano al un cambiamento sostanziale dell’ambiente in cui viviamo e della società che siamo, sono uno slogan, una bandiera, una parola d’ordine che rimandano ai valori di equità, democrazia, ecologismo. Due sono i grandi temi che accomunano questi progetti alternativi: il tema della giustizia sociale e quello dell’ambiente.

Wolfgang Sachs in “Ambiente e giustizia sociale” torna a parlare di giustizia sociale in connessione sia con la questione ecologica che quella intergenerazionale; egli si riferisce ad un concetto di giustizia che coniughi giustizia sociale ed ecologia proiettando sull’asse temporale il principio dell’equità nel rapporto tra le generazioni presenti e quelle future; vedi l’intervista di Giuliano Battiston I limiti della natura allo sviluppo dei desideri http://eddyburg.it/article/view/11389/.

I temi dell’ equità ed dell' ecologia si ritrovano in quello che oggi è probabilmente l’immaginario contro-egemonico più avanzato in termini di elaborazione concettuale: il movimento per la decrescita, verso una società equa, sostenibile, partecipata (www.decrescita.it) che rimette in discussione il mito dello sviluppo e della crescita come fondativo della nostra società. Serge Latouche, uno dei padri del movimento, dice che parlare di decrescita è come lanciare una sfida, è “un atto iconoclasta, per un altro di un nuovo modo di raccontare il nostro essere qui, ora, nel mondo”, come argomenta il Manifesto della Rete italiana per la Decrescita. La società della decrescita auspica l’uscita dall’economia (“rimettere in discussione il dominio dell'economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti”), la drastica riduzione dell'orario di lavoro imposto (per assicurare a tutti un impiego soddisfacente), un drastico ridimensionamento dei processi che comportano danni ambientali.

L’impegno per una sostenibilità e una giustizia ecologica spinge a rivedere tutte le forme di opposizione tra esseri umani e gli altri organismi viventi o tra gli esseri umani e la natura e alla consapevolezza di un cambiamento reso necessario dal riconoscimento della crisi e dall’accettazione di una responsabilità personale e politica, come spiega il testo Politica capace di fare futuro.

Di seguito i link ad alcuni articoli sul recente dibattito su crescita e decrescita innestato dall’articolo di Guido Viale L'economia del mondo verso il default; Valentino Parlato, Risposta a Viale. Qualcosa deve pure crescere e Paolo Cacciari, Caro Viale, la decrescita è necessaria .

L’elemento ddel cibo e dell’ agricoltura, e quindi della sovranità alimentare, acquistano un ruolo importante in queste elaborazioni, perchè come dice Latouche questo è la colonna portante di tutto il discorso, non fosse altro che perché noi tutti siamo viventi perché mangiamo. Per un argomentazione sulla sovranità alimentare si legga l’interessante dibattito tra Latouche e Petrini e l’articolo di Guido Viale Perché il mondo si sente così male.

L’equità e la questione distributiva in una prospettiva di giustizia sociale sono alla base di un altro concetto importante, il “bene comune”, che in questi ultimi anni ha visto una crescente elaborazione concettuale e un ampio consenso tra moltissimi movimenti che si battono per una società più giusta e un ambiente più sano,. Molti sono i libri usciti in questi ultimi due anni sul tema. Per una definizione chiara e l’analisi del problema che si pone alla cultura e alla società di oggi si legga Ugo Mattei, Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato. Per una genealogia del termine inviatiamo anche a leggere i due articoli di Piero Bevilacqua, Il racconto dei beni comuni e di Ugo Mattei Forme del diritto. Breve genealogia dei beni comuni . Per un approfondimento segnaliamo La società dei beni comuni, un utilissimo libro curato da Paolo Cacciari (di cui potete leggere in eddyburg la recensione di Carla Ravaioli) ; Ibeni comuni ripensano la democrazia in cui Cacciari spiega come alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l'uso; infine segnaliamo gli articoli di Ugo Mattei Beni Comuni, e Beni Comuni. Il sipario aperto dal potere del noi. Last but not least, il libro di Giovanna Ricoveri Beni comuni vs merci; un assaggio di quest’ultimo lo trovate in un’intervista all’autrice.

Nelle riflessioni e nelle pratiche controegemoniche assume un peso crescente il legame tra la difesa del territorio e degli altri beni comuni e la difesa del lavoro. Ma può la difesa del lavoro ridursi alla difesa dell’occupazione così come oggi il sistema vigente la determina? Alcuni scritti invitano a guardare al di là della contingenza e a rifondare la stessa concezione del lavoro come attività primaria dell’uomo utile sl progresso dell’umanità. Oltre allo scritto di Napoleoni citato suggeriamo la lettura dei seguenti testi. Salzano, Eddytoriale 144 ; Viale, L'economia del mondo verso il default ; Bevilacqua, Lavoro d'autunno,

Gli immaginari alternativi che emergono non riguardano solo l’organizzazione materiale della nostra esistenza, ma anche lo stesso modo di pensare. Secondo Boaventura de Sousa Santos, infatti, solo andando oltre il modo di pensare ‘eurocentrico’ e ‘nord-centrico’ da lui definito “abissale” possiamo elaborare un idea di scienza come “esercizio di cittadinanza e di solidarietà, la cui qualità si misura in ultima istanza attraverso la qualità della cittadinanza e della solidarietà che promuove o rende possibile”. Il pensiero abissale “è una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanza e all'inesistenza”. Occorre invece una versione ampia di realismo, che, contrariamente all'interpretazione positivistica non riduce la realtà a ciò che esiste, ma include anche «le realtà rese assenti dal silenzio, dalla repressione e dalla emarginazione», le realtà «attivamente prodotte come non esistenti», e insieme le potenzialità, le latenze, le tendenze e le «emergenze» presenti in ogni frammento di realtà. Si legga l’intervista di Giuliano Battiston Passaggio epistemologico al sud globale.



Testi attorno alla traduzione

degli immaginari contro-egemonici

nel campo dell'urbanistica



I temi dell’equità e della giustizia sociale riemergono anche nell’ambito dell’urbanistica, per ridare valore a obiettivi sociali, enfatizzarne il ruolo politico, prima ancora di quello tecnico dell’urbanistica e per controbilanciare l’enfasi dell’efficacia sulla scia di una politica che ha cercato di raggiungere la “governabilità” riducendo lo spazio della democrazia. Una Voglia di equità (raccontata da Boniburini e Durante: da non confondere con la perequazione, come risulta chiaro dall’eddytoriale 119.

Una lezione magistrale sulla qualità sociale della pianificazione (e sulla crisi della politica e le sue ricadute sulla vivibilità e il territorio) è il testo di Luigi Scano, Il governo pubblico del territorio e la qualità sociale. In effetti non tutte le pratiche di pianificazione possono essere considerate adeguate. Anzi, il modo di governare il territorio (e i conseguenti strumenti) praticate negli ultimi decenni si sono rilevate del tutto inadeguate a risolverne i problemi: anzi, hanno sempre più accetuato i febonei di disagio, disfunzione, distruzione delle qualità, iniquità. Il fatto è che la pianificazione non è un valore in sé: lo diventa a seconda della sua qualità sociale, degli obiettivi che essa si pone e al cui raggiungimento è adeguata. Riflessioni utili per comprenderlo si trovano anche in alcuni scritti di Salzano, quali: Lezione sulla pianificazione, L'urbanistica per la formazione del cittadino , Vent’anni e più di urbanistica contrattata .

Che fare allora,oggi? Quali sono le domande che si deve porre l’urbanistica? Da dove partire per comprendere qual è l’habitat capace di assicurare benessere alle generazioni attuali e a quelle future (che non è quello economico ed esprimibile dal PIL o dal reddito), vivibilità alle nostre città, pace, salute, democrazia? Come può l’urbanistica contribuire, orientando la salvaguardia, manutenzione, costruzione e cambiamento dei nostri territori, a costruire una società diversa, più bella perché più equa? Guardando alla società possiamo dire che uno dei punti di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, ma che esprimono sofferenze individuali appartenenti a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta e talvolta anche di proposta.

In queste azioni collettive il territorio è spesso protagonista perché si denunciano le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità, si denuncia la condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche, si addita alla condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; si attacca le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.

Un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, è quello che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo. Si veda il manifesto nazionale del movimento.

Il concetto di diritto alla città è diventato un riferimento ideologico per molti dei quali si sono e continuano a porsi questa domanda. Esso trova la sua base teorica negli assunti di Henri Lefebvre e nei successivi approfondimenti di altri studiosi che in questi ultimi anni hanno contribuito a spiegare, specificare, e allargare il concetto. La sua base materiale può essere individuata nei conflitti sociali e territoriali in atto in ogni parte del mondo, che danno luogo a contestazioni sia nei confronti del progetto neoliberista che a opporre resistenza alle ingiustizie, all’esclusione sociale, e all’oppressione nel suo significato di sfruttamento, emarginazione, mancanza di potere, imperialismo culturale e violenza. Anche se il concetto non trova ancora un’articolata ed esaustiva spiegazione e non da luogo a veri e propri progetti contro-egemonici, rimane una guida per coloro in cerca di visioni, principi, criteri e modi per trasformare l’utopia in un immaginario dal potere trasformativo.

Sul tema si vedano gli articoli Marvi Maggio Il diritto alla città e la pianificazione urbanistica. Proposte per Firenze, e non solo; e Salzano, La qualità della città pubblica. Di diritto alla città e città come bene comune si è discusso anche al Forum sociale europeo del 2008, dove in seguito all’iniziativa sulla città promossa da eddyburg.it, Zone e da alcune strutture della Cgil si è elaborato un interessante documento , di cui si da conto anche nell’ eddytoriale 118. Urbs, civitas, polis: questi i tre termini che riassumono il nocciolo della questione. “Zero sfratti” degli abitanti dalle case, dagli spazi pubblici, dai quartieri e dalla città, difesa del ruolo del lavoro e dei suoi diritti, contrasto alle iniziative di privatizzazione degli spazi e dei beni pubblici sono gi impegni di lotta più immediati. Ma è stato considerato altrettanto indispensabile aiutare i movimenti a dirigere la loro attenzione dal locale al nazionale e al globale, dal settoriale al generale.

Al concetto di diritto alla città è associato l’immaginario di città come bene comune sviluppato da Edoardo Salzano in suoi diversi scritti. Vi segnaliamo in proposito Dualismo urbano. Città dei cittadini o città della rendita e La città come bene comune. Costruire il futuro partendo dalla storia.

Per concludere questa introduzione alla costruzioni di immaginari-controegemonici vorremmo dare conto di due scuole di pensiero che per molti versi si sovrappongono e che condividono molti dei temi sopracitati. La “società dei territorialisti/e” è una associazione in corso di formazione, caratterizzata dal concorso di studiosi di molte discipline intenzionati a sviluppare un sistema complesso e integrato di scienze del territorio. Nasce dal lavoro interdisciplinare di urbanisti, architetti, designers, ecologi, geografi, antropologi, sociologi, storici, economisti, scienziati della terra, geofilosofi, agronomi, archeologi che, a partire dalla metà degli anni '80, hanno sviluppato ricerche e progetti facendo ponendo al centro dell’attenzione il territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile. In vista del prossimo congresso fondativo della società dei territorialisti/e sono sintetizzati, è stato elaborato un Manifesto, curato da Alberto Magnaghi, nel quale sono enucleati i principi fondanti che caratterizzano l’approccio territorialista. In particolare, l’attenzione ai caratteri specifici dei luoghi viene posta a fondamento di scenari di sviluppo della società locale, alternativi a quelli imposti dalle relazioni economiche globali, che si basano sulla valorizzazione del patrimonio storico, ambientale, culturale e sociale, e sono costruiti e promossi grazie al sapere e all’iniziativa della cittadinanza attiva.

Il “bioregionalismo” nasce dall’incontro di Peter Berg, esponente delle avanguardie culturali con l’ecologista Raymond Dasmann, è sostanzialmente una pratica di vita, alla base della quale sta la consapevolezza di essere e agire come parte della più ampia comunità che vive in un determinato territorio, inteso come una bio-regione. La bio-regione, secondo l’accezione più radicale è sia uno spazio geografico, sia un “terreno della coscienza”, poiché prevede un sistema sociale strettamente integrato con l’ecosistema ed i ritmi naturali. Per saperne di più rimandiamo ad uno scritto di Silvio Franco: . Al concetto di bio-regione fa riferimento lo stesso Latouche nella tesi per la città decrescente, che dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta, capace di trattenere un rapporto forte con l’ecosistema. L’autore, esaminando la crisi della città, sostiene che piuttosto di sognare la costruzione di città nuove, bisogna imparare ad abitare le città in modo diverso. «La città consuma bassa entropia [energia, risorse, cibo, ecc.] e esporta massicciamente alta entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che consuma una superficie «fantasma» molto superiore alla sua superficie reale».

LE PAROLE E I CONCETTI

La prima giornata, come è tradizione della scuola di eddyburg, è dedicata alle parole e ai concetti, illustrati nel contesto socio-economico, politico e culturale in cui si conformano.

Quest’anno abbiamo un duplice obiettivo. Da una parte fornire, come di consueto, strumenti critici per comprendere meglio gli avvenimenti e i fenomeni urbani e territoriali di questi ultimi decenni, che saranno affrontati nelle giornate successive della scuola, attraverso la critica del paradigma dello sviluppo così come si è conformato nella società di oggi. Dall’altra, introdurre un nuovo paradigma, quello dei beni comuni, come alternativa concettuale e politica, per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere materiale e immateriale degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace.

La giornata è aperta da un mio intervento sul concetto di sviluppo, che aprirà i lavori e fornirà la cornice ai temi approfonditi dai successivi docenti (vedi la scaletta di seguito). Concluderemo la giornata con una mia domanda ai docenti, la loro breve risposta e una ricapitolazione finale delle questioni trattate.

Il mio intervento introduttivo è diviso in tre parti. La prima illustrerà l’evoluzione del concetto di sviluppo, al fine di far comprendere sia l’arbitrarietà operata nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso, civilizzazione, avanzamento e di attribuirle così positività a priori, che di mettere in evidenza come la parola sia stata un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Si spiegherà come nuovi apporti teorici abbiano arricchito di nuove dimensioni il concetto per interpretare i processi di crescita, ma nello stesso tempo abbiano fornito indicazioni strategiche e discorsive per la formulazione di “politiche di sviluppo”: politiche che nella sostanza continuano a privilegiare le ragioni dell’accumulazione capitalistica su quelle dell’umanità nella sua totalità e diversità, perpetuando e accentuando relazioni di potere diseguali. Si argomenterà come l’allargamento del significato di sviluppo, che viene via via riconosciuto come dipendente da una fitta trama di relazioni (proprie del capitale sociale, umano e conoscitivo) abbia significato uno spostamento di approccio focalizzato sulle dimensioni locali, territoriali e sociali dei processi. E come questo passaggio abbia comportato sia l’appropriazione da parte delle forze dominanti di concetti importanti introdotti ‘dal basso’ o da forze contro egemoniche - come quello di partecipazione – sia l’adozione di aggettivi come sostenibile, che hanno contribuito alla ‘fortuna’ del termine sviluppo.

Nella seconda parte del mio intervento accennerò ad alcune trasformazioni, che possono essere lette come segni della ‘crisi’ di questo paradigma e, per estensione, della società che su questo si è conformata:

- la crisi ambientale;

- la crisi economica, mettendo in evidenza il ruolo centrale della rendita e dello sviluppo urbano e le ripercussioni negative di questa crisi sul habitat;

- la crisi del tessuto sociale, dalla ‘solitudine del cittadino globale’ alle rivolte di Londra;

- la crisi dell’organizzazione della società: dalla politica ai limiti della democrazia attuale, al rapporto distorto tra economia e politica e al conflitto tra diritti individuali e interessi collettivi;

- infine la crisi culturale, intesa sia come crisi del modello culturale basato sul positivismo, su cui anche il paradigma dello sviluppo si è strutturato, ma anche il passaggio dalla scienza alla tecnica, e la supremazia delle conoscenze scientifiche su altre conoscenze, modello che si presenta inadeguato a comprendere la realtà e ad illuminare il futuro.

La terza parte dell’intervento introdurrà il concetto di bene comune come categoria da porre a fondamento delle proposte riguardanti i diversi aspetti della società di cui deve tener conto una pianificazione della città e del territorio adeguata ai bisogni dell’uomo, alle reali condizioni del nostro pianeta e al patrimonio conoscitivo finora acquisito.

Gli interventi successivi costituiranno approfondimenti a questi temi, fornendo elementi di conoscenza e riflessione sulla situazione in atto e sull’inadeguatezza degli strumenti concettuali e operativi, ma anche introducendo nuovi approcci e proposte sia sul piano concettuale che operativo.

All’economista Giovanna Ricoveri si è chiesto di dare conto di alcuni aspetti essenziali della crisi economica e più generalmente della capacità distruttiva del sistema economico-sociale esistente. Sarà utile insistere sulla distinzione tra beni e merci prima di illustrare il concetto di “bene comune” ripercorrendone l’evoluzione, e spiegandone le sue diverse componenti e articolazioni, argomentando la tesi che la difesa e riconquista dei beni comuni è la risposta necessaria per avviare la costruzione di un sistema nuovo.

L’agronomo Nicola Dall’Olio approfondirà la questione ambientale, e in relazione ad alcune situazioni specifiche, illustrerà le drammatiche conseguenze della mercificazione di un rilevante bene comune (il territorio agricolo) sulle condizioni di vita e sulle stesse risorse essenziali per la specie umana.

Al giurista Ugo Mattei abbiamo chiesto di spiegare il ruolo della proprietà privata nel sistema economico basato sulle merci e di ragionare sulle implicazioni del concetto di bene comune nel campo del diritto e dell’assetto proprietario, e sulla necessità di arricchire la gamma delle forme della proprietà reintroducendo (accanto alla privata e alla pubblica) quella delle proprietà comune.

Il giornalista Loris Campetti introdurrà il tema, oggi centrale, del lavoro nel contesto delle ‘crisi’ sopracitate, particolarmente facendo riferimento alla crisi economica e quella sociale. Si vorrebbe ragionare su come la riduzione del lavoro, da strumento essenziale della società per la comprensione e il governo del mondo materiale e immateriale a merce, è sottoposto oggi a un processo di impoverimento ed emarginazione. Il passaggio dal paradigma dello “sviluppo” a quello del “bene comune” può essere invece l’occasione per restituirgli dignità e valore pienamente umano facendone lo strumento per affrontare alcune grandi esigenze sociali e territoriali.

Infine allo storico Piero Bevilacqua abbiamo chiesto di portare ulteriori riflessioni sulla questione ambientale e di ragionare sul ruolo della formazione, della conoscenza e dei saperi nella costruzione di un nuovo paradigma, sulle condizioni che l’applicazione che esso pone al sistema dei saperi, oggi caratterizzato dalla frammentazione e dalla subordinazione all’economia data.

PROGRAMMA

09,30 – 10,00 Mauro Baioni presenta la VII edizione della scuola

10.00 – 10.50 Ilaria Boniburini introduce le prima giornata

10,50 – 11.10 pausa caffè

11.10 – 12,00 intervento di Giovanna Ricoveri

12,00 – 12.50 intervento di Nicola Dall’Olio

12.50 – 13.15 Eventuali domande degli studenti sugli interventi di Boniburini, Ricoveri, dall’Olio

13.15 – 14.15 Pausa Pranzo

14.15 – 15.05 intervento di Ugo Mattei

15.05 – 15,55 intervento di Loris Campetti

15,55 – 16 45 intervento di Piero Bevilacqua

16,45 – 17.05 pausa caffè

17.05 – 17.40 eventuali domande degli studenti sugli interventi di Mattei, Campetti, Bevilacqua

17.40 – 18.30 repliche dei docenti e conclusioni di Ilaria Boniburini

prossimamente il programma della II e III giornata e quello della giornata conclusiva

Lungo la “linea rossa”. L'attenzione delle due giornate centrali si rivolge all’ideale “linea rossa” che segna il margine urbano, il luogo dove si manifestano in modo più evidente le contraddizioni e i conflitti relativi all'uso del territorio. Vogliamo esaminare da vicino due casi italiani - Milano e Firenze – selezionati perché rappresentativi dei problemi da affrontare, del grado di autorevolezza dei poteri pubblici, del ventaglio di politiche territoriali messe in campo, del contenuto e dell’efficacia di piani urbanistici e territoriali, del ruolo svolto da abitanti, terzo settore, soggetti economici. Due città governate in modo continuativo per oltre vent’anni dalle medesime maggioranze politiche, tra loro antitetiche. Possiamo, oggi, leggere criticamente quanto è successo non solo e non tanto a partire da astratti modelli di piano e di urbanistica contrapposti tra loro, quanto piuttosto dai caratteri - fisici, funzionali, sociali - delle parti di città investite dalle trasformazioni e dalle diverse opzioni, economiche e sociali, sottese alle decisioni.

Attorno a Milano. Milano è un esempio paradigmatico di "cattura del regolatore" da parte dei percettori di rendite e del "nuovo parastato". I primi, come noto, costituiscono il blocco dominante, in grado di condizionare le decisioni pubbliche sull'uso del territorio, piegandole alle proprie convenienze. Ma non va sottovalutato il peso dell'universo di società che si muove a cavallo tra il mondo pubblico e quello privato (concessionari e gestori delle reti, agenzie di servizi, ecc.), prendendo - ci si perdoni la semplificazione - il peggio di entrambi. Le distorsioni sull'uso e sull'assetto del territorio determinate da questo secondo blocco di soggetti sono altrettanto rilevanti, con l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che - formalmente - essi agiscono in nome e per conto delle amministrazioni pubbliche.

Entrambe queste categorie di soggetti hanno dato impulso ad una congerie di progetti, promossi secondo logiche parziali difficilmente riconducibili a una qualsivoglia strategia territoriale complessiva (se non nelle vuote retoriche dello sviluppo), pesantemente condizionati dalle aspettative di valorizzazione immobiliare e da una ragnatela di interessi consociativi, non di rado illeciti. Affidiamo a Giuseppe Boatti il compito di spiegare perché il PGT di Milano, adottato dalla giunta Moratti, costituisce un micidale strumento per l'ulteriore moltiplicazione parossistica delle possibilità di valorizzazione immobiliare, e a Serena Righini il compito di descrivere presupposti e conseguenze della bulimia infrastrutturale milanese.

Attorno a Firenze. La Toscana è una regione opulenta, socialmente pacificata, soddisfatta di sé, stretta ai propri miti e di consolidata tradizione politica. Ed è, soprattutto, una regione nella quale si è sperimentata con successo, nei decenni passati, la possibile convivenza tra economia di mercato e protezioni dello stato sociale [riprendo le parole di Romano Viviani, decano degli urbanisti toscani recentemente scomparso]. La differente sensibilità e i cambiamenti intervenuti rendono evidenti, ai nostri occhi, i difetti delle scelte compiute nel passato relative all’industria, alla residenza e alle infrastrutture, facendo apparire particolarmente stridenti le realizzazioni tardive, e sollecitano le richieste di un cambiamento significativo, o quantomeno di un'effettiva evoluzione delle politiche per la città e il territorio. La debole propensione degli amministratori attuali ad agire in discontinuità con quanto fatto in precedenza, la scarsa coralità dell'azione pubblica e un sistema di leggi e piani a dir poco "barocco", accentuano il distacco tra le retoriche del discorso pubblico sulla città (incentrate sulla valorizzazione dei caratteri specifici dei luoghi, sull'attenzione all'ambiente, sul coinvolgimento della cittadinanza attiva) e i comportamenti concreti.

Il terreno dove si confrontano e si scontrano con maggior forza le visioni alternative è la piana fiorentina, un’area investita da una trasformazione tanto intensa quanto problematica. Che si tratti della rete infrastrutturale e delle aree produttive (come ci spiegherà Roberto Vezzosi) o dei brandelli di territorio rurale scampati, per ora, all’urbanizzazione (come ci spiegherà Lorenzo Venturini), le prospettive complessivamente delineate dai piani e dalle politiche pubbliche appaiono oggi ricche di contrasti. Conviene dunque esaminarle per capire compiere una salutare verifica dei limiti e delle contraddizioni possibili in seno all’azione pubblica.

Lontano dall’Italia. L'illustrazione dei casi italiani è affiancata da due comunicazioni rigurdanti alcune esperienze europee, potenzialmente virtuose. Vogliamo proseguire e idealmente concludere la trattazione di casi europei che negli anni passati ha riguardato il contenimento dello sprawl, la promozione dell’intercomunalità, la riqualificazione urbana e gli spazi pubblici, la realizzazione di insediamenti ad elevata vivibilità. Vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza che rivestono oltre confine le politiche pubbliche per le città, non solo nel caso di governi particolarmente attenti alle questioni ambientali e sociali, ma persino nel caso di governi più sensibili alle sirene liberiste (seppure con una connotazione market-oriented). I casi illustrati dimostrano la possibilità di concepire strategie di lungo respiro, non ripiegate sulla composizione di interessi contingenti, di formalizzarle attraverso strumenti di piano prescrittivi, di indirizzo e di valutazione, e di promuoverne l’attuazione attraverso iniziative mirate, sui luoghi e con le persone.

Maria Cristina GIbelli partirà dal caso milanese (riprendendo le considerazioni sviluppate da Giuseppe Boatti, in particolare sull'utilizzo della perequazione urbanistica) per poi approfondire modelli di pianificazione all'opera (sia prescrittivi, sia condizionali) alternativi a quello lombardo, facendo cenno ad alcune esperienze significative: il programma VINEX, in Olanda, e lo SDAU della regione Ile de France. Francesca Blanc, dopo un inquadramento relativo alle leggi catalane e ai piani vigenti nell’area metropolitana di Barcellona, illustrerà nel dettaglio due esempi di gestione dello spazio periurbano: i parchi agrari del Baix Llobregat e de Gallecs, Mollet del Vallès.

Programma

SECONDA GIORNATA, 15 SETTEMBRE:

09.30 Mauro Baioni. Introduzione alle giornate centrali.

09.45 Giuseppe Boatti. EXPO, PGT di Milano e città della rendita.

10.30 discussione

11.15 pausa caffé

11.30 Serena Righini. Attorno a Milano. La conquista della cintura nera

12.15 discussione

13.00 pausa pranzo, al ristorante Canasta

14.30 M.C. Gibelli. Il limite urbano fra millantate innovazioni e pianificazione virtuosa

15.15 discussione

16.30 pausa gelato

17.00 Francesca Blanc. Barcellona.

17.45 discussione

18.30 fine giornata

TERZA GIORNATA, 15 SETTEMBRE

09.30 Mauro Baioni. Attorno a Firenze. Riflessioni a partire dal consumo di suolo

10.00 Roberto Vezzosi. Il primato apparente dell'urbanistica toscana.

10.45 discussione

11.30 pausa caffé

12.00 Lorenzo Venturini. Il parco della piana.

12.45 discussione

14.15 pausa pranzo

15.45 partenza da Villa Mussolini per la visita ai luoghi: Montefiore Conca e l’ex Ghigi a Morciano.

21.00 cena all’agriturismo I Muretti

23.30 rientro in albergo

Nella giornata conclusiva (introdotta da Edoardo Salzano), tireremo le fila delle riflessioni compiute non solo nelle due edizioni della scuola dedicate al tema “urbanistica ed economia”, ma nell’intero ciclo delle sette edizioni, il cui svolgimento è collegato da un filo rosso che oggi possiamo riconoscere. Ci soffermeremo in particolare sulla nuova domanda di pianificazione che emerge dalle tensioni della società civile riguardanti l’ambiente e la salute, l’equità e la possibilità di accesso ai beni comuni, la vivibilità della città e la difesa degli spazi pubblici, il riconoscimento del paesaggio come “eredità da preservare” e come “componente essenziale del contesto di vita”, la ricerca di nuovi stili di vita solidali.

La nostra tesi, che è emersa dal lavoro preparatorio e che lo svolgimento della scuola potrà confermare o smentire, è che emerga dalla società una nuova domanda di pianificazione: emerge cioè la sollecitazione a superare la frammentazione e la separatezza tra le iniziative di resistenza al saccheggio del bene comune territorio e a dara coerenza e sistematicità non solo all’azione di contrasto, ma anche – e forse soprattutto – a quella di proposta.

Una nuova domanda DI pianificazione, ma anche nuove domande ALLA pianificazione. Questa infatti deve essere qualificata. Anche la strategia di saccheggio, la strategia di creazione della “città della rendita” è una pianificazione. Occorre perciò precisare quale è la pianificazione necessaria se si vuole costruire invece la “città dei cittadini”.

Una risposta può venire solo se, uscendo dal guscio dei tecnicismi e dei linguaggi per addetti ai lavori, riusciamo a comprendere e a comunicare quali siano i connotati della nuova città, alternativa rispetto a quella che abbiamo finora cercato di comprendere, denunciare e contrastare, quali siano gli attori che devono partecipare alla sua costruzione e gestione. Ci proponiamo in quella conclusiva di individuare, se non le caratteristiche di un nuovo progetto di città, almeno i principi ai quali la ricerca deve essere orientata. Li troveremo sia nel bagaglio della migliore cultura urbanistica e delle esperienze recenti che ad essa si ispirano, sia nei tentativi che emergono da sponde appartenenti ad altri saperi, esperienze, storie, che condividono con noi una visione della città come sintesi di spazi fisici, società e governo: urbs, civitas, polis.

Al termine dell’intervento introduttivo si aprirà la discussione con un gruppo di amici e collaboratori di eddyburg (tra i quali Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Chiara Sebastiani, Walter Tocci), e con i docenti e studenti della scuola che vorranno intervenire.

A conclusione della giornata ci proponiamo infine di scambiare qualche idea con chi sarà rimasto per proporre nuove modalità di organizzazione e svolgimento delle attività di eddyburg.

Programma

09,30 Intervento introduttivo di Edoardo Salzano

10,30 Interventi di Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Chiara Sebastiani, Walter Tocci

11,30 pausa caffè

12,00 Interventi dei docenti e degli studenti

13,30 Conclusioni del dibattito, e idee per il futuro della scuola

14,00 buffet sul prato del Castello

Premessa. La crisi

Non è più solo dalla sponda più radicale che si parla della situazione attuale come di una crisi DEL sistema, e non di una crisi NEL sistema. Sebbene il sistema capitalistico abbia conosciuto altre crisi e ne sia sempre uscito (è stato paragonato a Proteo, il dio marino che continuamente sfugge agli importuni trasformandosi), ci sembra che la crisi attuale abbia alcuni connotati particolari:

- il sistema sopravvive solo bruciando risorse ormai vicine all’esaurimento, da quelle ambientali a quelle umane;

- le sue contraddizioni non sono esportabili all’esterno del suo core (la società nord-atlantica), ma colpiscono il suo stesso bacino sociale;

- le misure adottate dai governanti attuali sono tali da aggravare la crisi anziché mitigarne gli effetti.

A noi questa crisi non c’interesse solo in quanto cittadini (dell’Italia, dell’Europa e del mondo), ma anche per le fortissime connessioni che ha con il territorio: con l’habitat dell’uomo, che è il nostro riferimento culturale e pratico. Così come è in riferimento al territorio e alle sue trasformazioni che ci hanno interessato gli altri temi che abbiamo discusso nelle sette edizioni della scuola, che Mauro Baioni ha riepilogato nel suo di apertura di questa edizione.

Il nostro riferimento è il territorio: l’habitat dell’uomo

Credo che sia utile precisare che cosa intendiamo per città e per territorio. Noi consideriamo la città – una delle più significative invenzioni della storia dell’uomo – l’habitat che l’uomo si è costruito nel corso di millenni di storia. L’habitat dell’uomo, anzi – e la precisazione è importante – della società. La “città è la casa della società”, ho insegnato per un paio di decenni ai miei studenti.

É un habitat del quale individuiamo un triplice aspetto, cui alludono le tre parole connesse alla sua definizione: urbs, civitas, polis. La città come insieme di spazi fisici organizzati. La citta come società che ha costruito la sua “casa”. La città come governo sociale delle sue trasformazioni fisiche e funzionali.

Nei secoli a noi più vicini questo habitat ha cambiato configurazione. Città e campagna erano stati fino ad allora due realtà separate, quasi contrapposte. Con la rivoluzione borghese e l’affermazione del sistema capitalistico la configurazione è cambiata. Le esigenze he la città soddisfaceva, le sue funzioni, hanno interessato parti via via più consistenti della superficie del pianeta. Per varie ragioni e con vari strumenti le caratteristiche della vita urbana si sono estese via via all’intero territorio. E oggi possiamo dire che è l’intero territorio che è divenuto “la casa della società”.

Naturalmente questo non è l’unico modo in cui si può vedere il territorio, non è l’unico punto di vista necessario. Ma direi che è quello proprio a chi si occupa di urbanistica.

Sette edizioni della scuola di eddyburg

Nella sua introduzione alla VII edizione della scuola Mauro Baioni ne ha ricordato le intenzioni, i temi e lo svolgimento. É stata una ricapitolazione utilissima, anche perché per noi la storia (anche quella minima delle nostre vicende) è sempre il punto di partenza per vivere consapevolmente il presente e guardare il futuro. E per il nostro lavoro questo è vero soprattutto oggi, dato che questa è l’ultima edizione della Scuola di eddyburg così come l’avete conosciuta: è troppo impegnative e costosa per quei pochi che ci lavorano perché si possa continuare così. Dovremo cambiare formato – ma di questo parleremo più avanti.

Non posso però mancare di ringraziare, a nome di voi tutti, i due cirenei di questa vicenda: Mauro Baioni e Ilaria Boniburini, che con il loro lavoro, sacrificando molto della loro vita privata e di quella professionale, hanno consentito di condurre questa esperienza sforzandosi continuamente di migliorare la qualità del servizio che la scuola rende ai suoi utenti e di contenerne i prezzi.

Insieme a loro, devo ringraziare i numerosi docenti che ci hanno aiutato nell’ambito delle loro competenze, rinunciando a ogni compenso e donandoci il tempo prezioso dei loro saperi.

Infine, a nome di tutti quelli che hanno lavorato per produrre le 7 edizioni della scuola di eddyburg, vorrei ringraziare gli studenti che con il loro interesse, i loro interventi, i loro multiformi apporti hanno arricchito ciascuno di noi.

Dall’analisi alla proposta

Tutto il percorso settennale della scuola ci ha fatto lavorare nel campo della condizione attuale della città, svelando le caratteristiche di fondo di quella che abbiamo definito “la città del neoliberismo”. É questa città che costituisce oggi il problema, il nostro problema. E oggi vogliamo guardarla secondo un approccio polarizzato non tanto sul comprendere che cosa essa è per denunciarlo, ma sul ragionare come, su quali basi, è possibile costruire un’alternativa alla “città della rendita”: costruire una “città dei cittadini”, un habitat per gli abitanti del mondo di oggi e di domani.

Come urbanisti ci siamo posti una domanda che mi sembra cruciale. Sono trent’anni almeno che il neoliberismo è diventato l’ideologia dominante e ispira le politiche economiche, sociali e urbane in tutto il mondo. Sono vent’anni almeno che in Italia, dopo aver dileggiato l’”urbanistica autoritativa”, la si è sostituita con le pratiche dell’”urbanistica contrattata”.

Sono trascorsi insomma alcuni decenni da quando si è abbandonata la pianificazione pubblica, esercitata in funzione dell’interesse generale, sostituendola con modalità inventate in nome della liberalizzazione, della privatizzazione, dell’aziendalizzazione dei processi di decisione e attuazione delle trasformazioni del territorio.

Sono trascorsi alcuni decenni, eppure il disagio delle cittadine e dei cittadini è aumentato, i problemi nodali (la casa, i trasporti, l’ambiente e la salute, l’equità) sono diventati via via più gravi. E accanto a questo, mentre si intravede un fiume di ricchezza scorrere nei canali degli interessi privati leciti e illeciti, si scoprono deficit impensabili nelle risorse da destinare alle esigenze collettive.

Un nuovo paradigma

Il nostro campo di lavoro (il territorio) ci è sembrato rappresentare con rara efficacia i danni provocati dal neoliberismo all’insieme delle condizioni di vita e alle prospettive della società planetaria. Occorreva analizzarlo ancora meglio, poiché solo da un’analisi corretta (che non si fermi alla denuncia, ma sappia individuare ed esplorare le cause profonde) può nascere un insieme efficace di proposte.

Il lavoro che abbiamo compiuto in questi mesi è stato quello di comprendere meglio qual è il paradigma, qual è l’insieme di valori, principi, regole, interessi, condizioni che determina la configurazione attuale della città. Era ed è – lo abbiamo compreso ancora meglio in questa giornate – il paradigma della crescita indefinita della produzione di merci indipendentemente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società, il paradigma che ha assunto come parametro di valutazione dominante lo “sviluppo”, in quel suo significato schiacciato sulla dimensione economica, propria a questa particolare economia nella quale viviamo.

Mi riferisco spesso alla “economia data”, per alludere al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile. A mio parere è un’economia che va radicalmente trasformata, come molte altre cose ad essa legata. Ma è quella nel cui ambito viviamo, e che dobbiamo conoscere nelle sue caratteristiche, conseguenze, mutazioni. Se almeno vogliamo comprendere ciò che accade e in che modo possiamo agire per comprendere il mondo e contribuire a trasformarlo.

Questa economia (l’economia del capitale) ha avuto una profonda mutazione negli ultimi decenni. Noi abbiamo cominciato a registrarne gli effetti nella seconda edizione della scuola, quando Giovanni Caudo ci parlò delle trasformazioni sottese alla questione della casa. Se ascoltiamo le analisi più acute del capitalismo di oggi (mi riferisco ad esempio a quella di Luciano Gallino, riassunta nel suo Finanzcapitalismo) scopriamo siamo passati a una finalizzazione dell’economia ancora più devastante per l’uomo di quanto quel sistema non fosse già nelle sue precedenti mutazioni. Dopo la fase che possiamo sintetizzare nella riduzione dei “beni” a “merci”, siamo passati dall’assunzione delle ricchezza monetaria come unica finalità dello “sviluppo”. Il ciclo dell’economia non è più Merce1>Danaro>Merce2, (dove Merce2 è maggiore di Merce1 e Danaro è l’intermediario), ma Danaro1>Danaro2, dove la ricchezza e il potere dei più ricchi e potenti è l’unica finalità dell’economia, dunque della politica, dunque della società.

In altri termini, il meccanismo economico che governa le nostre vite non ha più, come centro del suo ciclo, la produzione industriale di oggetti e servizi utili, o resi utili mediante i meccanismi dell’induzione del consumo. Il danaro non è più l’intermediario per la trasformazione delle merci in un nuovo insieme di merci vendibili a un prezzo più alto di quello delle merci acquistate, ma è la finalità dell’esercizio del potere economico. Poiché attraverso la finanza si è scoperto, e largamente praticato il sistema di trasformare il denaro in più-danaro semplicemente attraverso due strumenti: il saccheggio delle risorse disponibili (dai beni comuni a tutto ciò che è trasformabile in merce), e l’incremento forzoso dell’indebitamento delle famiglie e degli stati.

L’urbanistica finanziarizzata

Nell’ambito in questa mutazione del sistema capitalistico anche il modo di sfruttare il territorio è modificato.

Una volta il territorio era adoperato per le utilizzazioni agro-silvo-pastorali e per quelle urbane. Poi è stato adoperato per queste, cui si è aggiunta la produzione di incrementi della rendita fondiaria (poi immobiliare). Poi è diventata centrale la produzione di incrementi della rendita immobiliare derivante dalla urbanizzazione e costruzione di edifici: è la fase nella quale i poteri dominanti hanno avuto come loro strumento l’ urbanistica contrattata.

Oggi siamo passati a una fase ulteriore. Il suolo è diventato portatore di qualcosa – chiamiamoli “crediti edificatori” – che è qualcosa di simile a un titolo di credito: un certificato corrispondente a un valore commerciabile. Non importa se su quel terreno verrà realmente edificato quell’edificio cui il titolo allude: intanto ha un valore di scambio corrispondente alle rendita percepibile dall’utilizzazione edilizia di quel suolo. Ti dicono che crescerà di valore. Tu aspetti che aumenti e lo rivendi. Il nuovo acquirente aspetterà un po’ anche lui, e lo rivende a sua volta. Finchè il valore della rendita sale.

Se si guarda agli incrementi di valore delle aree negli ultimi si scopre l’entità degli affari che sono stati fatti. Il mercato dei “crediti edificatori” è più attivo che mai. Richiama Investimenti da canali spesso oscuri. L’utilizzazione edilizia non è negli obiettivi concreti degli utilizzatori odierni dei “crediti edilizi”, ma lo diventerà quando si sarà giunti all’utilizzatore finale, quando la bolla sarà esplosa.

La settima edizione della scuola

Sulla base del lavoro svolto, l’obiettivo che ci siamo proposti nella VII edizione della scuola (nella sua preparazione e nel suo svolgimento) è stato in primo luogo quello di individuare un paradigma alternativo, capace di costituire l’insieme di riferimenti sulla cui base definire il progetto di una nuova città. Lo abbiamo individuato nel paradigma dei beni comuni, come alternativa concettuale e politica a quello, oggi dominante, della crescita indefinita e dello “sviluppo”, e come parola d’ordine potenzialmente egemonica «per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere materiale e immateriale degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace».

A questo tema questo è stata dedicata la prima giornata, in cui Ilaria Boniburini ha introdotto e coordinato gli apporti di studiosi di varie discipline, che hanno gettato sul campo del territorio fasci di luce provenienti da altre sorgenti.

Nella seconda e nella terza giornata Mauro Baioni ha esaaminato, con la collaborazioni di altri amici vecchi e nuovi della scuola di eddyburg, alcune esperienze concrete per verificare quali problemi, esigenze, soluzioni possibili nascano nella realtà e possano fornire indicazioni per il futuro.

Punti fermi

Sulla base del lavoro svolto nelle prime tre giornate della scuola credo che possiamo convenire su alcuni punti fermi, che riassumo molto sinteticamente:

- la crisi che attraversiamo è davvero profonda, non se ne esce con i pannicelli caldi, essa investe pienamente la città quale la intendiamo (l’habitat dell’uomo, la sintesi tra spazi, società e politica) in tutte le sue dimensioni: dall’organizzazione complessiva della società e della città, ai modi di pensare e di vivere;

- la crisi è il prodotto del dominio di un paradigma (quello della crescita indefinita e di uno “sviluppo” ridotto all’accumulazione di danaro e di potere), ormai divenuto mortifero;

- uscire durevolmente dalla crisi comporta la laboriosa costruzione dell’egemonia di un nuovo paradigma, che possiamo riconoscere in quello del “bene comune” e – per quanto riguarda il nostro specifico campo – del “diritto alla città” e della “città come bene comune”.

Possiamo anche affermare che la crisi ha accentuato un disagio umano e sociale che già esisteva, che è generato dalle pratiche trentennali del neoliberismo, e che ha provocato migliaia di episodi di resistenza e di contrasto ancora frammentati e dispersi, ma estesi in moltissime parti del mondo, anche in quelle che sono state storicamente privilegiate dal paradigma della crescita. E che dalla presa di coscienza di tale disagio si può partire per un futuro migliore.

Di quale “pianificazione” parliamo

Affermare, come fatto poc’anzi, che l’abbandono della pianificazione territoriale e urbanistica come l’abbiamo conosciuta ha generato mostri non significa necessariamente affermate che quella pianificazione sia oggi sufficiente, né tanto meno che ogni pianificazione sia idonea a realizzare la “città dei cittadini”.

In termini abbastanza neutrali possiamo dire che la pianificazione territoriale ed urbanistica è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

In funzione di determinati obiettivi: qui è il nodo della questione. Poiché gli obiettivi sociali della pianificazione sono mutevoli nel tempo, e lo sono stati nella storia che è alle nostre spalle.

La pianificazione urbanistica moderna è nata per mettere ordine nelle città e per regolare, secondo un disegno unitario, la loro espansione e trasformazione. è nata, agli albori del XIX secolo, per affrontare problemi che la somma delle decisioni individuali non poteva risolvere. è nata per costituire un contrappeso all’invadenza dell’individualismo e correggerne taluni effetti. Fin dall’inizio del suo percorso, essa è stata finalizzata al raggiungimento di obiettivi d’interesse generale: naturalmente, d’interesse generale dei gruppi sociali, delle “classi”, che governavano la città o ne influenzavano il governo.

All’inizio della vicenda della pianificazione la società ha chiesto ai suoi tecnici di risolvere tre problemi: rendere più efficiente il funzionamento cinematica della macchina urbana, migliorare le condizioni igieniche, e regolare i valori immobiliari in modo da dare certezza di lucro agli investimenti patrimoniali. Questi obiettivi erano perseguiti in modi differenziati nelle diverse parti della città, con una vera “zonizzazione sociale”: qui i ricchi e i potenti, là i benestanti, altrove gli operai e l’”esercito di riserva”.

I risultati delle lotte sociali e i margini di ricchezza consentiti dallo sfruttamento (in patria e nelle colonie) condussero al manifestarsi di altri obiettivi. Diventarono obiettivi della pianificazione i diversi elementi del welfare state: l’edilizia civile a basso costo, le attrezzature sociali e sportive, quelle assistenziali e scolastiche, i collegamenti efficienti casa-lavoro.

In questo quadro in Italia, riprendendo nel secondo dopoguerra alcuni dei germi gettati nel primi decenni del secolo XX e sviluppandone altri, si giunse a porre al centro della pianificazione urbana le grandi questioni del diritto alla casa come servizio sociale e delle adeguate dotazioni di aree da destinare a spazi e attrezzature pubbliche, gli standard urbanistici.

Negli anni a noi più vicini si è manifestato, come nuovo obiettivo sociale, quello della tutela del territorio nelle sue caratteristiche fisiche e culturali e nei suoi equilibri ecologici. Ciò ha dato luogo a un accentuato interesse sia al funzionamento della città sia, e soprattutto, alle condizioni dei territori extraurbani.

Io credo che è da qui che occorre ripartire: dagli obiettivi del welfare state e dell’ambientalismo. Per interrogarsi poi su quali siano gli ulteriori obiettivi che, integrando o modificando quelli della nostra tradizione, possano qualificare oggi e domani una pianificazione adeguata al compito di costruire la città del bene comune.

Alla nostra ulteriore riflessione devo allora porre allora alcune domande, sulle quali avanzerò risposte che sono del tutto personali ed esplorative, e che vogliono stimolare a un dibattito che proseguirà oggi e in futuro, in ulteriori iniziative di eddyburg e della sua scuola.

1a domanda.

Possiamo affermare che sta emergendo

una nuova domanda di pianificazione?

Mi domando e vi domando (la mia risposta è abbastanza ottimistica) se possiamo affermare che in strati sempre più vasti della “società critica” si sta comprendendo che non ci si oppone ai mille episodi di sfruttamento, deterioramento, degradazione, distruzione delle diverse componenti del “bene comune città”, se non si riesce

- a definire un progetto alternativo,

- a individuare attori, metodi e strumenti che siano capaci di realizzarlo tenendo conto del carattere olistico del territorio.

Mi domando ancora se si sta comprendendo anche che il dispositivo necessario per progettare e realizzare la “città dei cittadini” deve essere necessariamente manovrato da un potere che sia democratico nel senso di esprimere la priorità dell’interesse generale su quello dei singoli interessi coinvolti, di esprimere la volontà e le esigenze della stragrande maggioranza della popolazione attuale e futura del pianeta e non quelle dei portatori d’interessi specifici e parziali.

Mi domando infine se la cultura urbanistica (cui indubbiamente va il merito di aver “inventato” la pianificazione come strumento olistico dell’interesse generale) abbia fatto tutto il lavoro necessario per far comprendere:

- a che cosa la pianificazione possa e debba servire,

- in che modo si riconosca quali siano i gruppi sociali premiati e quelli penalizzati dalle scelte

- quali siano i reali avversari di una pianificazione nell’interesse comune e come vadano combattuti.

2a domanda.

Possiamo affermare che sta nascendo

un nuovo progetto di città

alternativo rispetto alla “città della rendita”?

A me sembra che, sebbene non siano ancora chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, comincino forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione, le esigenze che l’habitat dell’uomo deve assicurare.

Sforzi significativi (naturalmente suscettibili di valutazioni critiche ma condivisibili nelle linee di tendenza che indicano) sono rinvenibili in altri territori culturali (come quello del movimento di “Decrescita”) o in esperienze disciplinarmente più vicine a noi (come la scuola territorialista). Esigenze ed esperienze interessanti sono anche quelle emerse nelle due ultime giornate di questa scuola.

Per contribuire a una loro definizione esporrò una mia ipotesi, riassumendoli in 5 questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per la collettività, l’abitazione, l’equità, la partecipazione.

Il rapporto città-campagna.

Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini.

Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione…), tra l’urbanizzato (=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale).

Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.

Ma è la stessa quantificazione e localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura.

Se la terra non è solo l’habitat dell’uomo di oggi ma anche di quello di domani e di dopodomani; se la terra ha, come sua funzione essenziale, quella di garantire un’alimentazione sana degli abitanti del pianeta, allora la terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore.

Sacrificarne una porzione è una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità. Quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori) e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

Ridurre il consumo di suolo non significa quindi soltanto organizzare meglio le nuove espansioni sul territorio. Significa innanzitutto misurare rigorosamente quali siano le eventuale nuovi espansioni del suolo già sottratto al ciclo biologico che sono necessarie per fini non soddisfacibili altrimenti.

E’ certamente un portato dell’urbanistica del neoliberismo, dell’urbanistica contrattata e poi dell’urbanistica finanziarizzata, il fatto che dai corsi di progettazione urbanistica sia scomparso l’argomento del “calcolo del fabbisogno”, magari sostituito da corsi di perequazione

La città pubblica.

Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e quantitativo. Ai luoghi classici della città premoderna si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre più cosciente dei propri diritti.

É cresciuta insomma la consapevolezza della necessità di una vasto e articolato insieme di spazi, servizi, attrezzature, indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e del luogo di lavoro).

Nella “città della rendita” stiamo vivendo la riduzione degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, la risposta con servizi privati (a pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza.

É anche dal disagio provocato dalla perdita di una dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono, completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle, eque.

L’abitazione.

Nell’ambito della “citta pubblica” un ruolo particolare ha svolto l’abitazione: perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza sono organizzati sul territorio; perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato .

Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione. É vasta la consapevolezza (almeno nella “società critica” della necessità: di ridurre fortemente l’incidenza della rendita urbana sul costo complessivo dell’alloggio; di realizzare alloggi solo là dove esiste una domanda reale non soddisfacibile utilizzando il patrimonio edilizio esistente; di localizzarli solo là dove un efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni della vita quotidiana; di offrire un ampio stock di alloggi in affitto; di ostacolare gli interventi di “riqualificazione” che comportino modifiche nelle condizioni economiche d’accesso.

Una città equa.

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

Questo obiettivo non è mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni.

Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più. Forse è per questo che i conflitti che nascono nella società per la realizzazione di un assetto migliore, più vivibile e amichevole del territorio, sembrano intrecciarsi strettamente quelli che si pongono in modo esplicito l’obiettivo di una migliore equità

La partecipazione.

Il “diritto alla città”è uno slogan e un’esigenza storicamente legato alla stagione del 1968, oggi è riemerso nei movimenti urbani, in Italia come negli altri paesi. In un contesto per molti aspetti diverso.

Ma già nell’impostazione di Lucien Lefebvre è un diritto che si concreta in due aspetti: 1) il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi), ed è di questo aspetto ci siamo finora riferiti; e 2) il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

Non contesto della città di oggi questo secondo aspetto del diritto alla città esso assume una valenza diversa. Si accompagna – nella percezione della “società critica – alla consapevolezza del fallimento della politica dei partiti e delle istituzioni nel loro ruolo di interpreti della società nel suo insieme, e del suo appiattimento a mero strumento del potere del finanzcapitalismo.

Come ormai chi frequenta la scuola da qualche tempo sa bene, e come Ilaria ha ricordato all’inizio di queste giornate, le parole della contestazione vengono catturate da chi della contestazione è oggetto: vengono interpretate in un significato capovolto o travisato, e così restituite al popolo perché tutto sembri cambiato mentre tutto è rimasto come prima. Anche “partecipazione” è una parola da adoperare con attenzione: una parola da qualificare, come del resto moltissime altre.

Ciò che voglio sottolineare è che la possibilità di costruire una “città dei cittadini” è fondata sulla possibilità di coinvolgere la cittadinanza attiva (ma tendenzialmente tutti gli abitanti) a partecipare al governo della città fin dai primo momenti della sua progettazione, ad esprimere le esigenze ed esprimersi sulle scelte, per orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.

Questa esigenza pone problemi complessi. Due mi sembrano particolarmente rilevanti: la capacità delle persone di scegliere tra alternative diverse, la capacità di pensare e agire (quindi partecipare) alle diverse scale alle quali i problemi del territorio si pongono.

La prima. Il “cittadino governante” (per richiamare il nome di una bella esperienza dei cittadini del comune di Giulianova) deve comprendere che c’è un conflitto tra l’avere l’automobile sotto casa e vivere in un quartiere sano e bello; deve comprendere che, nella distribuzione delle risorse comunali, le sue esigenze come maschio adulto e dotato di un reddito adeguato sono diverse da quelle della donna o del bambino o dell’anziano o del povero, ma che fra tutte bisogna stabilire delle priorità. E deve saper scegliere.

La seconda. Mille ragioni militano a favore del “locale” come punto di partenza di un’azione di rinnovamento profondo della città e della società. Ma sarebbe assolutamente da perdenti chiudersi nel localismo. I fenomeni che accadono nell’habitat dell’uomo rispondono ad azioni e a poteri che si sviluppano a scale diverse, e la democrazia – la nuova democrazia – deve saper pensare agire, partecipare, a tutte le scale

3a domanda.

Quali attori e quali risorse

per costruire la “città dei cittadini”?

Se vogliamo contribuire a modificare la realtà che non ci piace, è certamente necessario tracciare immaginari, scenari, visioni, definire principi e indirizzi, disegnare o raccontare progetti. É necessario, ma non è sufficiente. Costruire un habitat dell’uomo adeguato alle necessità e alle esigenze di oggi richiede attori e risorse. Su che cosa possiamo contare, oggi che gli attori tradizionali (i partiti, le istituzioni, la stessa società) sembrano ingoiati dal ventre possente dell’ideologia e dalla prassi del neoliberismo?

Discorso arduo, reso ancora più arduo per noi dal fatto che è radicalmente mutato il rapporto, essenziale per la pianificazione anche su questo terreno, tra pubblico e privato. Il “pubblico”, una volta sperata espressione dell’interesse generale, è stato colonizzato dal “privato”, di cui è divenuto strumento. Testimonianze sempre più ricche ne troviamo guardando alla realtà (come abbiamo fatto nell’analizzare le vicende dell’area milanese e di quella fiorentina).

Sempre più vasto appare il ruolo di quello che una volta si chiamava “parastato”, una volta costituito dalle appendici ed emanazioni del potere pubblico, Oggi il “parastato” è rappresentato da una miriade di strutture pagate dal “pubblico”, che decidono per conto del “pubblico”, e che esprimono interessi non solo criticabili perché settoriali, ma perché sono ormai divenuti espliciti strumenti degli interessi privati. I loro principali campi d’azione sono le infrastrutture, gli appalti pubblici, le operazioni immobiliari. Uno degli strumenti più efficacemente perversi è quello del “commissario straordinario”, che eddyburg ha puntualmente denunciato in tutte le occasioni in cui questa fattispecie si è manifestata: dal dopoterremoto all’Aquila allo scandalo del Lido di Venezia.

Quali attori

Anche a proposito di questa domanda espongo qualche idea da discutere. Ma soprattutto qualche problema sul quale è necessario riflettere e discutere.

Primo problema relativo agli attori. Rilevante è certo il ruolo del “terzo settore”, quello che da qualche decennio si colloca tra le due dimensioni (e poteri) dello Stato e del Mercato. É lo spazio sociale nel quale si colloca quell’insieme di forze disperse che ho definito “società critica”. Ma nel Terzo settore non ci sono solo i comitati e le reti: ci sono anche i cavalli di Troia del Mercato, e i raccomandati dello Stato.

Secondo problema. Restando nell’ambito della “società critica”. É noto il dibattito sulla necessità e sulla difficoltà di superare la dispersione e frammentazione dei gruppi e delle iniziative, e di far emergere una realtà pienamente politica, capace di strutturarsi e agire con continuità a tutti i livelli necessari. Problema aperto, quanti altri mai.

Terzo problema. In che modo è possibile riconquistare il terreno delle istituzioni – a partire da quelle del potere locale, ma aspirando ad una dimensione più vasta. Secondo me è un passaggio necessario per riacquistare la capacità di avere una visione (e uno strumentario) multiscalare, entrambi indispensabili per contrastare efficacemente quelli del neoliberalismo.

La debolezza delle reazioni critiche suscitate dalla decisione di abolire sic et simpliciter le province senza aver prima costruito una sufficiente proposta per la dimensione territoriale dell’area vasta è indicativo dei ritardi, delle incomprensioni (e dell’ignoranza diffusa) sulle questioni concrete del governo del territorio.

Le risorse

Anche per riconquistare le istituzioni una questione decisiva è: quali risorse? La città pubblica, componente essenziale della “città dei cittadini”, costa. É necessario molto lavoro per costruirla, e forse ancora di più – nel nostro disgraziato paese – per partire dalla trasformazione della città esistente. E il lavoro va retribuito. Dove prendere le risorse necessarie, in primo luogo per liberare i comuni tendenzialmente virtuosi dal ricatto “o ci aiuti a fare affari o crepi”.

Su questo terreno ci sono molte risposte, la maggior parte delle quali ragionevoli e percorribili da una volontà poliitica finalizzata al bene comune. Mi limito a elencare i temi, le voci delle entrate di un possibile bilancio virtuoso.

In primo luogo, le spese per la guerra. Le proposte del governo italiano (e degli altri paesi nordatlantici) alla crisi avrebbero richiesto un forte rilancio della tensione del pacifismo. La partecipazione anticostituzionali dell’Italia alle guerre in corso nel mondo non genera benefici e determina spese colossali. Abbiamo registrato subito, su eddyburg, la proposta di Alex Zanotelli e chiesto l’intervento di Carla Ravaioli, storica sostenitrice della necessità del disarmo proprio per ragioni di riduzione del danno ambientale e di recupero di risorse impiegabili per una società migliore.

Seconda voce, il risparmio delle risorse impiegate male per iniziative pubbliche (a tutti i livelli) non prioritarie, oppure inutili e dannose, oppure affaristiche, oppure addirittura ruffaldine. Paolo Berdini ne ha fatto un sommario elenco sul manifesto di domenica scorsa (lo trovate anche su eddyburg). Quante spese inutili genera l’ideologia della “competizione tre città”, e quante la pratica degli appalti all’italiana, ivi compresa la “finanza di progetto”?

Terza voce, l’acquisizione degli incrementi delle rendite immobiliari derivanti da scelte e investimenti pubblici. La rendita immobiliare non si può eliminare dal calcolo economico, ma si può certamente sia ridurne l’incidenza (Vezio De Lucia lo ricorda spesso) sia spostarne i benefici dal privato al pubblico. Nella discussione sulla crisi è stata avanzata da più parti la proposta di una tassa patrimoniale, destinata a colpire le rendite finanziarie e quelle immobiliari, ma mi sembra che l’esito sia stato modestissimo: nella quantità del prelievo e nell’eccezionalità dell’imposizione.

La città, e anche…

Spero che il dibattito di oggi, e quello che proseguirà dopo la scuola, permetterà di dare risposte più convincenti e ricche alle tre domande che ponevo. Per concludere vorrei innanzitutto porre a noi tutti (e in particolare a noi urbanisti) un’avvertenza.

Incorreremmo nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e rinchiuse nella propria tecnicità se trascurassimo il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia all’antropologia.

In effetti, affrontare in modo risolutivo quei temi che ho indicato presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze, cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano, anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.

É in relazione a questi temi che dobbiamo secondo me domandarci che cosa possiamo fare per contribuire alla formazione di una società e una città costruite sulla base del paradigma dei beni comuni. Sono convinto che abbia affermato una grande verità Giovanna Ricoveri quando ha detto che occorre essere utopici nel progettare il futuro e realisti nell’agire. Sono convinto che la trasformazione deve essere profonda, e cambiare nella sua radice la struttura della società attuale. Occorre una rivoluzione, cioè un cambiamento profondo e radicale del sistema dato.

Ma rivoluzione non significa necessariamente sommovimento violento, né conquista di bastiglie o palazzi d’inverno. Significa anche conquistare progressivamente e gradualmente trasformazioni parziali collocate in una strategia unitaria, ciascuna delle quali contribuisca a modificare non solo le condizioni della società, ma anche i rapporti di potere. Le modifiche che la realtà ci consente di compiere oggi sono modifiche parziali. Ma un conto è considerarle una tappa in un percorso verso un’utopia, un altro conto considerarle come traguardi sufficienti in se stesse.

Che fare?

Una domanda circola – mi sembra – tra i diligenti e appassionati frequentatori della scuola, dopo i tre giorni in cui si è ragionato su grandi cose e grandi problemi: molto più grandi di noi. Che cosa possiamo fare noi, in che direzione dobbiamo spingere il nostro impegno di cittadini e di operatori o studiosi della città? In che modo possiamo contribuire a far sì che anche le nostre azioni concrete spingano nella direzione giusta – concorrano alla costruzione della “città dei cittadini” e all’inveramento del paradigma dei beni comuni?

Io parto da una considerazione. Il compito di assumere le decisioni sul destino del territorio, di formare e trasformare l’habitat dell’uomo, è responsabilità della politica.

Abbiamo visto che i due elementi su cui sembra reggersi la politica oggi siano in crisi profonda. Non hanno giustamente più credito i partiti politici (quale più e quale meno, ma tutti), quasi senza eccezione asserviti all’ideologia della crescita e dello “sviluppo”, schiacciati sugli interessi del sistema economico dato. Vivono vita per molti aspetti precaria la maggior parte delle istituzioni, e in particolare quelle cui spetta la responsabilità di decidere sul territorio: colonizzate dagli stessi virus che hanno inquinato la politica dei partiti, travolte dalla “città della rendita” (spesso realizzata con la loro diretta complicità) o strangolate dalla crisi della finanza locale.

Continuo a sostenere che gli unici elementi di speranza li vedo in quella parte della società civile che ho definito la “società critica”: il mondo dei comitati, delle associazioni e dei gruppi di cittadinanza attiva che contrastano il saccheggio del territorio e degli altri beni comuni, il popolo delle “onde” che si sollevano per protestare contro le condizioni cui è ridotta la scuola, per il ruolo cui sono sempre più condannate le donne, per l’annientamento cui si sta procedendo nei confronti dei diritti del lavoro, il bacino ancora più vasto costituito da quelle decine di milioni di persone che hanno votato per combattere la privatizzazione dell’acqua e la minaccia nucleare alla salute del genere umano.

«Restituire lo scettro al principe»

Credo che per conquistare la politica si debba operare un rovesciamento: partire dal basso anziché dall’alto, dal cittadino anziché dal Palazzo. Nelle costituzioni dei paesi democratici la sovranità è del popolo. Un libro del politologo Gianfranco Pasquini si chiama «Restituire lo scettro al principe». Il “principe” non ha più fiducia su chi ha delegato ad utilizzare in suo nome lo scettro, il potere. Occorre ripartire dal principe, dal cittadino. Del resto, cito spesso il pensiero di Lorenzo Milani secondo il quale affrontare insieme un problema comune è la politica.

Partiamo dal cittadino. Ma il cittadino non conosce tutto. I problemi di oggi – e in particolare i problemi del territorio, le soluzioni possibili, i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna delle soluzioni (e i danni provocati dalle soluzioni proposte nell’ambito del mainstream) – non solo sono complessi in sé, e richiedono spesso apporti specialistici per essere compresi, ma sono anche nascosti, dissimulati, travisati dalle parole adoperate da chi li espone e ne propone le soluzioni.

Ecco allora un grande campo di lavoro per chiunque sia un intellettuale e abbia le conoscenze specialistiche uili a comprendere, criticare, proporre. Noi che sappiamo, dobbiamo spiegare. Imparare a usare un linguaggio semplice, abbandonare il gergo delle nostre “discipline” per spiegare, argomentare, convincere. É quello che tentiamo di fare con la scuole di eddyburg. E giustamente Ilaria diceva: è necessario che nascano 1000 scuole di eddyburg.

Dobbiamo aiutare – con il sapere e il saper fare che deriva dal nostro mestiere, dei nostri mestieri – chi vuole cambiare.

Naturalmente non solo con l’esercitare una sorta di “assistenza tecnica” alle componenti della “società critica” e aiutandoli a comprendere che cosa c’è dietro alle scelte sbagliate e ad opporvisi, ma anche tentando operazioni mirate a formulare progetti capaci di camminare nella concretezza delle trasformazioni del territorio, e costruendoli insieme agli attori sociali interessati. Per esempio, quale campo di lavoro si aprirebbe se volessimo affrontare i problemi della mobilità, o quelli dell’organizzazione territoriale dei servizi e degli spazi pubblici, o quelli della riduzione del consumo di suolo e della difesa dell’agricoltura, trovando alleanze nel mondo del lavoro, o in quello della scuola e delle donne, o in quello degli agricoltori, e magari trovando il sostegno di gruppi di cittadinanza attiva aiutandoli a trovare risposte “in positivo” sugli argomenti delle loro proteste.

Ho accennato ad alcune di queste possibilità in un eddytoriale (il n. 144) che è tra le carte che vi abbiamo distribuito. Continuiamo a ragionarci insieme, e orientiamo anche in questa direzione le prossime iniziative che proporremo come Scuola di eddyburg. Proporremo un nuovo formato, più flessibile, più snello, e più continuo. Forse, dalla scuola estiva alla scuola permanente.

NotaGli altri materiali del corso sono inseriti nelle due cartelle qui. I testi delle lezioni saranno aggiunte via via che saranno pronte

Quest'anno Mauro e Ilaria hanno scelto, come gadget per gli studenti e docenti, una maglietta con il logo della scuola. Paula De Jesus ha fotografato chi è pazientemente rimasto fino alla fine. Qui sotto potete scaricare un file .pdf nel quale vedete le immagini un po' meglio che nel web. In fondo anche la maglietta a distanza ravvicinata, con un modello (senza testa) raccattato il giorno dopo.

Intanto Giorgia Boca sta raccogliendo le foto per inserirle in picasa, il cui indirizzo sarà comunicato a chi è indirizzato. E Paula sta preparando un filmato.

MODALITÀ DI ISCRIZIONE ALLA SCUOLA

Quest'anno l'iscrizione alla scuola e la sistemazione alberghiera sono distinte. I prezzi sono, come sempre, ridotti al minimo, dato il carattere volontaristico che contrassegna la scuola.

La quota d'iscrizione alla scuola è di 370€ + 20% iva per un totale di 444€ e dà diritto di fruire delle attività didattiche, dei materiali didattici, dei pasti non compresi nella quota di sistemazione alberghiera, di partecipare alla visita ai luoghi con cena in agriturismo e a tutte le altre attività organizzate dalla scuola. Le amministrazioni e gli istituti universitari sono esenti Iva.

La sistemazione alberghiera presso l'hotel convenzionato Cavallino Bianco *** dal 13 sera (cena inclusa) al 17 mattina, comprende 4 notti, colazioni e pasti, ed è gestita dall'azienda Promohotels. Costituisce quota a parte (di 145 € per sistemazione in camere multiple o di 185 € per sistemazione in camera singola).

La prenotazione della camera deve effettuarsi tramite l'apposita «scheda di prenotazione alberghiera» allegata, da spedire a Promohotels via email a:
eventi@promhotelsriccione.itoppure tramite fax 0541 601775 accompagnata da una caparra confirmatoria pari al 30% del totale della prenotazione. Le condizioni del trattamento, ulteriori informazioni e modalità di pagamento sono illustrate nella scheda stessa.

E’ ammesso alla scuola un numero massimo di 40 partecipanti. La selezione verrà effettuata sulla base della data di spedizione del modulo di iscrizione e della scheda di prenotazione alberghiera. Parteciperanno i primi quaranta richiedenti che si saranno iscritti secondo le modalità sotto riportate. In caso di richieste in esubero verrà compilata una lista di riserva.

Sono disponibili 15 posti a quota ridotta per partecipanti junior, ovvero studenti e giovani urbanisti ‘precari’ under 35 che provvedono personalmente alle spese di iscrizione alla scuola. La domanda di ammissione ai posti riservati ai partecipanti junior deve essere inoltrata tramite email a Ilaria Boniburini (info@zoneassociation.org) specificando le ragioni di tale richiesta.

Per iscriversi alla scuola occorre:

1. Compilare e inviare il «modulo di iscrizione alla scuola» (scaricare il modulo qui sotto) via mail a:

Ilaria Boniburini - Zone onlus, Email:
Info@zoneassociation.org

2. Pagare la quota di iscrizione alla scuola entro il 28 agosto 2011 mediante bonifico bancario in favore di ZONE ONLUS VENEZIA, CC Banco Posta N. 1425844, IBAN: IT18 A0760102000000001425 844 oppure tramite bollettino postale sul conto corrente postale 1425844 intestato a Zone Onlus Venezia. Specificare la causale «scuola di eddyburg 2011». Gli Enti pubblici hanno la possibilità di iscrivere i loro dipendenti, senza pagamenti anticipati, purché alleghino alla domanda di iscrizione la determina dirigenziale che stabilisce il relativo impegno di spesa e di pagamento entro l'anno corrente.

3. Compilare e inviare la «scheda di prenotazione alberghiera» (scaricare il modulo qui sotto) entro il 28 agosto 2011 seguendo le istruzioni specificate sulla scheda di prenotazione alberghiera.

In mancanza dell'ottemperamento a queste istruzioni entro il 28 agosto, sarà facoltà degli organizzatori annullare l’iscrizione.

1. Sette anni di scuola

La scuola di eddyburg è nata nel 2005 come estensione concreta del sito, con l'intenzione di coagulare e condividere le riflessioni sulla città e la società, sull'urbanistica e la politica.

La sua prima ideazione è scaturita dalla constatazione che, tanto nei corsi professionali, quanto nella formazione universitaria, mancasse qualcosa. Che fosse possibile e necessario:

- proporre un'analisi critica, non limitata ad una mera e compiaciuta descrizione del mondo e dei suoi cambiamenti, ma intesa come la necessaria premessa per agire attivamente;

- esprimere un punto di vista motivatamente orientato, senza paura di apparire schierati e rifuggendo ogni atteggiamento pseudo-neutrale (nei fatti, conformista o complice), dedicando la necessaria attenzione alle parole, alle storie, alle descrizioni;

- proporre una decisa azione di contrasto alle tendenze dominanti, fondata sulla riaffermazione del perimetro di valori, concetti e strumenti che, a nostro avviso, concorrono a sostanziare la pianificazione territoriale e urbanistica.

Per sostanziare le argomentazioni e per arricchirle, abbiamo fatto della scuola un luogo di ascolto e di confronto con un ampio gruppo di persone, diventate amici e frequentatori duraturi: storici ed esperti delle discipline umanistiche e delle scienze sociali (economisti, sociologi, antropologi, letterati), esperti delle discipline scientifiche (geologi, agronomi, ingegneri ambientali) animatori e aderenti di associazioni e movimenti, funzionari della pubblica amministrazione, politici e amministratori fuori dal coro.

Ma soprattutto, abbiamo dedicato uno spazio e un’attenzione specifica, nelle prime giornate della scuola, alle “parole della città”, per comprendere la loro ambiguità, per disvelare l’appropriazione e l’uso distorto dei termini da parte dell’ideologia dominante, le potenzialità di un diverso impiego a fini della rinascita di un pensiero critico e della costruzione di prospettive alternative.

Nel nostro specifico, ci è sembrato necessario:

- denunciare lo snaturamento dell'urbanistica, determinato dall'assunzione di una punto di vista prettamente mercantilistico nella definizione delle scelte;

- evidenziare la degenerazione determinata nell’ultimo quindicennio dalle iniziative del governo e di molte amministrazioni regionali, nel loro complesso convergenti verso lo smembramento e smantellamento del ruolo e degli strumenti pianificazione territoriale e urbanistica;

- riportare l'attenzione sul lato oscuro delle trasformazioni della città e del territorio, sottaciuto o sottovalutato da una parte non trascurabile degli urbanisti, dedicando le giornate centrali all’illustrazione di “casi” finalizzata a capire perché e sotto quali aspetti ‘i conti non tornano’, valutando e comparando tra loro non tanto modelli astratti, quanto piuttosto le opzioni in gioco e gli esiti delle trasformazioni;

- allo stesso tempo, illustrare una serie di buone pratiche che, per quanto minoritarie e precarie, restituiscono un ventaglio d’iniziative possibili, molto più ampio di quanto solitamente si ritiene. Piani e politiche di gestione dei parchi (in particolare di parchi agricoli e periurbani), di recupero e cura del paesaggio, piani regolatori, piani per la mobilità e l’ambiente urbano, politiche per la casa e per i servizi coniugate alla rigenerazione di aree dismesse, pratiche di difesa, riconquista e gestione degli spazi pubblici: il catalogo di iniziative mostrato alla scuola è più ampio di quanto si potrebbe pensare.

2. I temi trattati

Ogni anno la scuola è stata organizzata attorno ad un tema specifico. Tuttavia, rilette in prospettiva, le sette edizioni costituiscono altrettanti passaggi di un ragionamento che si è ampliato, fino a investire, nelle ultime due edizioni, i “fattori strutturali”, ovverosia il rapporto tra economia e territorio. Può essere utile riepilogare, molto brevemente i temi delle sei edizioni precedenti.

2005. Lo sprawl urbano e il consumo di suolo sono stati il primo argomento trattato, nel 2005. Da lì è nata una proposta di legge urbanistica, fortemente centrata su questo obiettivo, che è stata ripresa nel lavoro parlamentare e politico. Ed è da quella proposta che è nato un interesse per la questione che ha connotato il dibattito anche in altre sedi. Abbiamo insomma contribuito a far emergere una questione centrale, per la qualità del territorio e della vita che su di esso si svolge, fino ad allora largamente trascurata in ogni sede.

2006. Il governo pubblico della città è stato il tema dell’anno successivo: le sue finalità, i suoi strumenti, i suoi modi. Le domande che hanno costituito la traccia della Scuola sono state: come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si è tentato di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.

2007 La terza edizione della scuola è stata dedicata a un tema già da tempo all’ordine del giorno: il paesaggio. A differenza delle numerose iniziative che altri, in questi stessi anni, hanno dedicato all’argomento, nella scuola ci siamo riferiti a un aspetto secondo noi particolarmente rilevante: il paesaggio e i cittadini - parole, istituzioni, società. Non esiste infatti speranza di mantenere viva (e per ciò in primo luogo far sopravvivere) le qualità e le testimonianze che i nostri progenitori, la loro cultura, la loro azione hanno sedimentato nel territorio se non si individuano in modo corretto i soggetti che a tale compito devono accingersi. E se in primo luogo non ci si mette d’accordo sulle parole attraverso le quali essi si esprimono.

2008. Il tema della quarta edizione è stato che fare per rendere le città più vivibili. Partendo dalla riflessione sulle parole della città abbiamo compreso meglio in che modo le nostre piccole storie si pongano nell’ambito del conflitto tra due concezioni e due strategie: quella della città come merce, tipica del neoliberalismo e caratterizzata dal vedere la città come una macchina fatta per arricchire, e quella della città come bene comune, come costruzione collettiva finalizzata ai bisogni delle persone che vi abitano e lavorano.

2009. Città e spazi pubblici: declino, difesa, riconquista è stato il titolo della quinta edizione. Abbiamo ragionato sui cambiamenti che nella società e nella città hanno determinato il declino dello spazio pubblico, abbiamo posto il tema del “diritto alla città”, e abbiamo discusso su alcuni momenti della storia del nostro paese in cui urbs, civitas e polis si sono incontrate attorno ai temi della “città pubblica”. Comprendere le ragioni fondamentali del declino ci ha aiutato a precisare il senso delle vertenze aperte per resistere e difendere lo spazio comune e i temi da affrontare per riconquistarlo.

2010-2011. Infine, è sembrato necessario affrontare da vicino il rapporto tra urbanistica ed economia, tema al quale abbiamo dedicato le due ultime edizioni. Nella sesta ci siamo focalizzati sulla questione dell’appropriazione della rendita immobiliare: un problema cruciale dell’urbanistica moderna da quando essa è nata, e cioè dalla rivoluzione liberale e dall’affermazione del sistema capitalistico-borghese. Problema che da sempre costituisce il cruccio degli operatori della città in nome dell’interesse generale, che ha assunto nella società neoliberista connotazioni del tutto particolari. Quest’anno affrontiamo il nodo cruciale di questa fase storica, individuato appunto titolo: “Oltre la crescita, dopo lo ‘sviluppo’”. Sviluppo è un termine che adoperiamo sempre tra virgolette, quando vogliamo rilevare la deformazione del concetto che è stata compiuta schiacciandolo sull’unica dimensione dello sviluppo economico finalizzato alla produzione di merci.

Assieme a Edoardo Salzano (cui sono affidate, nella quarta giornata, le conclusioni di questa edizione e del ciclo settennale sopra descritto) e a Ilaria Boniburini, con i quali ho condiviso lo sforzo di ideazione e di organizzazione materiale della scuola, voglio:

- ringraziare, non senza commozione, i sessanta docenti che ci hanno donato il loro apporto (in senso letterale, poiché non hanno percepito alcun compenso), e i circa 200 partecipanti (provenienti da tutte le regioni d’Italia, con la sola esclusione della piccola Valle d’Aosta) che con la loro presenza hanno reso viva e vitale la scuola;

- confermare sin d’ora il nostro impegno a proseguire, seppure con modi e strumenti differenti, la riflessione critica sulle trasformazioni in atto e la paziente ricerca di proposte utili per fare della città e del territorio un buon posto per vivere.

Gli spazi pubblici: declino, difesa, riconquista

Il programma delle V edizione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg. In calce i moduli per l’iscrizione

Premessa

Mai come in questo momento, l’attenzione allo spazio pubblico della città travalica gli aspetti tecnici e progettuali per acquistare un significato più ampio. Il progressivo declino dell’uomo pubblico ha fatto smarrire la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune. Intendere la “città come bene comune” significa pensare la città come il luogo dove le esigenze e i bisogni dei suoi abitanti sono garantiti, dove è possibile accedere senza difficoltà ai servizi essenziali, dove è piacevole incontrarsi, dove le iniziative culturali consentono di emanciparsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico. Significa riconoscere l’esistenza di un “diritto alla città”, oggi non garantito. Richiede uno sforzo di pianificazione affinché le attrezzature di interesse collettivo siano previste in quantità adeguate e localizzate in modo opportuno. Comporta un investimento collettivo, affinché siano gestite con cura e continuità nel tempo, senza che ciò significhi piegare a logiche finanziarie ciò che deve misurarsi in termini di equità, benessere e felicità.

Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. Per noi lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, si estende all’insieme dei luoghi finalizzati alle necessità comuni, e permea l’intera concezione della “città come bene comune”. La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha avuto un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni sessanta la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”.

Attualmente gli spazi pubblici sono a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione. Il loro deperimento ha una matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; ha la sia matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove. Questo rischio va contrastato con forza, indirizzando l’attenzione non soltanto verso le attrezzature e i servizi di prossimità, ma allargando lo sguardo ad una gamma più vasta di esigenze: la ricreazione nei grandi spazi naturali, il godimento dei patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta.

Schema del programma

Nella V edizione della Scuola estiva di eddyburg intendiamo affrontare il tema degli spazi pubblici:

nella prima giornata, affidandoci all’intelligenza e alla sensibilità di alcune persone che – nei rispettivi campi professionali – hanno saputo descrivere con acutezza i cambiamenti che nella società e nella città hanno determinato il declino dello spazio pubblico e che possono aiutarci a definire e sostanziare il “diritto alla città”;

- nella seconda giornata, attraverso il racconto di tre momenti della storia urbanistica del nostro paese in cui si è cercato di fare incontrare urbs, civitas e polis a partire dalle questioni della “città pubblica”;

- nella terza giornata, attraverso una riflessione a tutto tondo sugli “standard urbanistici” e sul modo in cui si possono arricchire (e non derogare!) le indicazioni del decreto del 1968, tuttora il principale strumento di garanzia della città pubblica;

- nella giornata conclusiva attraverso un convegno pubblico, nel quale saranno invitati gruppi e associazioni impegnati direttamente nella difesa degli spazi pubblici.

La prima sessione: parole chiave

Come di consueto la premessa della prima sessione, coordinata da Edoardo Salzano, sarà costituita dall’analisi di alcune parole chiave, che saranno proposte da Ilaria Boniburini. Questa volta le parole avranno il loro titolo nel rapporto tra Spazio e Potere, e forniranno elementi di riflessione sui lemmi compresi in queste espressioni: Città e potere; Spazio/Sfera pubblico e privato; Diritto alla città.

Che cosa significa la rottura dell’equilibrio tra la componente privata e la componente pubblica della personalità umana? Come si è prodotta e che cosa ha comportato e comporta nell’uomo e nella società? La sociologa Antonietta Mazzette ci guiderà alla comprensione di questo tema.

In che modo le trasformazioni recenti della società e le nuove ideologie influiscono sull’uso dello spazio? Determinano o meno un diverso rapporto nella città tra spazio pubblico e spazio privato, e nella stessa configurazione dell’uno e dell’altro, e se si in che senso? Come le trasformazioni dello spazio della città retroagiscono sulla società? L’urbanista Paola Somma, proseguendo la comunicazione svolta nella precedente sessione della Scuola di eddyburg, di sviluppare questo tema.

Dopo aver esaminato la questione dello spazio pubblico in termini generali e in riferimento alle tendenze della società del nostro tempo, nella seconda parte della sessione, vogliamo approfondire l’analisi in riferimento alla concreta situazione. Nello specifico delle nostre città in che modo lo spazio del quotidiano viene usato? La sociologa, Elisabetta Forni, affronterà il tema dal punto di vista della società. L’urbanista Giovanni Caudo ci aiuterà a ragionare partendo dai risultati di una ricerca sul modo in cui sono fruiti gli spazi pubblici a Roma.

La sessione durerà l’intera prima giornata. Alcuni spazi di adeguata ampiezza saranno riservati alla discussione.

Seconda sessione: tre vicende esemplari

La seconda giornata, coordinata da Giovanni Caudo, è centrata sul racconto di tre vicende urbanistiche particolarmente significative che hanno avuto come protagonisti gli spazi pubblici:

- dal movimento femminile alla consulta dell’Emilia Romagna: nascono gli standard urbanistici; la politica (la sinistra, quantomeno) comprende l’importanza del tema degli spazi pubblici e lo fa proprio, nell’amministrazione prima e nella legislazione subito dopo (Edoardo Salzano, Marisa Rodano);

- la lezione urbanistica di Roma capitale: i fori e l’Appia; Petroselli e Cederna, intellettuali di avanguardia, hanno una prodigiosa intuizione sul valore ‘sociale’ della fruizione collettiva del patrimonio culturale, ma la sinistra questa volta non segue (Vezio Emilio De Lucia);

- in difesa di Macrico, Caserta: i cittadini si mobilitano per riconquistare lo spazio pubblico; la politica, anche a sinistra, è pressoché scomparsa e alcuni gruppi di cittadini si fanno diretti portavoce dell’esigenza di considerare la “città come bene comune”, a partire dalla difesa degli spazi pubblici (Maria Carmela Caiola).

Terza sessione: i nuovi standard urbanistici

Il dibattito disciplinare è appiattito sul problema dell’acquisizione dei suoli e l’opinione prevalente concorda sulla necessità di barattare metri cubi e attrezzature. Le cose stanno davvero così? A partire da una panoramica critica delle leggi regionali, di alcune esperienze concrete e di ricerche in atto nella terza giornata, coordinata da Mauro Baioni, si vuole proporre un modo differente di guardare agli spazi pubblici, ragionando attorno alle seguenti questioni aperte.

Se puntiamo all’arresto della crescita infinita delle città, come innalzare la qualità degli insediamenti esistenti? Oltre ad acquisire suolo pubblico, di quali aspetti dobbiamo farci carico? Che cosa costituisce il “sistema delle qualità”di un insediamento e in che modo possiamo restituire agli spazi pubblici la pienezza della loro funzione?

Nella città dello sprawl dobbiamo rassegnarci all’idea che lo spazio pubblico è surrogato dai mall commerciali o dai parchi di divertimento? La gestione condivisa dei servizi pubblici può essere un fattore decisivo per promuovere il coordinamento dei comuni? Possiamo ampliare il concetto di spazi pubblici e individuare nella fruizione dei beni culturali e ambientali un elemento peculiare per sostanziare la ‘dimensione pubblica’ della città in Italia? Che cosa possono fare le provincie?

A queste domande si cercherà di rispondere attraverso i contributi di Maria Cristina Gibelli, Giorgia Boca, Mauro Baioni e di funzionaridi amministrazioni pubbliche dell’area bologneseimpegnate nella pianificazione degli spazi pubblici (tra cui Maurizio Sani, Barbara Nerozzi, Graziella Guaragno, Elettra Malossi).

Convegno conclusivo

Negli anni del welfare urbano gli spazi pubblici hanno costituito l’obiettivo di significative lotte sociali, spesso coronate da successo. Oggi essi sono l’oggetto di fenomeni preoccupanti di degradazione, esclusione, commercializzazione, privatizzazione. Ma sono anche sempre più spesso l’obiettivo di azioni sociali per la loro difesa. In Italia e in Europa cresce il numero dei comitati, dei gruppi, delle associazioni, spesso tendenti ad aggregarsi in reti più ampie, per la loro difesa e promozione. Tra essi è presente, da alcuni anni, una Rete delle camere del lavoro – Cgil che è diventata protagonista, a livello nazionale e internazionale, della riflessione sull’attuale condizione urbana e, in molte città italiane, di azioni di stimolo e collaborazione per una migliore vivibilità ed equità per tutti gli abitanti.

Questa azione collettiva può costituire oggi il motore necessario per un rinnovamento del governo del territorio, può indurre gli amministratori a porre obiettivi giusti alla pianificazione territoriale: questa è la speranza nella quale anche noi scommettiamo. È allora utile consolidare il ponte tra persone, gruppi e interessi diversi, stimolare la conoscenza e il dialogo, la condivisione di competenze e esperienze, esigenze e bisogni diversi. In particolare, ci proponiamo di coinvolgere coloro che si mobilitano in difesa del territorio, delle città e degli spazi pubblici, in una iniziativa che da qualche tempo eddyburg, in collaborazione con altre associazioni, ha avviato: un progetto per la costruzione di una mappa degli spazi pubblici e, parallelamente ad essa, di una mappa degli spazi a rischio e dei conflitti per la loro difesa, o riconquista, o conquista.

Per affrontare questi temi, nella giornata conclusiva la scuola si apre all’esterno. In un convegno pubblico, organizzato con la Camera del lavoro territoriale – Cgil di Padova e con Legambiente Padova, oltre a rendere pubbliche le conclusioni delle tre giornate della scuola, si presenteranno e discuteranno i progetti e si scambieranno informazioni e proposte di iniziative con i rappresentanti di reti, comitati, associazioni, gruppi che interverranno alla manifestazione. (Vedi il programma del convegno)

Attività collaterali

Come ogni anno, la scuola non si esaurisce in una serie di comunicazioni frontali, ma prevede spazi organizzati di discussione (durante la prima giornata e il pomeriggio di venerdì), una visita al territorio (nel pomeriggio della seconda giornata, attraverso la collaborazione delle associazioni culturali Frammenti e di Antiruggine), una sessione conclusiva in cui far confluire le riflessioni maturate durante il corso delle giornata e la possibilità per gli studenti di condividere con i docenti anche i momenti liberi delle giornate.

Aspetti organizzativi

Sede

Sede della scuola è il centro storico di Asolo (TV), posto su un colle aguzzo tra Bassano del Grappa e Valdobbiadene. Le lezioni si terranno presso l’Istituto delle suore Dorotee di Asolo, dove si potrà soggiornare usufruendo di condizioni agevolate per gli iscritti alla scuola.

Chi desidera ulteriori informazioni sulla sede puà consultare

il sito dell’Istituto

e il sito del

Comune di Asolo

Periodo di svolgimento

La scuola si terrà dal 9 al 12 settembre 2009

Iscrizioni e aspetti logistici

Le iscrizioni e l’organizzazione degli aspetti logistici sono gestiti dall’associazione ZONE onlus, di cui la Scuola è attività. Sarà ammesso un numero massimo di 40 studenti.

Informazioni e documenti

Sul sito eddyburg.it è aperta una cartella dedicata alla V edizione della scuola, dove sono via via pubblicati il programma definitivo e i materiali di riferimento relativi agli argomenti trattati nelle lezioni.

Generalità

La Scuola estiva di pianificazione (Scuola di eddyburg) si svolge una volta all’anno, nel mese di settembre, e consiste in una serie di lezioni, discussioni e lavori di gruppo nei quali si incontrano i docenti invitati da eddyburg.it, che offrono gratuitamente la loro collaborazione, e un gruppo di studenti, da 30 a 40 per anno, i quali soggiornano nella sede prescelta. La spesa sostenuta dagli studenti comprende il vitto, l’alloggio e una parte dei materiali didattici, nonché una quota della spesa sostenuta dalla Scuola per il noleggio e l’attrezzatura dei locali e le altre spese connesse. Ad alcuni partecipanti junior è offerta la possibilità di pagare una quota ancora inferiore.

Obiettivi

L’obiettivo primario è quello di integrare l’attività formativa fornita dal sito eddyburg.it mediante l’approfondimento di un tema scelto, volta per volta, in relazione al suo interesse, utilizzando le conoscenze e le esperienze dei docenti universitari e di altri esperti che fanno riferimento a eddyburg.it, ne condividono i principi e sono disposti a contribuire volontariamente alle sue attività. Altri obiettivi sono quello di utilizzare l’approfondimento degli argomenti trattati e il dialogo con gli studenti per fornire nuovo alimento al sito, nonché quello di allargare il numero delle persone legate a eddyburg.it da rapporti di condivisione e collaborazione.

Attività svolta

La prima edizione della Scuola di eddyburg (2005) ha avuto come tema “ Il consumo di suolo”.Essa si è svolta nella sede (centro culturale e foresteria) del Parco archeo-minerario di San Silvestro, nel sistema di parchi della Val di Cornia. È stato sponsorizzata dagli enti locali protagonisti del sistema di parchi e dalla Parchi Val di Cornia s.p.a, che ha organizzato l’iniziativa. Il tema è stato affrontato nei suoi molteplici aspetti e ha dato luogo successivamente a una serie di iniziative grazie alle quali il tema dello sprawl urbano e del consumo di suolo è finalmente divenuto un tema all’attenzione delle forze politiche e sociali e della cultura nazionale. Dalla Scuola, e in particolare dalle lezioni di De Lucia e Scano, è scaturita un’iniziativa di opposizione alla proposta di “Legge Lupi” per il governo del territorio e per la formazione di un progetto legislativo coerente con l’impostazioni di eddyburg.it. I materiali prodotti, tempestivamente inseriti nel sito, hanno poi dato luogo a una pubblicazione edita da Alinea ( No Sprawl, a cira di M.C. Gibelli ed E. Salzano).

La seconda edizione (2006) si è svolta nello stesso sito, con gli stessi sponsor e organizzazione. Il tema è stato “ La costruzione pubblica della città”. Ecco le domande che hanno costituito la traccia della Scuola: come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si è tentato di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano. I materiali prodotti, tempestivamente inseriti nel sito, hanno dato luogo a una pubblicazione edita da Alinea (La costruzione della città pubblica, a cura di M. Baioni).

La terza edizione della Scuola (2007)si è svolta a Corigliano d’Otranto, nello splendido castello de’ Monti, appena restaurato e attrezzato come centro culturale. Dedicata al tema " Il paesaggio e i cittadini: parole, istituzioni, società", essa è stata sponsorizzata dal Comune di Corigliano d’Otranto e dalla Regione Puglia. I temi affrontati sono stati le parole del paesaggio, il quadro normativo della pianificazione paesaggistica l’attuazione del Codice nelle regioni, il piano paesaggistico regionale della Sardegna e la politica del territorio in Puglia.

La quarta edizione (2008) è stata dedicata al tema “ Ma dove vivi? Che fare per rendere le città più vivibili". Essa si è svolta nel Centro di spiritualità delle Suore Dorotee dove hanno trovato posto sia le attività didattiche che l’alloggio e i pasti di studenti e docenti. A una prima giornata, dedicata alle parole della città e ad affrontare il tema dal punto di vista di discipline ed esperienze centrate sugli aspetti sociali, sono seguite tre giornate di analisi critica di alcuni casi di riqualificazione e rigenerazione urbana (Bologna, Cosenza, Torino, Napoli), precedute da due lezioni di carattere generale sul quadro italiano e su quello europeo. Ha dato origine alla pubblicazione, curata da Ilaria Boniburini per i tipi di Alinea: Alla ricerca della città vivibile.

La quinta edizione (2009) è stata incentrata sugli spazi pubblici. Si è svolta, come l’anno precedente, ad Asolo. I temi trattati hanno riguardato le modificazioni nel rapporto tra spazio pubblico e privato determinate dalle trasfor-mazioni della società e dal peso dell’ideologie dominanti, gli standard urbanistici e la piani-ficazione degli spazi pubblici in alcune esperienze italiane. Nella giornata conclusiva, in un conve-gno aperto a tutti organizzato a Padova con Cgil e Legambiente, sono state raccolte le testimo-nianze di comitati, associazioni e gruppi di cittadini che, in molte parti d’Italia, si stanno mobili-tando a difesa del territorio e degli spazi pubblici.Ha dato origine alla pubblicazione, curata da Fabrizio Bottini per i tipi di Ediesse: Spazio pubblico: declino, difesa, riconquista.

La sesta edizione (2010), prima di un ciclo biennale dedicato al rapporto tra urbanistica ed economia, si è svolta, presso la sede del Parco Metropolitano delle Colline di Napoli. Il tema specifico è stato l’analisi della rendita urbana, dei meccanismi attra-verso i quali si forma, degli effetti negativi che produce sulla città e degli strumenti possibili per contenerli.

Docenti

Nelle sei edizioni della scuola, hanno contribuito come docenti:

Giovanni Azzena, Mauro Baioni, Paolo Baldeschi, Angela Barbanente, Lorenzo Bellicini, Paolo Berdini, Maria Berrini, Piero Bevilacqua, Giorgia Boca, Ilaria Boniburini, Fabrizio Bottini, Maria Carmela Caiola, Roberto Camagni, Giovanni Caudo, Piero Cavalcoli, Gabriella Corona,Ilda Curti,Stefano De Caro, Vezio De Lucia, Francesca De Lucia, Antonio di Gennaro, Alfredo Drufuca, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Fernando Fava, Elisabetta Forni, Dario Franchini, Georg Frisch, Roberto Giannì, Chiara Girotti, Graziella Guaragno, Gianni Lanzuise, Elettra Malossi, Oscar Mancini, Anna Marson, Antonietta Mazzette, Barbara Nerozzi, Giancarlo Paba, Dario Predonzan, Gabriele Rabaiotti, Raffaele Radicioni, Carla Ravaioli, Serena Righini,Marisa Rodano, Sandro Roggio, Maurizio Sani, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Paola Somma, Pierluigi Sullo, Giancarlo Sgubbi, Giancarlo Storto, Giorgio Todde, Massimo Zucconi.

Qui di seguito è disponibile il volantino che illustra finalità, contenuti e organizzazione della scuola

Le cronache abbondano di episodi che testimoniano il legame tra corruzione e affermazione della criminalità organizzata nelle regioni del Nord. È importante interrogarsi sulle falle del sistema che agevolano questo perverso connubio, al di là delle responsabilità penali delle persone coinvolte. L’entità del giro di affari nell’edilizia e la presenza di meccanismi ancora troppo opachi, tanto nella formazione delle scelte quanto nei successivi controlli, costiuiscono un formidabile “brodo di coltura” nel quale si ramifica e consolida la criminalità.

Nella seconda giornata, Serena Righini ha presentato il suo lavoro di tesi, incentrato su questo tema. Qui di seguito riportiamo il testo, appositamente scritto per eddyburg. In calce sono scaricabili le slide della presentazione.

Negli ultimi mesi sono state numerose le inchieste e le indagini condotte dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine che hanno svelato, anche in territori fino a poco tempo fa considerati off-limits per la criminalità organizzata, importanti operazioni e trasformazioni urbanistiche che vedono coinvolti, in intrecci poco trasparenti, cosche mafiose ed esponenti del mondo istituzionale.

Spesso il nesso tra criminalità organizzata e territorio viene circoscritto al fenomeno dell’abusivismo edilizio tralasciando di analizzare in che modo i processi decisionali possono venire alterati dalle pressioni della criminalità organizzata che, in questo modo, può orientarli a proprio vantaggio, compromettendo la competitività e lo sviluppo del territorio. Infatti appare sempre più evidente come il pesante condizionamento esercitato dalla mafia sulle scelte di pianificazione sia spesso la causa dello stravolgimento di un ordinato sviluppo urbanistico, che viene così scavalcato da interessi di tipo criminale che sono di ostacolo a una gestione del territorio che abbia come obiettivo il perseguimento dell’interesse collettivo. Alcuni fenomeni che, seppure non imputabili esclusivamente all’agire mafioso, sono influenzati negativamente da eventuali infiltrazioni, sono tipicamente quelli legati alla sovraproduzione edilizia (fenomeno che può essere ricondotto alla necessità di investire e riciclare i proventi di altri traffici illegali nell’attività edilizia da parte delle cosche), ma anche alla cosiddetta “ecomafia”, settore che comprende i reati ambientali, perpetrati in particolare negli ambiti del movimento terra e del ciclo di gestione dei rifiuti, notoriamente caratterizzati da una forte presenza mafiosa.

La relazione tra criminalità organizzata e pianificazione, nella realtà del nord Italia, può essere ricondotta a un approccio tipicamente speculativo nella gestione del territorio che si collega anche al fenomeno della corruzione, coinvolgendo parti sempre più estese sia della componente politica che di quella gestionale e amministrativa di molti enti locali.

Il contesto del nord Italia presenta, a tal proposito, alcune caratteristiche che sembrano favorire le infiltrazioni degli interessi criminali nella gestione del territorio. Da circa un decennio la Regione Lombardia ha avviato un processo di riforma urbanistica che, in nome della semplificazione e dell’efficienza, ha introdotto procedure di pianificazione e programmazione sempre più de-regolative. Il nuovo sistema lombardo di “pianificazione negoziata” è imperniato su un modello di partnership pubblico-privato che priva le strutture pubbliche degli strumenti non solo di controllo ma anche di guida delle scelte strategiche; non prevede criteri oggettivi e prestazionali che regolino la contrattazione e consente, in questo modo, processi decisionali opachi e criteri di valutazione molto discrezionali.

Lo strumento paradigmatico di questa stagione urbanistica lombarda è il Piano Integrato d’Intervento con il quale le Amministrazioni Comunali, previa adozione di un Documento d’Inquadramento (che indica gli obiettivi che si intendono raggiungere e che comunque è modificabile in ogni momento), possono indirizzare le proprie scelte di sviluppo a seconda delle opportunità – o delle proposte – che il contesto immobiliare offre loro.

È facile comprendere, a questo punto, come il contesto lombardo, nonostante alcune ancora forti resistenze soprattutto di carattere propagandistico volte a tutelare l’immagine della “Milano capitale morale d’Italia”, offra ampi varchi per le infiltrazioni criminali.

E forse non è un caso se dalle indagini della Direzione Investigativa Antimafia emerge come nell’ultimo decennio si sia progressivamente diffusa e radicata la presenza della malavita organizzata al nord, fenomeno peraltro dimostrato anche dalle classifiche annuali redatte da Legambiente sui reati ambientali, nelle quali la Lombardia guadagna posizioni ogni anno, e dai dati relativi alle operazioni antiriciclaggio che, nel 2009, hanno visto localizzate nel nord Italia circa la metà di segnalazioni registrate nell’intera penisola.

Nonostante questi dati non lascino dubbi, la percezione mafiosa sul territorio lombardo resta ancora molto bassa. Le attività criminali compaiono raramente sotto i riflettori e non provocano allarme sociale, raramente ricorrono alla violenza, mai alle stragi; piuttosto si presentano con una nuova generazione di “mafiosi con le scarpe lucide”, sempre più inseriti nei settori vitali dell’economia nei quali si presentano con formule e operazioni finanziarie molto avanzate, ricorrendo al decisivo supporto della cosiddetta “zona grigia”.

Società intestate a prestanome che, tramite la corruzione di esponenti politici e di tecnici, si aggiudicano appalti per la realizzazione di opere pubbliche oppure ottengono i permessi per la realizzazione di operazioni immobiliari, anche in difformità con gli strumenti urbanistici vigenti, rappresentano quello che la magistratura definisce un “sistema consolidato e capillare”, nel quale non sempre è di immediata definizione il confine che separa una realtà mafiosa da pratiche speculative e di corruzione prive però di fini criminali.

Un caso di speculazione e corruzione: le inchieste Parco Sud e Parco Sud II

Le inchieste della Magistratura, Parco Sud e Parco Sud II, che hanno interessato il comune di Trezzano sul Naviglio, consentono di comprendere molto bene i meccanismi che portano l’alterazione dei processi decisionali, e quindi delle scelte amministrative, a tutto vantaggio degli interessi criminali nei territori dell’hinterland milanese. Trezzano è un paese di circa 20.000 abitanti, localizzato nella periferia sud occidentale di Milano; circa un anno fa è balzato agli onori della cronaca in seguito all’arresto di numerosi esponenti del clan ‘ndranghetista dei Barbaro-Papalia e a quello dell’ex sindaco, oltre al coinvolgimento di alcuni consiglieri e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale.

Qui è stato proposto, e approvato, un piano di Lottizzazione che interessa un’area a margine del tessuto urbanizzato, localizzata in prossimità del limite del Parco Agricolo Sud Milano, nonostante alcuni vincoli urbanistici - dettati dalla presenza di due pozzi idrici e di un corso d’acqua con relative fasce di rispetto - imponessero importanti limitazioni edificatorie.

Nell’istruttoria della pratica questi vincoli sono semplicemente omessi dalla cartografia e dagli estratti di Piano Regolatore; non viene redatta la relazione idrogeologica che avrebbe dovuto attestare la compatibilità tra il progetto e la vulnerabilità delle risorse idriche sotterranee; non vengono rispettate le distanze dai pozzi di captazione né dal corso d’acqua.

Confrontando l’assetto planimetrico del progetto con i vincoli esistenti è evidente come la situazione progettuale del Piano di Lottizzazione sia molto diversa da quella legale e si può facilmente comprendere che il rispetto della normativa vigente avrebbe comportato uno sfruttamento edificatorio ridotto e quindi minori introiti economici da parte dell’operatore immobiliare vicino al clan ‘ndranghetista.

Ri-regolazione e trasparenza per costruire vantaggio sociale

Ai fini della tutela della legalità, se da un lato appare sempre più anacronistico insistere esclusivamente sul potenziamento delle forze dell’ordine e sull’azione repressiva, dall’altro la ricerca di nuovi strumenti che, anche nel campo urbanistico, siano in grado di ostacolare gli interessi della criminalità organizzata, rischia di diventare un mero esercizio tecnico che, in assenza di un serio intervento sulla trasparenza dei processi decisionali e sul coinvolgimento di tutte le componenti sociali, appesantirebbe ulteriormente l’apparato normativo senza apportare reali contributi e benefici.

L’attivazione di processi di pianificazione maggiormente integrati e partecipati può essere efficace solo se accompagnata da un ripensamento circa le funzioni e il ruolo dell’amministrazione pubblica. Per poter diventare strumenti efficienti per la tutela degli interessi collettivi nei processi di governo del territorio le diverse proposte - politiche attive, standard più esigenti, valutazioni ambientali strategiche - hanno bisogno di un attore pubblico che sia in grado di rappresentare la propria visione strategica e il proprio progetto di territorio inserito in una prospettiva di lungo periodo, all’interno della quale collocare le singole scelte decisionali, che solo in questo modo non sarebbero più dipendenti da proposte e offerte immobiliari estemporanee.

Inoltre il soggetto pubblico deve saper costruire, attorno alle proprie scelte politiche, il maggior livello possibile di consenso sociale. Consenso sociale che non deve essere perseguito tramite il soddisfacimento degli interessi più forti, siano essi di natura più o meno lecita, quanto tramite l’elaborazione di uno scenario di sviluppo locale il più largamente condiviso.

Infatti qualsiasi seria strategia di contrasto non può che agire nella direzione della trasparenza per tutelare gli interessi della collettività e per rompere quegli intrecci che le organizzazioni criminali stringono con il mondo politico e istituzionale e che consentono una gestione del territorio troppo spesso asservita a interessi di dubbia legalità

Nella prima e nella seconda giornata della scuola di eddyburg abbiamo affrontato, da un punto di vista teorico e storico, le nozioni fondamentali relative alla rendita urbana, focalizzando le conseguenze negative del rapporto degenerato tra i percettori delle rendite e i decisori pubblici. Nella terza giornata proviamo a sviluppare in positivo il ragionamento, a partire da due domande:

- quali strumenti consentono di “contrastare la rendita”, così come scritto nel titolo della scuola?

- verso quali obiettivi e finalità concrete (quale tipo di città) possiamo orientare le trasformazioni urbanistiche, se ci liberiamo del peso eccessivo della rendita?

Per provare a rispondere, riprendiamo alcune indicazioni emerse nella prima giornata.

Salzano e Camagni hanno spiegato i modi in cui si forma la rendita urbana e come essa, negli ultimi 20 anni, si sia trasformata, accresciuta e redistribuita (in quel circolo perverso che ha determinato la “bolla immobiliare”); questa mutazione ha rinsaldato il blocco edilizio rendendo assai problematica la separazione tra profitto capitalistico e rendita, sia per la coincidenza dei soggetti (gli stessi soggetti che producono beni investono nel mattone), sia per l’amplissima base proprietaria che alimenta questo meccanismo (un mondo di piccoli proprietari sostiene sulle proprie spalle, senza rendersene conto, il gigante economico).

Le politiche economiche nazionali incidono sui meccanismi di redistribuzione del sovrappiù che si realizza sul territorio e sulle possibilità di destinarlo ad investimenti duraturi. Una parte dei problemi attiene a questioni direttamente pertinenti al nostro ambito di intervento ed è su queste ultime che ci vogliamo concentrare.

Molto schematicamente, possiamo focalizzare il nostro ragionameno su tre punti:

a. le decisioni e gli interventi sulla città producono rendita ; quest’ultima è ineliminabile nell’attuale sistema economico sociale, ma non incomprimibile; proprio perché consapevoli di questo, abbiamo una grande responsabilità con i piani urbanistici; questi ultimi possono essere concepiti come strumento per produrre rendita (o, più precisamente, investimenti immobiliari), oppure come strumento per rispondere ad una domanda sociale; la differenza non è (solo) etica, ma attiene alle conseguenze sulla qualità della città, della società e dell’economia. A Bagnoli le scelte del PRG (basso indice di edificabilità e consistenti opere pubbliche) hanno determinato un ‘riposizionamento’ verso il basso dei valori immobiliari dell’area nei libri contabili della proprietà. Il minusvalore registrato coincide con la quota di rendita ritenuta inessenziale o dannosa per la collettività. Il caso di Milano è, per ragioni opposte, altrettanto emblematico. Il nuovo piano è palesemente inadeguato a fornire risposte a domanda sociale, ma perfettamente congegnato per produrre rendita: generano metri cubi le aree verdi del parco sud, si prevedono densità elevate all'interno della città (anche sulle aree pubbliche dismesse), è consentita una massima flessibilità per le destinazioni d’uso, come se fossero interscambiabili. In che modo il piano interagisce con la domanda di spazi, effettiva o drogata dalle aspettative che si formano al momento stesso delle decisioni di piano? A quali segmenti intende dare risposta, con quali obiettivi, in termini di ricadute sociali ed economiche? Quale "filosofia" esprime? Se il piano è lo strumento attraverso il quale rendere pubblico questo bilancio tra domanda e offerta, affinché sia verificato e valutato dai cittadini per essere poi assunto dall’amministrazione, ci rendiamo conto dell’importanza che assumono le scelte urbanistiche.

b. Di questa deriva non sono unici responsabili gli enti locali male amministrati: in nome della scarsità di risorse pubbliche, le politiche statali giustificano e incentivano la svendita del territorio e la consegna agli immobiliaristi di decisioni che spetterebbero agli enti locali e allo stato. Con ciò alimentando la rendita e la forza degli immobiliaristi, anziché contrastarle, e - conseguentemente - producendo una città più ingiusta e più brutta. Affinché si possano sviluppare le politiche urbanistiche che riteniamo virtuose (ambientalmente, socialmente ed economicamente) occorre pretendere – a scala nazionale e regionale – modifiche alle leggi e alle politiche di finanza, affinché sia ricostituito un quadro accettabile nel quale le amministrazioni locali possano muoversi. L’esempio mirabile della costituzione spagnola indica la direzione da perseguire nel riequilibrare il quadro giuridico, oggi troppo incerto e sbilanciato a favore degli interessi singoli rispetto a quelli collettivi. Né i silenzi, né le ambiguità possono essere accettabili: socializzare la rendita deve essere ritenuto un diritto per i cittadini e un dovere per le amministrazioni locali. Al contempo, i meccanismi di finanziamento delle politiche locali devono essere profondamente rivisti: da un lato, si tratta di rivedere oneri di urbanizzazione, contributi di miglioria, oneri ‘ambientali’, affinché le trasformazioni si facciano carico di una quota di investimenti pubblici strettamente correlati; dall’altro occorre trasferire risorse alle politiche territoriali e urbane, argomento che riprenderemo;

c. una volta ridefinita la cornice, occorre attrezzarsi per valutare le proposte dei privati sulla base di criteri qualitativi e non su aspetti meramente finanziari (i nuovi quartieri che Maria Cristina Gibelli ed io mostreremo sono radicalmente differenti – nell’organizzazione, nella forma e nelle funzioni – dagli ammassi di condomini, palazzine e capannoni che vengono proposti dagli immobiliaristi nostrani) o meramente formali (i nostri uffici tecnici che cosa valutano, oltre alla conformità giuridica? Fino a che punto, quest’ultimo profilo assorbe tutti gli altri?); una quota della rendita può essere socializzata; lo dimostrano gli esempi che faremo, tutti basati su un rapporto pubblico-privato ricondotto entro un alveo di ragionevolezza: se il piano risponde ad una domanda sociale, è all’amministrazione pubblica che competono le decisioni urbanistiche; fermo restando il profitto del privato nel costruire e rivendere, le rendite possono essere socializzate almeno in parte (attraverso opere pubbliche e realizzazione di edilizia sociale/innovativa…) stabilite mediante accordi e convenzioni; gli esempi che porteremo mostrano che è possibile muoversi in questa direzione (come illustrato da Camagni nelle edizioni passate della scuola, gli oneri accollati ai “developer” a Milano ammontano a meno di 1/10 del valore di mercato, mentre nel modello So.bon ammontano a 1/3);

d. la pretesa che la costruzione della città possa essere interamente delegata al settore immobiliare (project financing) è illusoria; le città richiedono certamente investimenti privati, ma anche una mole consistente e prolungata nel tempo di investimenti pubblici (nelle infrastrutture, nelle reti, nella gestione delle attrezzature, nelle politiche per le persone e i luoghi – cfr. libro Spazi pubblici). Pur rinviando alla prossima edizione della scuola una trattazione più approfondita di questo argomento, dobbiamo (1) togliere alibi alla speculazione edilizia (cfr., nelle letture, i commenti al PTR del Veneto), (2) porci il problema della quantità di risorse e della loro allocazione, ovverosia pretendere maggiore attenzione verso le politiche per le città (altro che chiacchiere sul federalismo) e prendere atto dell’avvenuta “rivoluzione urbana senza un’adeguata rivoluzione istituzionale” (la dilatazione e coalescenza degli insediamenti causa una duplice debolezza, tanto delle iniziative dei comuni maggiori quanto dei tentativi di promozione dell’intercomunalità basati esclusivamente su approcci volontaristici ; la capacità dei nostri territori di esprimere ‘strategie territoriali’ di medio periodo è molto bassa… ecc.).

Quali strumenti consentono di “contrastare la rendita”? Verso quali obiettivi e finalità concrete (quale tipo di città) possiamo orientare le trasformazioni urbanistiche, se ci liberiamo del peso eccessivo della rendita?

Per rispondere a queste domande abbiamo chiesto a Maria Cristina Gibelli di evidenziare le condizioni e gli strumenti entro i quali l’iniziativa privata e il partenariato pubblico-privato posso essere orientati al raggiungimento di obiettivi di interesse generale: riqualificazione delle città, promozione di vivibilità e urbanità, all’attenzione all’ambiente, incremento della coesione sociale.

Nel primo intervento l’attenzione è focalizzata sui modi in cui, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, in Europa, il partenariato pubblico-privato è stato orientato al raggiungimento di obiettivi di rigenerazione economica e fisica, coesione sociale, promozione di vivibilità e urbanità, attenzione all’ambiente.

Nel secondo intervento sono illustrati e commentati criticamente alcuni esiti concreti del partenariato pubblico-privato in Francia, Spagna e Germania, caratterizzati da regia pubblica, trasparenza dei processi e del “quadro contrattuale”, benefici collettivi concretamente valutabili.

In calce le slide delle due presentazioni.

L’indebolimento del tessuto sociale e, ancor di più, della classe dirigente (pubblica e privata) hanno un ruolo tutt’affatto marginale nel mancato contrasto all’appropriazione privata della rendita.

Fabrizio Bottini, tornando alle radici dell'urbanistica contemporanea con un caso storico emblematico, ci parla della città come “costruzione collettiva” "Sono gli uomini a fare le città, poi sono le città a fare gli uomini", si afferma in un sussidiario per le scuole, con il quale i principali rappresentanti dell'economia cittadina di Chicago vogliono spiegare ai ragazzi l'importanza delle decisioni sull'assetto della città.

L’intervento di Bottini, in apparenza lontano nel tempo e nello spazio, è prezioso per non dimenticare che:

- la città è una costruzione collettiva;

- la città è tale quando è capace, attraverso i suoi amministratori e i suoi abitanti, di riflettere su se stessa e agire di conseguenza.

In calce le slide della presentazione.

Nel sito Mall alcuni estratti del manuale, tradotti e presentati da Fabrizio Bottini.

Nell'ambito della prima parte (La rendita) della lezione di Edoardo Sazano (vedi testo) Roberto Camagni ha inserito una serie di commenti, precisazioni e approfondimenti relativi alla rendita urbana, focalizzando l'attenzione sulle conseguenze negative del rapporto degenerato tra i percettori delle rendite e i decisori pubblici.

Gli argomenti trattati sono stati soprattutto:

- La rendita in generale e le condizioni per la sua formazione.

- La rendita urbana, sua ineliminabilità e suo carattere di “reddito non guadagnato” e residuo (non costo) di produzione.

- I meccanismi di formazione della rendita fondiaria in relazione agli interventi pubblici.

- Gli effetti della rendita, della sua mancata socializzazione e della “sottocapitalizzazione” delle città.

- La rendita oggi, il rapporto tra rendita e potere, il finanziamento dei beni pubblici e la tassazione delle rendite.

Camagni ha utilizzato le slides scaricabili qui sotto.

Come sarà la città “resiliente”, ovverosia capace di adattarsi alle condizioni del futuro, in uno scenario post-petrolifero? Piste ciclabili e strade libere dalle auto collegano le case-solari ai negozi, alle aree verdi e ai servizi, oppure ad una fermata del tram per raggiungere un posto più lontano in città. Davanti alla scuola i genitori aspettano in bici o a piedi i loro figli, e non rinchiusi nelle loro auto. È presente un negozio dove gli agricoltori del posto vendono prodotti biologici… Uno stereotipo? Un’utopia? Non esattamente, dato che stiamo descrivendo il quartiere Vauban a Friburgo.

Il quartiere Vauban di Friburgo costituisce un esempio di straordinario interesse. Proprietà pubblica dei suoli, regia complessiva del processo di attuazione (dall'ideazione alla realizzazione), socializzazione degli incrementi di valore del suolo derivanti dall'urbanizzazione, trasparenza dei processi e ampio spazio alla partecipazione, inquadramento delle realizzazioni all'interno di politiche urbanistiche e ambientali unitariamente concepite...

Questi e altri requisiti, peraltro condivisi in molte esperienze di rinnovo urbano e di realizzazione di nuovi insediamenti promosse nel nord Europa, sembrano indispensabili per assicurare che le operazioni di trasformazione delle città assicurino vantaggi per gli abitanti futuri e per tutti i cittadini, e non rappresentino mere occasioni di valorizzazione immobiliare.

In calce le slide di Mauro Baioni.

L'espansione delle città viene sollecitata dai proprietari dei suoli, che si avvantaggiano degli straordinari incrementi di valore connessi con il cambio delle destinazioni d'uso. Riconnettere le scelte della pianificazione ad un’analisi della domanda è il primo passo, fondamentale, per impedire che i percettori della rendita decidano a loro esclusivo vantaggio le sorti della città e del territorio.

Georg Frisch, parlando del PTC di Caserta, ci dimostra - dati alla mano - in che modo la domanda di spazi (se non è artificiosamente sostenuta) può trovare risposte adeguate nella città esistente, senza consumare suolo ulteriore e incentivando la riconversione di aree e di edifici dismessi per destinarli a nuove funzioni. L’arresto della crescita urbana, e della deriva infrastrutturale ad essa strettamente legata, può diventare un obiettivo concreto e praticabile. Nel caso particolare della provincia di Caserta, costituisce un'occasione per il riscatto di un territorio divenuto emblema dei mali peggiori del nostro paese.

In calce le slide della presentazione.

Nell'ambito della lezione a due voci con Piero Bevilacqua, De Lucia ha contribuito a illustrare, le ragioni per le quali la rendita immobiliare è così forte in Italia e le ragioni del consolidamento del cosiddetto “blocco edilizio”, sottolineando le conseguenze della cattura del decisore da parte dei percettori delle rendite in termini di equità sia in termini di efficienza (come testimoniano i problemi insoluti della casa, dei trasporti, dell’ambiente e del lavoro). Si è soffernato soprattutto sulle possibilità del potere politico di dminare, o comunque fortemente ciondizionare, l'incremento e la destinazione della rendita immobioare, riferendosi soprattutto alla fase del fascismo e a quella degli "anni della speranza" (anni 60 e 70 del secolo scorso).

Di seguito una nota su alcuni argomenti trattati, con una bibliografia essenziale.



Appunti per l’intervento alla scuola di eddyburg

sulla rendita fondiaria

La rendita fondiaria quale fattore decisivo della condizione urbana si manifesta pienamente, secondo me, dopo la seconda guerra mondiale mentre, durante il fascismo, era controllata dal potere politico (cfr. P. e R. Della Seta). Non si deve peraltro trascurare che, fino al fascismo, era stata modesta l’espansione urbana e quindi era limitato il campo di applicazione della rendita.

Non disponiamo di dati ufficiali ma penso che debba ritenersi corretta la stima che solo il 10 per cento dello spazio attualmente urbanizzato lo fosse già prima della seconda guerra mondiale (quello più o meno corrispondente ai nostri centri storici)

Nell’immediato dopoguerra, la rendita – ogni forma di rendita – si dilata in tutte le direzioni e sono inesistenti, o comunque inefficaci le azioni di contrasto della pubblica amministrazione. Che, anzi, non di rado, consapevole o meno, agisce a sostegno dei percettori di rendita. Il caso probabilmente più clamoroso è quello dell’Ina-casa, ente che peraltro, fece fronte con efficienza e tempestività (e spesso anche con ottime soluzioni architettoniche) al suo compito istituzionale di costruire alloggi di carattere popolare. Chiarissima in proposito è la descrizione che I. Insolera e G. Marcialis fanno degli interventi Ina-casa sulla via Tuscolana a Roma nei primi anni Cinquanta.

La necessità di un deciso intervento della mano pubblica per abbattere la rendita e realizzare così una consistente riduzione del costo degli alloggi si manifesta con evidenza all’inizio degli anni Sessanta, in occasione dei primi governi di centro sinistra. Ma i risultati sono deludenti, ed è nota la drammatica vicenda del ministro Sullo (E. Salzano).

La riforma del regime dei suoli che non era riuscita a Fiorentino Sullo, anche perché non sostenuta dal consenso popolare, approda invece a concreti risultati nel corso degli anni Settanta, a seguito dei grandi movimenti di lotta per la casa e per una più civile condizione urbana che si erano sviluppati a partire dalla fine degli anni Sessanta. Ma dura poco …

Sono convinto che, dopo l’assassinio (politico) del ministro Sullo, continua ad agire una sorta di sindrome Sullo che induce i politici italiani di ogni schieramento a rifuggire dalle posizioni di autentico contrasto alla rendita. Secondo Antonio Cederna e altri studiosi, la strategia della tensione, che ha inizio con le bombe di piazza Fontana del dicembre 1969, è una risposta al grande sciopero nazionale per la casa del 19 novembre 1969.

Comunque, alla fine degli anni Settanta, il quadro legislativo italiano in materia di urbanistica e di politica abitativa è sicuramente soddisfacente.

Ma proprio all’inizio del nuovo decennio ha inizio la controriforma. La rendita, a mano a mano, recupera le posizioni perdute, soprattutto attraverso:

- nuovi istituti fondati sulla deroga agli strumenti urbanistici

- la crescita vertiginosa dell’abusivismo che devasta le regioni meridionale (tre condoni in 18 anni)

- la scomparsa dell’edilizia pubblica.

Una delle forme più vistose di arretramento della politica urbanistica è il nuovo piano regolatore di Roma, approvato nel 2008 totalmente asservito alla rendita fondiaria, soprattutto attraverso l’invenzione dei diritti edificatori.

Eppure non è impossibile operare scelte in controtendenza, come nel caso del progetto Bagnoli (V. De Lucia).

Bibliografia minima



- Italo Insolera e Giusa Marcialis, L’azione privata, nel numero monografico 100-1002, dicembre 1971, di «Centro sociale», dedicato a La politica della casa in Italia.

- Italo Insolera, L’urbanistica, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, Einaudi, Torino, 1973, in particolare: Il meccanismo della rendita fondiaria, pp. 436 sgg. e Fine e continuità dell’urbanistica fascista, pp. 480 sgg.

- Piero Della Seta, Roberto Della Seta, I suoli di Roma. Uso e abuso del territorio nei primi cento anni della capitale, Editori Riuniti, Roma, 1988, in particolare: Il piano regolatore del 1909, la tassa sulle aree fabbricabili, le demanializzazioni, pp. 95 sgg. e Il decreto legge 6 gennaio 1941, n.2 e il principio dell’esproprio generalizzato, pp. 129 sgg.

- Vezio De Lucia, La legge urbanistica del 1942, in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma, 2001.

- Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Editori Laterza, Roma – Bari, 1998.

- Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia, 2010.

- Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano, 2010, in particolare pp. 155 sgg.

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